Video mapping dentro e fuori l’arte

In questi ultimi anni si è assistito in maniera sempre più frequente, in ore serali e notturne, a un cambiamento di identità di alcuni importanti edifici. I palazzi, o meglio, le loro facciate, sono diventate soggetto e supporto di spettacoli luminosi, spesso accompagnati da musiche di vario genere e intensità. Questo tipo di espressione audiovisiva viene comunemente chiamata video mapping, o projection mapping, e prevede proiezioni non solo su edifici, ma anche su altri oggetti protagonisti delle città e del paesaggio come ad esempio statue, elementi naturali tra cui alberi e pareti rocciose o altre emergenze. In tutti i casi è necessaria l’assenza di altre luci se non quelle dei proiettori scelti per l’evento.

Sembrerebbe dunque una formula coinvolgente, intermediale, potenzialmente adatta a essere uno strumento di comunicazione privilegiato per chi opera nel mondo delle arti contemporanee. 

Invece, a ogni conversazione sul tema video mapping con curatori o con gli stessi artisti, mi è capitato di intercettare sul volto dei miei interlocutori una leggera piegatura dei contorni della bocca, come un sorriso trattenuto, indulgente, rivelatore del fatto che si stesse parlando di qualcosa di infantile, con la malcelata preghiera di riportarsi sul piano di ragionamenti più seri e importanti. Da adulti insomma.

È però strano che una tecnica o modalità di rappresentazione, come può essere la pittura ad olio, l’incisione, la fotografia o il cinema, debba essere discriminata ancora prima di affrontarne i contenuti, come se il mezzo del video mapping fosse compromesso in partenza, contaminato a priori dal proprio messaggio.

Proiezioni di luce come rivelazione e decadimento delle volumetrie architettoniche.
László Zsolt Bordos, “Contrasts” – University Of Debrecen 2016

 

A più riprese e in più occasioni ho ascoltato dibattiti e semplici discussioni nei quali ci si chiedeva come mai il video mapping fosse sempre considerato al di fuori dei confini dell’arte contemporanea. Ovviamente parliamo di Festival dedicati o altre operazioni che prevedono la presenza di una selezione fatta da una giuria o da una curatela, non certo di proiezioni a scopo commerciale o commemorativo a carattere natalizio. Perché credo che sia fuor di dubbio che progetti monumentali come quelli di Laszlo Zsolt Bordos, AntiVj, Urbanscreen, Refik Anadol  o di micro mapping come quelli di Tony Oursler solo per fare qualche esempio, lasceranno un segno nella storia dell’arte.

Per distinguere chi sta dentro e chi fuori dal perimetro dell’arte contemporanea, bisognerebbe definire prima in cosa consiste l’insieme dai bordi fumosi e mutevoli che è il concetto di arte nella nostra epoca. Stabiliamo, in questa sede, di riferirci a qualcosa che conduce all’espressione in rappresentazioni visibili e udibili, di pensieri o stati d’animo derivanti da una riflessione interiore, realizzate con tecniche coerenti al concetto iniziale del progetto, senza scopo diretto di funzionalità, se non “quella di rappresentare i sogni dell’uomo” come diceva Enzo Mari.

Che cosa non torna allora nel video mapping, tanto da essere considerato spesso un fenomeno marginale? Le sue origini, che sono anche disneyane, lo confinano irrevocabilmente nel mondo dell’entertainment? 

In ordine di prevalenza, propongo le principali critiche che solitamente vengono mosse al video mapping. 

L’effetto momentaneo prevale sul concept generale

Si assiste spesso a eventi come festival dedicati, in cui è tutto un susseguirsi di effetti speciali, creazioni virtuali muscolari e tecnicismi appartenenti al mondo delle applicazioni 3d e della postproduzione, a volte anche slegati tra loro, il cui scopo principale (nella testa dell’autore) è quello di suscitare nel pubblico una ripetizione di orgasmi emozionali. Questi dovrebbero derivare da profondi scarti di profondità come ad esempio trompe l’oil a mitraglia o sbalzi indicibili della palette cromatica. Il tutto però con deboli giustificazioni rispetto a un’idea registica e artistica complessiva.

