Analfabeti sonori, cosa manca al pubblico (e alla critica) di oggi?

Analfabeti sonori. Musica e presente è l’ultimo libro di Carlo Boccadoro, uscito da pochi mesi per l’Einaudi. Si tratta di un breve testo, di fatto un pamphlet, in cui l’autore, compositore e musicista a tutto tondo, vuole affrontare il tema della contemporaneità musicale, con un occhio di riguardo alla situazione italiana. L’autore avverte fin da subito che alcune sezioni del libro sono già apparse su alcune riviste, e lo testimonia il tono quasi da elzeviro che si rincorre lungo tutti i sette capitoletti in cui si sviluppa il testo.

Si comincia con un brevissimo Diario di bordo (con interpreti e antiche leggende), in cui viene introdotto quello che è un po’ il protagonista del libro e cioè la musica d’oggi, intesa come “musica contemporanea”.

Occorre forse precisare che, seguendo un uso tradizionale ma oggi sempre più contestato, con “musica contemporanea” l’autore vuole indicare quel repertorio di brani composti a partire dalla seconda metà del secolo scorso che vogliono ricondursi alla tradizione della “musica classica” in modo più o meno progressista, così che questa viene sviluppata, ripensata, rinnovata, senza perdere una certa continuità con il passato. Il punto di partenza del libro è proprio quel rifiuto verso il repertorio “contemporaneo”, quando non si tratta di indifferenza vera e propria, che proviene non solo dal grande pubblico, ma persino da musicisti e direttori artistici.

Il tema è indubbiamente scottante perché riguarda il valore contemporaneo di quelle forme artistiche che, in quanto sviluppo di una sensibilità formata perlopiù in seno ai movimenti modernisti, si scontrano invece con quelle maggiormente diffuse dai mezzi di comunicazione di massa.

Analfabeti sonori è insomma essenzialmente dedicato ad affrontare da diverse angolature il tema della presenza nella società di oggi della musica di tradizione “classica”, quindi anche e soprattutto di quella “contemporanea”.

Si parte con Organizzatori e interpreti (non tutti per fortuna), una discussione sul ruolo mostrato dal “sistema musica” nel promuovere o affossare la musica nuova, per proseguire con il “debunking”, come si usa dire oggi, dei luoghi comuni sulla musica contemporanea in Leggende.

La scrittura musicale dopo Internet e Attenzione all’attenzione sono invece dedicati a sviluppare il tema delle conseguenze su mercato e modalità d’ascolto della “rivoluzione Internet”, per poi giungere a conclusione nell’ultimo capitoletto che già nel titolo in forma di domanda e risposta, contiene il punto di arrivo delle disquisizioni dell’autore: Una musica per pochi? Assolutamente no.

Una breve divagazione da questi temi è costituita da La Contaminazione (con la “c” maiuscola!): una discussione non tanto sull’utilizzo in ambito musicale e artistico, a mio parere tanto abituale quanto discutibile, del concetto di contaminazione, ma piuttosto una sorta di vademecum con tanto di lista dei “buoni” e dei “cattivi” sui principi di quello che, a detta dell’autore, sembra essere un paradigma importante della musica “classica” nuova.

Vorrei però concentrarmi sull’argomento principale del testo e cioè sul rapporto tra “musica contemporanea” e società di oggi.

Si parte dalla constatazione dello scarso interesse per la musica non appartenente alla sfera pop, che viene esibito dalla stragrande maggioranza delle persone (3), ma anche dai media, i quali sembrano perlopiù considerare irrilevante sia la musica classica, sia, ancora di più, quella contemporanea (5-6).

Anche sovrintendenti teatrali e direttori artistici, che spesso esibiscono una allarmante ‘non conoscenza’ in materia (8), sembrano scegliere di assecondare l’immediato quanto superficiale apprezzamento del pubblico (15).

Infine gli interpreti stessi (direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti) (9) sono rei di cadere in depressione all’idea di aver a che fare con la nuova musica di derivazione classica. A tutto ciò si deve aggiungere la trasformazione delle pratiche produttive, distributive e di ascolto portate dall’avvento di Internet.

