Solo un riconoscimento istituzionale può salvare la musica dalla crisi

Ormai è chiaro: fase uno, fase due o fase tre, la musica dal vivo sarà in ogni caso l’ultima a ripartire. A livello globale, qualche settimana fa, in una conversazione sul New York Times l’esperto di bioetica Zeke Emanuel, già al fianco di Obama nell’ObamaCare, ha immaginato come data valida l’autunno del 2021 – un anno e mezzo giù dal palco, quindi. Se possibile, l’Istituto Superiore di Sanità per l’Italia ha rilasciato delle stime ancor più nere: per loro, finché non si trova un vaccino sarà impossibile solo ipotizzare assembramenti simili. Tradotto: zero concerti ancora per molto – perlomeno per come li conosciamo.

Di fronte alla pressoché totale certezza di uno stop del genere, a due mesi dall’inizio lockdown è già partito l’effetto domino su tutto il settore della musica, dall’industria discografica ai tecnici. Gli aiuti economici? Sono inadeguati, o rischiano comunque di perdersi: vuoi perché molti enti del settore non hanno riconoscimento giuridico specifico (e quindi vengono associati a figure simili, e trattati come tali; ma con differenze in questo momento ancor più evidenti), vuoi perché trascurati culturalmente, in un ambiente considerato alla stregua di un hobby – come denunciato dalle associazioni di categoria, e testimoniato dal polverone che si alza a ogni appello degli artisti, considerati dei miliardari che dovrebbero suonare e basta. Nel dubbio, andiamo per gradi.

L’industria discografica è a rischio?

Partiamo dall’alto. Un po’ di numeri: secondo la Fimi, dopo la chiusura dei negozi – complice anche il fatto che molte delle uscite sono state posticipate a data da destinarsi – la vendita di cd e vinili è crollata di oltre il 60%, arrivando al 70% se si considerano anche i diritti connessi. Una volta in casa, saremmo dovuti passare allo streaming – che nel virtuoso mercato Americano vale il 90% del fatturato del settore. Non è successo, per motivi ancora ignoti (certo è che si è preferita la tv, a Spotify), e per il 2020 Siae ha messo in conto un danno da 200 milioni di euro per gli autori.

Non va meglio per la grande musica dal vivo, per la quale Assomusica parla – a fine estate – di un rosso da oltre un miliardo, in gran parte per l’indotto. Per questo un appello come quello che Tiziano Ferro aveva sollevato a Che tempo che fa era più che adeguato, e le critiche fuoriluogo: bisogna sapere cosa fare, potersi organizzare; non tanto per gli artisti stessi, quanto per le 60mila persone che vivono dietro le quinte, perché alle spalle di ogni grande evento (di ogni, diciamo, San Siro) ci sono 200-300 fra tecnici, musicisti, promoter. E – se i grandi organizzatori di concerti adotteranno dei voucher nei confronti dei clienti che chiederanno rimborsi, sia per i live cancellati che per quelli posticipati – gli altri operatori, per adesso, non godono delle stesse tutele. Non tutti cadono in piedi, insomma.

Gli intermittenti

I più esposti alla crisi (e dimenticati dalle istituzioni) sono i lavoratori intermittenti, che nel sistema dello spettacolo italiano sono 200mila. Precari e in gran parte lavoratori dei concerti, la loro presenza massiccia nel settore è dovuta alle dinamiche stesse del mondo della musica, e per la maggior parte sono raggruppati in cooperative – sia per avere più opportunità, sia per snellire gli iter burocratici. Sono tecnici e maestranze varie: vivono di incarico in incarico, di mese in mese, e se già la situazione non è granché per gli autonomi – che godono del bonus dei 600 euro ma che, ovviamente, ripartiranno molto più tardi delle altre partite Iva – per loro, che sono “dipendenti”, è anche peggio. Di fatto, sono stati i primi a fermarsi, ma finora non hanno avuto pressoché alcun aiuto. Ed è un paradosso che nasce da lontano: chi crea cultura come loro, in Italia, è invisibile, non riconosciuto, escluso da ogni contratto di lavoro.

Nel caso di questi tecnici ‘a chiamata’, per dire, stavano per ricevere la cassa integrazione in deroga, ma poi l’Inps ha stabilito che l’indennità spettasse solo per le giornate in cui era già stata effettuata una chiamata prima della chiusura totale: pochissime, se si considera che a referto ci sono solo gennaio e febbraio. Ma non pensiamo solo a loro: fra le categorie più colpite dal lockdown ci sono tanto i musicisti più piccoli, quanto gli artisti stessi. Al di là dei cantanti che riempiono gli stadi, infatti, nel gruppo dei precari sono in tanti (compreso chi fa pianobar) a mantenersi con le proprie esibizioni dal vivo.

Tutte queste categorie devono essere riconosciute autonomamente, sapere quando tornare a lavoro e, in ogni caso, avere accesso ad ammortizzatori sociali come il reddito di emergenza, da cui tutt’ora sono esclusi. Perché il rischio è che, di fronte alle difficoltà, decidano di cambiare mestiere: un guaio non da poco, se si considera che si tratta di personale più qualificato della media, nonché altamente specializzato. Per questo, quando tutto questo sarà finito ci si potrebbe trovare a organizzare di nuovo concerti, sì… ma senza fonici, operai, tecnici.

