Ridare il controllo agli artisti: la blockchain e il futuro di ogni cosa

In tutti i settori creativi, ma soprattutto nella musica, la mancanza di empowerment genera un continuo sfruttamento da parte di intermediari che monopolizzano la distribuzione e il marketing dei materiali creativi e che, in cambio dei propri servizi, rivendicano per contratto dei “diritti” su quei materiali. I beni comuni sono ancora ben lontani dall’utopia di un sistema di condivisione aperto, e che ispiri la creatività, come quello immaginato dal professore di Harvard Lawrence Lessig e da altri leader del movimento per la “cultura libera”.

In che modo la tecnologia blockchain e i sistemi crittografici dell’informazione distribuita potrebbero contribuire a correggere questo squilibrio? […]

Pubblichiamo un estratto dal libro di Michael J. Casey e Paul Vigna, La macchina della verità (FrancoAngeli)

Un servizio basato su Ethereum e chiamato adChain sta sviluppando un percorso di audit dei dati usati dalle aziende pubblicitarie basato su blockchain, mentre un consorzio di pesi massimi del settore dei media, che comprende Comcast, Disney, NBCUniversal, Cox Communications, Mediaset Italia, Channel 4 e TF1, ha lanciato una propria Blockchain Insights Platform per trasferire in questo sistema l’acquisto della pubblicità. Ma una sfida molto maggiore è immaginare come le blockchain potrebbero essere usate, in modo più efficace, per misurare e remunerare la produzione di contenuti creativi, soprattutto in considerazione del fatto che, nell’era dei social media, siamo tutti produttori. Ma come possiamo tracciare tutto?

Senza farsi intimorire, un’alleanza informale di tecnologi, imprenditori, artisti, musicisti, avvocati e dirigenti del settore discografico consapevoli dei pericoli del momento sta esplorando un approccio basato su blockchain al fenomeno complessivo dell’espressività umana.

L’idea essenziale è che, aggiungendo dei metadati su autore, data di creazione, titolo dell’opera e altri aspetti dell’oggetto digitale e poi registrandoli in una transazione di una blockchain non più modificabile, sia possibile trasformare qualcosa che oggi è radicalmente replicabile e non tracciabile in un oggetto di proprietà unico e definito i cui viaggi attraverso la rete possano essere seguiti e controllati. Questo, auspicabilmente, andrebbe a vantaggio sia dei creatori delle opere, sia dei loro fruitori.

Alle 19:57 del 2 febbraio del 2015, producemmo un hash del nostro primo libro e inserimmo l’informazione nel blocco numero 341705 della blockchain di Bitcoin.

In questo campo, siamo stati degli sperimentatori abbastanza precoci. Alle 19:57 del 2 febbraio del 2015, producemmo un hash del nostro primo libro, The Age of Cryptocurrency, e inserimmo l’informazione nel blocco numero 341705 della blockchain di Bitcoin. Dan Ardle, responsabile della formazione del Digital Currency Council, di cui usammo lo strumento di registrazione nella blockchain per effettuare la transazione, ne descrisse le implicazioni in questo modo: “Questo hash appartiene esclusivamente al libro e non avrebbe potuto essere generato prima della composizione del libro. Con l’inserimento di questo hash in una transazione in bitcoin, l’esistenza del libro alla data della transazione è certificata nel sistema di registrazione più inattaccabile che l’umanità abbia mai concepito”.

Per certi aspetti, è una versione molto più sofisticata del vecchio trucco usato dagli scrittori per affermare i propri diritti sulle proprie opere: si spedivano una copia del manoscritto, usando le poste per registrare implicitamente, con una certificazione autorevole della data, la propria posizione di autori.

A dire la verità, non dubitiamo del fatto che un qualsiasi tribunale degli Stati Uniti riconoscerebbe i nostri diritti sull’opera. Abbiamo registrato il libro nella blockchain solo per chiarire l’idea. Inoltre, del libro sono state vendute soprattutto delle copie cartacee – non replicabili, cioè, ma anche non tracciabili –, sulle quali l’atto della registrazione nella blockchain ha un impatto minore.