Il vero bersaglio della critica è la generale riduzione dell’attenzione all’ascolto nei suoi esiti più commerciali

Non si tratta però soltanto di conquiste in negativo. Boccadoro fa un breve elenco delle nuove possibilità fornite da Internet, come la facile disponibilità delle fonti musicali, ma provenienti soprattutto della tecnologia elettronica ed informatica in genere. Qui l’autore manifesta una sua competenza non particolarmente aggiornata sull’argomento e preferisce fornire una serie di esempi ad ampio raggio senza discuterli, mentre a mio parere sarebbe stato importante, nel contesto dell’argomento, svilupparne la portata.

In ogni caso, ci limitiamo a correggere l’affermazione dell’autore secondo il quale il brano elettronico Cosmic pulses di K.Stockhausen sarebbe stato pensato per centinaia di “piccoli amplificatori” (leggi altoparlanti) (46), quando invece è semplicemente richiesta la diffusione su soli 8 canali.

È però ovviamente agli aspetti negativi di Internet e della tecnologia digitale in genere che Boccadoro è più interessato. In particolare l’autore individua due conseguenze compositive che emergono dall’incapacità generale del pubblico di affrontare le novità e di riflettere su ciò che ascolta (48). La prima è il facile ricorso a formule che permettano l’immediata identificazione dell’autore rispetto ai suoi concorrenti (49); la seconda è la scelta, operata da molti artisti, di affidarsi ai cliché del pop più scontato (51) nel tentativo di accondiscendere ai gusti di massa per scopi puramente commerciali.

Ma il vero bersaglio della critica è la generale riduzione dell’attenzione all’ascolto, che l’autore esemplifica, nei suoi esiti più commerciali, con le durate eccessivamente brevi dei pre-ascolti di iTunes (60) e con le playlist pre-digerite di Spotify organizzate attraverso dubbie e facili categorizzazioni (71-74). Eccoci quindi arrivati alla stigmatizzazione di quell’“analfabetismo sonoro” che dà il titolo al libro, vale a dire “l’incapacità di seguire strutture musicali che richiedono un tempo significativo per esistere” (69-70) dovuta alla “scarsa capacità di attenzione” e all’”impossibilità di concentrarsi a lungo” (70). E il risultato è la proposizione da parte dei servizi di streaming di una “marmellata uniforme” al servizio di un ascolto superficiale (73) che non fa altro che promuovere questo analfabetismo.

Fin qui il quadro, decisamente a tinte fosche, che l’autore ci presenta nel descrivere la situazione culturale, italiana ma non solo, nei confronti di musica classica e contemporanea. Si tratta però di situazioni fin troppo risapute, almeno da chi opera nel settore, ed è quindi il momento di chiedersi se esistano possibili soluzioni a questo dato di fatto.

Purtroppo Boccadoro sembra dibattersi, per tutto il testo, tra il desiderio di restituire a istituzioni, interpreti e pubblico un senso di musica, che la riporti, per così dire, ai fasti di un tempo e lo sconforto di fronte al frustrante rifiuto di aprirsi ad esso anche da parte di persone capaci sì di sforzi cognitivi, ma che preferiscono riservare ad altre forme artistiche, come il cinema o la letteratura.

Il testo non presenta soluzioni al “problema“ della musica contemporanea

Ecco quindi il tentativo di correggere i luoghi comuni condivisi da cui siamo circondati: è colpa o no dei compositori se la musica contemporanea non la vuole ascoltare nessuno? E allora è giusto non finanziarla? Quello del compositore è un lavoro vero e proprio? Non basta che sia gratificato dalla sola esecuzione della propria musica?

Alla fine però, il testo non presenta né soluzioni al “problema“ della musica contemporanea, che vadano al di là di una auspicabile scelta avventurosa, da parte di istituzioni e musicisti, di promuoverla, né la possibilità di capire le possibili origini di questa situazione. L’ultima pagina del libro è affidata alla speranza in una “platea di persone non abbruttute intellettualmente” (96) che possa ancora concedere la sua fiducia ai compositori della tradizione, ma anche e soprattutto ai compositori di oggi.

Ho una certa difficoltà a discutere il contenuto di questo testo, perché da compositore sento molto questo risentimento verso una società che sembra aver tradito in qualche modo le aspirazioni dei musicisti della generazione, mia e di Carlo Boccadoro. Dall’altro lato però mi rendo conto che per affrontare adeguatamente lo stato attuale, nonché futuro, della cultura musicale occorre cercare chievi di lettura del presente che siano al di fuori del nostra “comfort zone” cognitiva e culturale, per quanto faticoso ciò possa essere.

