Chi sono i nuovi maestri del sospetto: Warburg, Freud, Benjamin

Era il 1965 e si dava alle stampe De l’interpretation. Il filosofo francese Paul Ricœur coniava un’espressione destinata a lasciare il segno: i “maestri del sospetto”, con riferimento a Karl Marx, Friederich Nietzsche e Sigmund Freud. Ad accomunarli, la capacità di mettere a soqquadro categorie di pensiero fino a quel momento date per scontate, di mostrare che dietro alle grandi certezze sussistevano finalità economiche, volontà di potenza e impulsi inconsci.

Come per gioco, potremmo chiederci quali siano oggi i nuovi maestri del sospetto, i pensatori che potremmo confermare oppure aggiungere, a quelli proposti da Ricœur, per mettere in discussione e comprendere il tempo presente, un presente di certo pervaso d’immagini e tecnologie. Le ipotesi possono essere molte e decisamente agguerrita la discussione. Ma, intanto, una possibile risposta a questa domanda si trova nel nuovo libro di Michele Cometa: Cultura visuale. Una genealogia, da poco uscito per Raffaello Cortina.

Come per gioco, potremmo chiederci quali siano oggi i nuovi maestri del sospetto

Sviluppandosi in modo complementare all’omonimo volume di Andrea Pinotti e Antonio Somaini uscito qualche anni fa per Einaudi, Cultura visuale descrive la genesi e i caratteri di questo campo di studi per focalizzare l’attenzione su tre studiosi vissuti a cavallo tra Ottocento e Novecento e capaci di intuire la trasversalità del visuale e i suoi effetti molteplici negli ambiti della vita individuale e collettiva: Aby Warburg, Sigmund Freud e Walter Benjamin.

Le prime pagine del libro coincidono con una densa introduzione mirata a disegnare i confini permeabili di quella che Cometa non esita a definire come un’“indisciplina”. Ad emergere non è semplicemente il carattere interdisciplinare o trans-disciplinare degli studi di cultura visuale, ma il loro l’approccio sperimentale e dinamico: “attestarsi sulla dizione visual culture ha significato scegliere un unico nome per la disciplina e l’oggetto della disciplina stessa” (p. 2).

La figura di W.J.T. Mitchell è dunque riconosciuta come il principale aggregatore, nella sua capacità di formalizzare l’idea stessa di pictorial turn e identificare una serie di plessi teorici e concettuali fondamentali: dalla distinzione tra “image” e “picture” all’approfondimento dei rapporti tra il visivo e il verbale, fino all’idea di “biopicture”.

Ma in questa stessa introduzione, Cometa si spinge oltre il dibattito statunitense e sostiene una concezione quanto mai vasta degli studi di cultura visuale, chiamando in causa tradizioni teoriche e metodologiche molteplici: dall’antropologia visiva di Hans Belting alla teoria dell’immagine di Hans Bredekamp, fino all’iconic turn di Gottfried Bohem; da Martin Jay teorico dei “regimi scopici” alla cultural analysis di Mieke Bal, fino a Georges Didi-Huberman, figura di punta di quella scuola francese di teoria dell’immagine che trova un fondamento nei lavori di Hubert Damisch e Louis Marin.

Anche le ricerche sui media di autori come Marshall McLuhan ed Edmund Carpenter vengono dunque chiamate in causa, nella misura in cui gli studi di cultura visuale si interessano al “sensorium, cioè il sistema dei sensi che i media attivano in modi complessi e interagenti” (p. 42). L’introduzione di Cultura visuale focalizza dunque la vitalità della ricerca italiana nel settore, annoverando alcuni filoni della storia dell’arte e della letteratura, ma anche le ricerche semiotiche, estetologiche, antropologiche, sociologiche e culturologiche, gli esperimenti neuroscientifici e il contributo degli studi sul cinema e sui media, particolarmente vitali nel corso degli ultimi anni.

Una volta impostato il terreno di gioco, il secondo e il terzo capitolo si concentrano dunque sulle tre figure che, in questa lettura del volume, mi permetto di chiamare “nuovi maestri del sospetto”. Warburg, Freud e Benjamin, la cui importanza per il pensiero sulle arti e sulle immagini si trova al centro anche di un’opera fondamentale come L’immagine insepolta di Didi-Huberman e che la ricerca di Cometa contribuisce ad approfondire e rilanciare.