La speranza è che la tecnologia blockchain possa svolgere la stessa funzione che svolgono i fotografi quando appongono una firma e un’etichetta, in numero finito, a ogni stampa di una data foto.

L’ambito nel quale questa idea crea davvero delle possibilità è quello della sua applicazione alla riproduzione digitale delle opere artistiche e musicali che oggi, che piaccia o meno, vengono moltiplicate in tutta la rete. La speranza è che la tecnologia blockchain possa svolgere la stessa funzione che svolgono i fotografi quando appongono una firma e un’etichetta, in numero finito, a ogni stampa di una data foto: un contenuto che altrimenti sarebbe replicabile diventa un bene unico, in questo caso un bene digitale.

La cantante e cantautrice britannica Imogen Heap, vincitrice di due Grammy Award, è stata una pioniera della tecnologia blockchain. In collaborazione con Ujo, un’altra creazione di ConsenSys, il laboratorio di Ethereum, Heap ha registrato Tiny Human, la canzone che aveva scritto per la sua bimba appena nata, sulla blockchain di Ethereum. Per 60 centesimi, le persone avrebbero potuto scaricare la canzone, sapendo che i loro soldi sarebbero stati automaticamente ripartiti e distribuiti dagli smart contract a coloro che avevano contribuito al progetto, compresa non solo la stessa Heap, ma anche il tecnico del suono e gli altri musicisti.

Allo stato attuale, le case discografiche monopolizzano le informazioni di marketing sui brani dei propri artisti

Per 45 dollari, un musicista impegnato in un progetto non commerciale avrebbe potuto scaricare i vari stem – voce, batteria, basso e archi – per campionarli e incorporarli nei propri lavori. È lecito dire che, da un punto di vista di marketing, il successo non è stato travolgente.

L’entusiasmo di Heap non riguarda tanto la prospettiva dei profitti derivanti dalla vendita diretta della sua musica, quanto le informazioni più ricche che diventerebbero diffusamente accessibili una volta che un collegamento non modificabile con il musicista rendesse tracciabile il file musicale.

E Heap, invece di trattare quei dati come uno strumento con il quale i musicisti potrebbero contendersi le risorse necessariamente limitate del pubblico, proteggendo il proprio lavoro tramite l’affermazione del copyright, guarda innanzitutto alle possibilità di scoperta, collaborazione e innovazione che si profilano quando aumentano le informazioni disponibili sugli artisti. “Ci sono milioni di artisti, al mondo, ma di loro non sappiamo niente. Non sappiamo niente della loro musica.
Non abbiamo idea di che cosa sappiano fare. Non conosciamo le loro capacità”, dice Heap. “L’idea è di fare emergere queste persone, di farle uscire allo scoperto in modo da non celebrare e pagare, anche se molto bene, sempre e solo una ristrettissima minoranza, di permettere a tutti di farsi vedere. […] Lo trovo entusiasmante perché il settore della musica è pronto per il cambiamento e sento che questo è davvero l’inizio”.

L’idea obsoleta è che, diversamente dai supporti materiali come i libri e le videocassette, i file digitali non possano essere trattati come beni unici

Allo stato attuale, le case discografiche monopolizzano le informazioni di marketing sui brani dei propri artisti. Usano il potere che ne deriva in modo rapace, entro quella cornice legale del digital rights management (DRM) che si è evoluta per contrastare le violazioni del copyright nell’era di Internet.