Da compositore sento molto questo risentimento verso una società che sembra aver tradito le aspirazioni dei musicisti della generazione, mia e di Carlo Boccadoro

In primo luogo, l’autore presenta un gioco di contrapposizioni che non è sempre limpido. A volte parla di “musica classica” e di “musica contemporanea” come se fossero due aspetti della stessa tradizione separati da un confine cronologico, ma come vedremo più sotto la questione non è così semplice.

Se poi l’elenco dei rappresentanti della musica di tradizione “classica” è ampiamente articolata, quello degli autori che vi si contrappongono è relegata a un generico insieme di autori pop e rock più o meno d’antan che non riesce a rendere neppure lontanamente giustizia alle varietà della scena musicale d’oggi. Si parla di Spotify, di Apple Music e di playlist, ma non di musica, che viene troppo semplicemente caratterizzata dal semplice calcolo della durata di brani legati al pop internazionale.

Insomma, l’autore sembra ignorare le diversità della musica che circola oggi al di fuori della musica contemporanea e del pop più standardizzato.

Si pensi anche solo, ad esempio, alla vastità e varietà dei generi che sono in qualche modo legati al mondo della dance elettronica o all’ambient. Si tratta di decine e decine di generi e stili anche molto diversi tra loro, come l’IDM, la Vaporwave, la Drone ambient, per nominare i primi che mi vengono in mente, che non solo richiedono una grande capacità distintiva da parte del pubblico degli appassionati, ma che presentano in alcuni casi tratti stilistici estremamente diversi tra loro.

Non è certo l’esposizione a stili diversi o la sensibilità che manca al pubblico di oggi

E se il riferimento dell’autore sulle durate della musica d’oggi sembra essere i 2 minuti e 8 secondi dell’I love it di Kanye West e Lil Pump, si pensi allora a Somnium di Robert Rich, classico della Drone ambient, che dura ben 7 ore. Insomma, non è certo l’esposizione a stili diversi o la sensibilità che manca al pubblico di oggi, quanto una sua direzionalità verso quei tratti distintivi che caratterizzavano invece l’ascolto acculturato europeo tipico dell’Ottocento e in parte del Novecento.
E qui veniamo finalmente al “dunque”, cioè al punto forse più rilevante di questa recensione.

Abbiamo già accennato a quanto il termine “musica contemporanea” necessiti oggi di una revisione proprio per la pressoché inconciliabile diversità delle pratiche compositive che sembra rappresentare.

Il problema è però ben più vasto ed è dovuto alla incapacità di molti musicisti di area “classica” di superare un’idea di musica che abbiamo ereditato dall’Ottocento. Fino almeno al 1830 sembrava non esserci stato alcun interesse a manterere in repertorio brani che erano più vecchi di 20/25 anni al massimo, perchè erano scritti seguendo gusti estetici ormai superati. E i “classici” erano appunto quei pochi brani che si avvicinavano a quella soglia temporale, che assomiglia un po’ a quella che oggi regola i gusti e le mode del pubblico di massa.

In un processo di enorme trasformazione culturale che inizia intorno al 1830 e si completa vero il 1870 si forma l’idea che i brani musicali del passato, che ora iniziano a essere chiamati collettivamente “musica classica”, siano migliori e più importanti di quelli del presente, anche solo per il semplice fatto che sono del passato, e vadano di conseguenza eseguiti più spesso dei brani “contemporanei”.

Vengono inoltre sviluppati nuovi concetti come quello di sistema tonale e di armonia come la intendiamo oggi, nuove discipline come la musicologia, rivolta proprio ad affrontare i documenti del passato, e persino l’idea che dai concerti sia possibile ricavare denaro, con il conseguente sviluppo di strategie di marketing, di istituzioni come le società dei concerti, le stagioni musicali, e infine con la nascita del pubblico come lo intendiamo ancora oggi.