Ripercorriamo i sentieri della vita personale e dalla malattia mentale di Warburg

Può suscitare dapprima stupore il fatto che, in un libro eminentemente teorico come Cultura visuale, la seconda sezione tragga spunto dalla biografia dei tre studiosi. Ripercorriamo i sentieri della vita personale e dalla malattia mentale di Warburg, i suoi tentativi di guarire attraverso il viaggio in New Mexico e la sperimentazione di nuove forme di organizzazione di immagini private e pubbliche. Ci spingiamo a ridosso del laboratorio del pensiero freudiano: l’importanza del testo biblico e delle illustrazioni che accompagnavano l’edizione in possesso della famiglia Freud; la sua fascinazione per la figura di Mosè, che lo accompagnerà per tutta la vita e carriera; la frequentazione degli ambienti parigini e, in particolar modo, della Salpêtrière, dove Jean-Martin Charcot sperimentava l’intersezione tra lo studio delle patologie mentali e la loro rappresentazione visiva. Rileggiamo i ricordi d’infanzia di Benjamin, la sua fascinazione per le tecnologie e per le forme di spettatorialità che, proprio in quegli anni, si disseminano e trasformano gli ambienti urbani dell’Europa continentale.

Ad emergere chiaramente è dunque il fatto che – soprattutto nell’epoca della riproducibilità tecnica – nessuna biografia è fine a sé stessa, ma è un modo per riflettere sull’impatto dei dispositivi tecnologici sui percorsi individuali, sulle le forme di soggettivazione e assoggettamento, sulle tattiche di resistenza e adattamento. Ritornare agli anni giovanili di Warburg, Freud e Benjamin significa in tal senso interrogarsi sugli albori di una nuova cultura visuale che avrebbe impattato su generazioni e generazioni, arrivando fino ad oggi. Significa riflettere sui procedimenti attraverso i quali si è cercato e tuttora si cerca di elaborare lo shock di tali trasformazioni.

In un’epoca in cui il dibattito pubblico sui media tende a focalizzarsi su termini come “influencer” o “fake news” e mentre, d’improvviso, si accende l’attenzione per le iconografie del potere politico, quali possono essere le virtù del “sospettare” e quale il “rigore” della riflessione?

La terza sezione del libro si intitola “iconoteche”. Indaga la passione, comune ai nuovi maestri del sospetto, per le immagini e per la disposizione d’immagini in quanto forma di comprensione dei loro significati, del loro funzionamento e della loro efficacia.

Si inizia con Mnemosyne, l’Atlante delle immagini della Memoria di Warburg, un progetto sviluppato tra il 1927 e il 1929: sessantatré pannelli su quali si dispiegano novecentosettantuno immagini fotografiche che si riferiscono principalmente a opere pittoriche e scultore, ma anche a oggetti mediali dei primi decenni del Novecento. È questa la concretizzazione visiva di quello “spazio del pensiero” (Denkraum) che Warburg aveva immaginato per decenni: l’ambiente mediale nel quale osservare il vitalismo delle Pathosformeln e le dinamiche di Nachleben, le “soppravvienze”.

Ma, attorno all’Atlante di Warburg, Cometa trova l’occasione per convocare la tradizione degli iconotesti precedenti e successivi all’esperimento dello studioso amburghese: dai cabinets d’amateur al Musée Imaginare di André Malraux, dagli atlanti di Marshall McLuhan e John Berger alla pratica artistica e cinematografica di Gerhard Richter e Jean-Luc Godard.

Proprio mentre il Warburg Institute di Londra si dota degli strumenti digitali per rendere pienamente fruibile a distanza il progetto Mnemosyne, si rende infatti necessaria la comprensione dell’influenza di tali progetti in ambito artistico e culturale, nelle pratiche del visuale che caratterizzano il contemporaneo.

Accostare i montaggi di Warburg a quelli di artisti novecenteschi o a quelli di qualsiasi utente del web non significa infatti cedere al “gusto per le facili giustapposizioni a cui ci ha abituato il postmoderno” (p. 167), ma è un’occasione per cogliere il potenziale critico di tale tecnica della conoscenza.

Accostare i montaggi di Warburg a quelli di artisti novecenteschi è un’occasione per cogliere il potenziale critico di tale tecnica della conoscenza

Quanto a Freud, l’attenzione si sofferma sui riferimenti iconografici e sui criteri di disposizione di immagini, statuette e oggettistica varia all’interno del suo studio sulla Berggasse di Vienna. Le configurazioni visuali caratterizzanti queste “installazioni multimediali” presenti negli spazi di vita e lavoro di Freud vengono dunque ripensate in riferimento agli orizzonti teorici e metodologici della disciplina da lui fondata. Ad emergere è la forza di un pensiero per figure, ovvero di un pensiero radicalmente visuale, costitutivo della sfera onirica, di quella sessuale, dell’inconscio e della pratica psicanalitica stessa: «Freud è implicitamente convinto che esiste evidentemente una storia delle immagini che attraversa le culture […] ma soprattutto crede nel valore esplicativo dell’associazione tra le immagini della tradizione colta, per la quale è costretto a esibire tutta la sua competenza archeologica, e le immagini popolari, come le caricature» (p. 230).