Gli spazi che rischiano di sparire

Ma la crisi non risparmia neanche i live club italiani, che rischiano di sparire creando un problema d’impoverimento di spazi – da sommare a quello relativo al personale. Parliamo dei piccoli locali di musica dal vivo, dove le band propongono il loro repertorio originale, e che da noi non hanno un inquadramento giuridico specifico: alcuni sono associati alle discoteche, altri ai pub; ma con costi tecnici maggiori di quelli di entrambi, oltre che con necessità di programmare con largo anticipo le serate. Adesso, quelli riconosciuti come imprese hanno ottenuto i primi fondi, mentre gli inseriti nel terziario niente. Ma, con la prospettiva di essere comunque gli ultimi a ripartire, il rischio per entrambi è di non riaprire affatto. Così, però, andrebbero perse venue essenziali per la nostra musica, che oltre a rappresentare degli incubatori di cultura garantiscono spazio agli artisti che non possono permettersi location più grandi, sopperendo anche all’assenza di strutture adeguate in determinate zone del Paese.

La soluzione (come suggerisce l’associazione di categoria KeepOn Live) è applicare su quelle “mura” un modello in stile cinema d’essai – ovvero: sgravi fiscali e tutele, stabilendo criteri oggettivi di inclusione. Ritenerli, insomma, dei “centri di cultura”. Senza un intervento di questo tipo, il pericolo è che per sopravvivere diventino altro – ristoranti, pub, discoteche. E sarebbe la conseguenza naturale del mancato riconoscimento esclusivo: non inquadrati autonomamente pur essendolo di fatto, per resistere si snaturano e finiscono col somigliare proprio a ciò a cui la legge tende a equipararli. Rinunciando, così, alla loro peculiarità. E non sono neanche le sole oasi che rischiamo di perdere: anche l’ecosistema dei Festival è a rischio. Svanita la programmazione di quest’anno, bisognerà rivedere la prossima estate con quale voglia (e quali fondi) si potrà ripartire. E sempre se, si potrà ripartire.

Ha senso pensare a delle alternative?

Ora: al di là della riapertura dei piccoli negozi, non è comunque chiaro se l’industria discografica saprà far fronte alla crisi della liquidità. Le nuove uscite, infatti, potrebbero essere rimandate a lungo, perché legate a doppia mandata ad un’attività promozionale “dal vivo”, che sia l’instore o il concerto. In questo senso, tutte le richieste (comprese le dieci, trasversali, delle principali associazioni di categoria) vanno verso la conservazione della situazione attuale – il reddito d’emergenza, gli sgravi fiscali. Al netto, ovviamente, di un riconoscimento giuridico degli enti coinvolti. Ma è possibile pensare a delle alternative nel frattempo? Esiste un surrogato sostenibile dei live o degli instore?

Per gli incontri col pubblico, anche in Italia è già stata provata (da Ghemon per l’uscita del suo ultimo album, lo scorso 24 aprile) la soluzione “digitale”, con una sorta di video-call a due che potrebbe sostituire l’abbraccio fra artista e fan. Certo: manca il contatto fisico, ma sarebbe una modalità “nuova”, per certi versi paradossalmente più intima della rapida stretta di mano in negozio. Semmai, quindi, resta da capire piuttosto quanti musicisti saranno disposti a pubblicare i loro lavori senza la possibilità di suonarli dal vivo – visto che è qui la gran parte del problema, oltre alla più alta concentrazione di precari da salvare.

Da una parte, i piccoli locali: che potrebbero riaprire a capienza ridotta, coi posti a sedere distanziati, ma col dubbio che non sia un modello sostenibile a livello di ricavi e di costi di sanificazione, e che gli artisti stessi non siano disposti a esibirsi a queste condizioni. Al netto anche del fatto che, tra l’altro, il pubblico dovrebbe essere convinto a partecipare, a fronte del rischio contagio. Dall’altro lato, è assurdo pensare che prima di un anno si possa tornare a suonare davanti a più di (diciamo) mille paganti – ed è qui che la faccenda propone più soluzioni. Negli Stati Uniti, per esempio, un set di Erykah Badu è disponibile in pay per view. In Italia, questo, è un modello che per quanto riguarda i contenuti originali finora è stato adottato nella stand-up comedy da Luca Ravenna, ma resta da stabilire se e quanto sia esportabile nella musica. Certo è che questo report di Rockit racconta che il 75% degli intervistati non ama i live online, senza contare che gran parte dei lavoratori ne rimarrebbero comunque esclusi.

Gli ostacoli, insomma, non mancano in nessuna delle due dimensioni – quella grande o quella più intima dei live club. E il dubbio è che sia una questione di immaginario: concerti “fisici” ma con stringenti limitazioni, privi di “assembramenti” e senza “contatto”, non sono facili da digerire per nessuno, come rimarca anche lo scetticismo generale degli addetti ai lavori. Per questo, anche quella della musica drive-in sembra un’idea poco percorribile – oltre che economicamente insostenibile.

La parola d’ordine, allora, diventa “resistere”, con un eventuale ripensamento di alcune dinamiche della musica dal vivo da valutare solo poi. Per ora, conta salvare gli operatori del mondo della musica, e per farlo serviranno fondi e ammortizzatori sociali mirati. Quelli che non possono che arrivare dopo un riconoscimento istituzionale specifico, che non proceda più per “assimilazione”. E che parta dal presupposto che si tratta di agenti culturali.