Insomma, possiamo dire che tutto quello che oggi crediamo di conoscere sulla cosiddetta “musica classica” e che diamo per scontato nell’idea di musica tout court nasca proprio nella metà dell’Ottocento. Non è questo il luogo adatto a sviluppare ulteriormente l’argomento, che può essere approfondito leggendo testi come il notevolissimo “The great transformation of musical taste” di William Weber.

Quello che qui è importante notare è che si viene a stabilire in quell’epoca un divario tra musica del passato e quella del presente, ben prima che si formino stili che diventeranno tipici prima della modernità e poi di ciò che è stato etichettato come “musica contemporanea” o “musica nuova”.

Sì all’ascolto di “musica classica”, sì anche all’ascolto di “musica contemporanea”, ma non certo perché chi ascolta l’una sia portato ad ascoltare anche l’altra

Questo divario ci aiuta a capire come il pubblico della “musica classica” possa essere sempre stato, in gran parte, ostile alla musica del presente. Ecco allora le intemperanze tipiche degli anni Sessanta e Settanta, pensiamo all’occupazione del palco da parte del pubblico per impedire l’esecuzione di brani di “musica nuova”, e infine al raggiungimento di quella sovrana indiffereza che dagli anni Ottanta giunge fino agli appassionati di “classica” di oggi.

Se pur i compositori di “musica contemporanea” hanno spesso, ma non sempre, sviluppato la propria estetica e il proprio stile a partire dalla tradizione “classica”, dal punto di vista della ricezione pubblica essi hanno costituito fin da subito un corpo estraneo a questa. Non è dunque lecito considerare la “musica contemporanea” come una semplice continuazione della “musica classica”, anzi la loro nascita in quanto categorie musicali si pone constitutivamente nel segno dell’antagonismo.

Dunque sì all’ascolto di “musica classica”, sì anche all’ascolto di “musica contemporanea”, ma non certo perché chi ascolta l’una sia portato ad ascoltare anche l’altra, così come ascoltare la “classica” non implica certo che si debba essere automaticamente appassionati di “metal”. E a maggior ragione non ha senso sostenere che chi non ascolta “musica classica” o “contemporanea” debba essere per forza un “analfabeta sonoro”, sia perché, come abbiamo accennato più sopra e contrariamente da quanto sostenuto da Boccadoro, il repertorio musicale a nostra disposizione è immenso ed estremamente vario anche senza includere la “musica contemporanea”, sia perché proprio questa varietà apre allo sviluppo di sensibilità d’ascolto, che tuttavia possono essere lontane da quelle più inerenti agli stili della “musica contemporanea”.

Che posizione prendere dunque di fronte alla cultura musicale d’oggi?

Che posizione prendere dunque di fronte alla cultura musicale d’oggi? È assolutamente importante conoscere il percorso che ci ha portato al presente, ma abbiamo visto come l’attenzione per la musica del passato non sia certo una costante nella nostra cultura, anzi, si tratta di una scoperta piuttosto recente, se si pensa che i primi documenti che segnano l’avvio della nostra storia musicale sono datati intorno all’800 DC, cioè ben 1200 anni fa.

Oggi forse, quello che potremmo chiamare “la bolla della musica classica” sembra essere giunta al suo esaurimento. Sempre meno persone sono interessate alla musica del passato, a meno che non sia inserita in un processo di marketing del revival. E sempre meno sono interessate a una corretta filologia, com’è anche testimoniato da una dilagante chiusura delle cattedre di Musicologia nelle università del mondo.

Se per buona parte degli ascoltatori Vivaldi, Nyman e Rondò Veneziano possono essere placidamente definiti “musica classica”, come ho sentito personalmente dire, bisogna ammettere che questa ormai, più che un repertorio contestualizzato storicamente, è diventata essenzialmente un brand, come la musica “New Age” o anche la stessa “musica contemporanea”, adatto a organizzare gli scaffali di un negozio di dischi, a identificare il marchio di una radio o un target di pubblico.

Come nel film Essi vivono siamo in balia dei mass media e soggetti alle riproposizioni di brani, stili e generi

Dunque se esiste un’idea di analfabetismo che esuli dall’imposizione di uno specifico corpus musicale e di una specifica accademia, questo può essere proprio legato all’apertura dell’ascoltatore verso possibilità di ascolto, che riescano a sottrarsi alla chiusura delle proprie abitudini. Si tratta dunque di promuovere la flessibilità dei propri criteri d’ascolto, la curiosità e in definitiva la possibilità di sviluppare sempre nuove sensibilità.