I consumatori e fruitori dell’arte ritengono che questo sistema sia deprecabile, per i vincoli restrittivi che impone alla creatività (un regista che stia girando un documentario, per esempio, dovrà fermare le riprese, se sente della musica sullo sfondo, a meno di rischiare una causa da parte dell’etichetta che detiene i diritti del brano). Ma il sistema DRM viene spesso criticato anche dagli artisti, che ne ricavano ben pochi vantaggi. “Preferisco che i miei fan si prendano la mia musica e la condividano, se la amano, non che siano denigrati e criminalizzati per averlo fatto”, dice Heap.

Ecco il punto, però: il sistema DRM è stato creato per gestire il problema della riproducibilità incontrollabile del mondo digitale, ma questo è un problema che ora potremmo avere risolto. L’idea obsoleta è che, diversamente dai supporti materiali come i libri e le videocassette, i file digitali non possano essere trattati come beni unici, o singoli oggetti, finché si possono produrre delle copie perfette praticamente a costo zero. Ma questo significa che, con il sistema DRM, la produzione artistica finisce per essere governata da politiche che mirano a restringere, invece che ad allargare, la ricezione e l’uso.

Con la tecnologia blockchain potremmo riportare in vita l’antica esperienza dell’arte come valore specifico

E significa anche che le nostre scelte, da consumatori, sono spesso più vincolate di quanto non fossero prima. Da quando lo streaming è diventato la modalità di default per accedere alla musica e ai film – e per monetizzarli –, abbiamo assistito anche a un peggioramento della qualità delle registrazioni, per esempio, dovuto all’esigenza di ottimizzare l’uso della banda.
Questo andrebbe bene, se i consumatori potessero scegliere di pagare di più per accedere a contenuti di qualità superiore su diverse piattaforme, ma di fatto non possono (e questo, insieme con la nostalgia e gli hipster prodotti da Brooklyn, spiega almeno in parte la rinascita del vinile).

Con la tecnologia blockchain, d’altra parte, potremmo riportare in vita l’antica esperienza dell’arte come valore specifico. Quello che potrebbe fare la tecnologia blockchain, sostiene Lance Koonce, avvocato presso Davis Wright Tremaine, è creare una versione digitale della “dottrina della prima vendita”, un’idea che può essere compresa più facilmente in relazione al contesto dei libri.

La copia di un file digitale, che si tratti di testo, musica o video, è sempre stata un’operazione banale. Ora, dice Koonce, con i modelli basati su blockchain, “assistiamo allo sviluppo di sistemi che possono garantire senza dubbio alcuno che una particolare ‘edizione’ digitale di un’opera creativa è l’unica che possa essere legittimamente trasferita o venduta

Poiché la vendita di un bene materiale comporta il trasferimento sia della sua proprietà sia del suo possesso, i rivenditori di libri di seconda mano sono autorizzati a rivendere i libri quante volte vogliono. Il venditore non può tenere una copia del libro anche per sé – non senza sobbarcarsi il lungo, dispendioso e insoddisfacente (nonché illegale) lavoro di fotocopiatura del libro, prima di passarlo al compratore. Per gli ebook e per qualsiasi altro file digitale, però, si presenta lo stesso problema che affliggeva le valute digitali prima del bitcoin: la doppia spesa.

La copia di un file digitale, che si tratti di testo, musica o video, è sempre stata un’operazione banale. Ora, dice Koonce, con i modelli basati su blockchain, “assistiamo allo sviluppo di sistemi che possono garantire senza dubbio alcuno che una particolare ‘edizione’ digitale di un’opera creativa è l’unica che possa essere legittimamente trasferita o venduta”.

C’è ancora molta strada da fare, prima che intorno a questi beni digitali non riproducibili si crei un’economia vitale. Le tecnologie per copiare i file non spariranno semplicemente, a prescindere dal fatto che il primo cliente abbia ottenuto l’opera direttamente da un artista che l’aveva registrata su una blockchain, e gli attori che più di tutti si arricchiscono grazie al vecchio sistema non molleranno tanto facilmente la gallina dalle uova d’oro.

la semplice esistenza di metadati all’interno di una struttura non modificabile dà all’artista la possibilità di gestire le proprie risorse creative senza affidarsi a intermediari

Tuttavia, la semplice esistenza di metadati all’interno di una struttura non modificabile dà all’artista la possibilità di gestire le proprie risorse creative senza affidarsi a intermediari, quali le case discografiche, che si occupino per loro del DRM. Gli utenti dei media vorrebbero davvero accreditare gli autori di ciò che fruiscono in modo appropriato. Questo sistema potrebbe aiutarli a farlo in modo equo e senza difficoltà.