Anche in questo caso, la riflessione del libro non si limita a ricostruire il pensiero visuale di Freud, ma si apre al confronto con le ricerche successive che hanno sviluppato la convergenza tra la questione dello sguardo e l’indagine psicoanalitica e sociale. A tal proposito, vale la pena di ricordare le pagine dedicate al lavoro di Laura Mulvey e ai suoi tentativi di far lavorare le teorie freudiane sul cinema hollywoodiano, nello sviluppo di una teoria femminista della settima arte.

Se Warburg e Freud sono in qualche modo riusciti a dare forma a modelli di visualizzazione delle immagini come forma di conoscenza, il progetto di iconoteca benjaminiana resta perlopiù potenziale, nelle drammatiche contingenze storiche e personali che hanno impedito al filosofo tedesco di sviluppare le intuizioni accumulate in una manciata di anni.

Eppure, scrive Cometa, è possibile ritrovare nel progetto dei Passages di Parigi una concezione pienamente iconotestuale dell’argomentazione teorica e critica; Benjamin era inoltre un appassionato e specialista delle composizioni sperimentali di immagine e parola da parte delle avanguardie storiche.

Allo stesso modo, tanto nella Piccola storia della fotografia quanto nella Cronaca berlinese si ritrova l’interesse del filosofo nei confronti delle forme di disposizione delle immagini in una società in piena trasformazione; un interesse che rende possibile ipotizzare che Benjamin “fosse affascinato più che dalle singole fotografie dagli album che li assemblano” (p. 259).

Cultura visuale si conclude tornando sulla questione dell’indisciplina: l’auspicio che la cultura visuale possa mantenere “il proprio potenziale sovversivo nei confronti delle discipline accademiche quando risponde alle questioni che agitano l’attuale pictorial turn globale” (p. 297).

Proprio in tal senso, si legge poche righe dopo, Warburg, Freud e Benjamin possono essere considerati come “precursori”: tre figure resistenti a qualsivoglia tentativo di normalizzare la forza molteplice del loro pensiero. Le ultime pagine del libro sottolineano dunque le potenzialità di una prospettiva anacronistica, dove il confronto con i maestri del passato si sviluppa a partire da interrogativi e questioni che agitano l’orizzonte contemporaneo della cultura visuale: l’efficacia e l’agentività delle immagini, la loro resistenza all’essenzialismo e alle opposizioni binarie, l’eterna battaglia tra iconoclastia e iconodulia, gli innesti di tecnologia e biologia, l’affermazione di prospettive ecologiche che pongono al centro il problema della tecnica.

Quali possono essere le virtù del “sospettare” e quale il “rigore” della riflessione?

In conclusione, viene allora da chiedersi se il termine “sospetto”, utilizzato fin dall’inizio di questa recensione, sia effettivamente indicato per parlare, oggi, di Warburg, Freud e Benjamin. Viene da chiedersi se questi tre precursori non debbano anche essere considerati come “maestri del rigore”; beninteso, una nuova forma di rigore nella ricerca, paragonabile a quello che lo stesso Ricœur, nelle pagine di La memoria, la storia, l’oblio, identificava nella prospettiva archeologica di Michel Foucault, Michel De Certeau e Norbert Elias, dove i primi due hanno avuto tra l’altro un grande impatto sugli studi di cultura visuale.

In un’epoca in cui il dibattito pubblico sui media tende a focalizzarsi su termini come “influencer” o “fake news” e mentre, d’improvviso, si accende l’attenzione per le iconografie del potere politico, quali possono essere le virtù del “sospettare” e quale il “rigore” della riflessione?

A ben vedere, non si tratta di una forma superficiale di scetticismo, né di cinismo. Gli studi di cultura visuale non offrono ricette facili per allargare il proprio bacino di followers, né insegnano a scindere il vero dal falso, pur salvaguardando il senso di tale esigenza. Piuttosto, aiutano a riflettere sulle ideologie sottese a ogni immagine, sui rapporti complessi tra estetica, tecnica e politica.

Sospettare con Warburg, Freud e Benjamin diventa insomma un modo per analizzare e comprendere quanto sembra essere sotto gli occhi di tutti, ma che pure fatichiamo a vedere: precisamente le immagini, gli sguardi e i dispositivi che proiettano la loro ombra, richiamano alla memoria tendenze passate e fanno brillare di nuova luce il tempo presente.