In questo senso, chiusi nel proprio mondo musicale, è possibile essere analfabeti sonori e allo stesso tempo grandissimi esperti di “musica classica” o di qualsiasi altro genere/repertorio, nessuno escluso. Ma se ciò che dobbiamo evitare è la tentazione di rinchiuderci nella gabbia dorata delle nostre abitudini d’ascolto, allora le nostre possibilità di alfabetizzazione saranno, almeno parzialmente, controllate da chi è in grado di formare queste abitudini e ha interessi a vincolarci ad esse.  Come nel film “Essi vivono” di John Carpenter siamo in balia dei mass media e soggetti alle riproposizioni di brani, stili e generi.

Solo con uno sforzo continuo della volontà, la cui possibilità è purtroppo concessa a pochi, sarà possibile smascherare le costruzioni e costrizioni dei media per rivolgerci alla nostra frontiera d’ascolto, che è diversa per ognuno di noi e può quindi avere le sembianze della “musica contemporanea” come della “Vaporwave”.

E in tutto questo che ne è del libro di Carlo Boccadoro? L’autore di “Analfabeti sonori. Musica e presente” sembra arroccato su una posizione in cui la “musica classica” viene presa, per i motivi che abbiamo elencato, come testimonial impossibile della “musica contemporanea”.

Boccadoro, nonostante la varietà delle sue pratiche musicali, finisce con il prendere una posizione accademica

In tutto il libro si assapora inoltre uno stile personalistico che ben si sposa con una certa apoditticità con cui i “buoni” sono separati dai “cattvi”, tutto sempre sotto l’egida inconsapevole della “musica classica”. E così Boccadoro, nonostante la varietà delle sue pratiche musicali, finisce con il prendere una posizione accademica dal quale sfornare diktat bonari, che non giova alla discussione.

Ma proprio per come si pongono stile e contenuto nonché per gli esiti di una critica che si accontenta di prendere la forma di un appello a istituzioni e musicisti è difficile togliersi dalla testa che alla fine il libro appaia più una sorta di spot pubblicitario per l’autore, che l’impostazione di un discorso critico.

Non è un caso che lo stesso titolo esibisca un epiteto negativo, quasi un insulto, che ben si adegua alla moda emersa negli ultimi anni di usare nei titoli di libri divulgativi o di costume, termini come “cretino”, “stupido” e adesso anche “analfabeta”, per irretire il lettore, che certamente non si ritiene tale. Ma forse proprio l’epiteto al centro del testo poteva fornire l’occasione di contestare l’abitudine di pubblico e istituzioni d’oggi di considerare la musica, tutta la musica, come forma di intrattenimento, con tutti i problemi di valore che ne risultano.

Certo ci si può divertire con la musica, ci si passa il tempo e si può persino usarla come strumento terapeutico. Ma la musica è prima di tutto pensiero, spesso inconsapevole, a volte invece preciso al punto da diventare sgradevole e scomodo. Questa idea di musica e le pratiche compositivo-esecutive che ne sono derivate, sono emerse alla consapevolezza solo negli ultimi cento anni.

Per questo motivo e cioè per la valenza critica, innovativa e visionaria della musica va sostenuta la produzione di nuova musica, ma anche lo sviluppo di sensibilità d’ascolto, che non debbano essere vincolati agli esiti del botteghino. Non per la maggiore o minore adesione a una tradizione.

Purtroppo però questa argomentazione si lega a una discussione più ampia sulla cultura e forse noiosa per il pubblico generalista e non viene affrontata adeguatamente, per dire un eufemismo, nel libro di Boccadoro. Il che è un peccato, perché come detto all’inizio si tratta di un argomento scottante, ma che richiede uno sforzo argomentativo che non sembra essere nelle corde dell’autore.

Insomma, “Analfabeti sonori. Musica e presente” è alla fine un’occasione persa che mi auguro abbia almeno la forza di stimolare una riflessione sulla contemporaneità musicale. E se non è detto che la “musica contemporanea” ne uscirà vittoriosa, che almeno la sua dipartita sia foriera di nuova musica e di nuove sensibilità.


Immagine di copertina da Unsplash: ph. Spencer Imbrock