Ujo non è certo l’unica startup che stia esplorando i modi in cui le blockchain potrebbero aiutare gli attori del settore dei contenuti digitali a gestire i propri affari. Il campo si sta allargando e comprende Monegraph, che aiuta gli artisti a gestire in proprio le licenze tramite una certificazione basata su blockchain dei loro diritti; Stem, che usa gli smart contract e delle registrazioni datate degli accordi di collaborazione per aiutare i membri delle band e gli altri contributori ai loro progetti musicali a dividersi automaticamente le royalties generate da YouTube e altre piattaforme; e dotBlockchain Music Project, che ha l’obiettivo di introdurre un file codec unico, con estensione “.bc”, che contenga tutti i dati sulla provenienza di una canzone certificati da una blockchain.

Fra gli oltre 170 partecipanti alla Open Music Initiative promossa dal Berklee College of Music ci sono Sony Music Entertainment, Universal Music Group e Warner Music Group

Nonostante tutte queste iniziative e collaborazioni, è probabile che i pesi massimi dei settori creativi, la cui partecipazione, in larga parte, è ancora necessaria, si muovano con piedi di piombo.

Ciò detto, alcuni di loro stanno esplorando queste tecnologie. Fra gli oltre 170 partecipanti alla Open Music Initiative promossa dal Berklee College of Music ci sono anche grandi case discografiche come Sony Music Entertainment, Universal Music Group e Warner Music Group, nonché fornitori di contenuti in streaming come Spotify, Napster e Netflix.

La capacità di questo progetto non profit di indurre questi attori dominanti ad accettare nuove regole, comunque, dipenderà dal successo con cui il progetto perseguirà la propria missione di creare “un protocollo open source per l’identificazione uniforme degli autori e dei detentori dei diritti di brani musicali”.

Questo significa anche stabilire chi possa vantare dei diritti su larga parte dei contenuti non professionali che vengono pubblicati su Facebook e Instagram, YouTube, Flickr e Pinterest

Non state con il fiato sospeso in attesa del momento in cui le case discografiche abbracceranno davvero questa idea, però. C’è un rischio reale che l’Open Music Initiative si riduca a niente più che un mucchio di discussioni e dichiarazioni di intenti manovrate dai soggetti dominanti per bloccare i cambiamenti che possono mettere in discussione i loro diritti di proprietà su una montagna di vecchie registrazioni.

Su questo terreno, quindi, l’attenzione andrà soprattutto, e inevitabilmente, alla nuova musica, ai nuovi film e alle nuove opere d’arte, invece che alla pila gigantesca delle opere già coperte da copyright su cui siedono le case discografiche e cinematografiche.

Nondimeno, c’è una forte spinta a mettere ordine in una grande massa di materiali già pubblicati, fondando anche la possibilità di legittime rivendicazioni, in vista della creazione di un’infrastruttura di informazioni identificabili sulle opere creative, la loro storia e i loro autori.

Questo significa anche stabilire chi possa vantare dei diritti su larga parte dei contenuti non professionali, o potenzialmente professionali, che vengono pubblicati in contesti come Facebook e Instagram, YouTube (di Google), Flickr (di Yahoo) e Pinterest. Su queste piattaforme, i nostri contenuti collettivi producono valore per le aziende proprietarie, ma raramente lo fanno anche per noi che li abbiamo creati.

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Immagine di copertina: ph. Kevin Horstmann da Unsplash