Mancato rapporto di esclusività con l’architettura

Un progetto di video mapping è sempre in principio una critica all’architettura. Se riteniamo l’edificio completo e correttamente chiuso in sé, soprattutto nella sua facciata esterna, allora il video mapping non ha senso. Si comincia a progettare quella pellicola di luce e illusioni da applicare nottetempo se e solo se si ha qualcosa da dire come momento di dialogo col costruito. Questo discorso può essere esteso anche ad altre emergenze quali statue, alberi o altri elementi del paesaggio non direttamente realizzati dall’uomo.

Creazione di mondi e profondità immaginarie attraverso il video mapping, anche svelando il processo creativo delle immagini virtuali digitali.
László Zsolt Bordos, “A-Synchron”, Form And Substance Festival, Miami 2015

 

Quello che manca, in sostanza, in molti lavori di questo tipo, è il valore aggiunto di unicità ed esclusività tipico dell’architettura e della natura, negato dal design. Ovvero alcune scene proiettate sembrano adattamenti di esercizi astratti di giochi tridimensionali che potrebbero essere esibiti in edifici posizionati in periferia o in centro, a Roma come New York o Dubai, in palazzi per uffici o musei.

Manca una lettura storica, sensibile e affettiva del soggetto, mentre prevale una visione meramente metrica e quantitativa, con la quale si possono mettere in scala sulla facciata i già citati effetti speciali pensati sullo schermo del Pc senza approfondirne troppo le relazioni e il significato.

Mancata o debole conoscenza degli sviluppi dell’arte nella contemporaneità

Sempre partecipando dal vivo a festival o scorrendo su Youtube i video di riepilogo delle più importanti manifestazioni di questo genere di rappresentazioni, si ha la marcata sensazione che, nella maggior parte dei casi proposti, lo stile prevalente sia quello di un generico kitsch, inconsapevole e fuori dal tempo. Si susseguono così ad esempio immagini con motivi di carattere egizio come sfingi o piramidi ricoperte d’oro, che esplodono in torrenti d’acque multicolori che nutrono la crescita spasmodica di ramoscelli di vegetazione parametrica che ricoprono immediatamente la facciata, per poi sollevarsi come sipari, preparando la prossima scena. Una narrazione surreale, fantasy, che tende spesso a sfociare nel ridicolo.

Scelte musicali degradate a sound fx

In un tipo di rappresentazione multimediale come il video mapping la parte sonora è assai rilevante.

Certamente perché la percezione sinestetica di più ambiti sensoriali aumenta l’immersività della fruizione permettendo di stimolare reazioni maggiormente immediate e inconsapevoli rispetto alle immagini. Però anche in questo caso, sempre parlando di sensazioni, quello che trapela dall’ascolto è che, spesso, i brani scelti o appositamente composti, seguano gli effetti speciali del video, creando sequenze testosteroniche prive di vere e proprie dinamiche se non quelle generate dai drop-out presi a prestito dal mondo del clubbing e che quindi poco hanno a che fare con ragionamenti di tipo musicale. Per quanto riguarda le colonne sonore con ritmiche meno esasperate, qui la fonte sembra essere quella del Minimalismo, con sequenze armoniche piuttosto prevedibili caratteristiche di una ipotetica (o meglio, generica) Ambient Music, spesso afflitta e inquinata in sede di festival da diffusori da stadio irrispettosi delle timbriche assai delicate di alcuni strumenti, in particolare pianoforte e archi, spesso presenti in questo tipo di sonorità.

Uso estremo e approfondito della palette cromatica di Michele Pusceddu, vincitore iMapp Bucharest 2019

 

La tentazione che si ha, alla fine o all’inizio di queste riflessioni, è quella di affidarsi alla classica demarcazione tra intrattenimento e arte, che però è molto labile, sicuramente sovrapponibile, e non genera possibili soluzioni o vie d’uscita. Le quali invece, secondo la mia modesta opinione, potrebbero essere ricercate a livello critico e decisionale, sia esso una curatela a priori o una giuria a posteriori, il cui giudizio oggi, in svariati casi, sembra essere sempre più prono ai gusti effimeri del pubblico e quindi degli sponsor. Innanzitutto sarebbe interessante partire dalle individualità, evitando di scegliere curatori e giurati all’interno della nicchia del video mapping, facendo affidamento a personalità di più ampia apertura e versatilità culturale. 

Distorsione dei dati di partenza dell’oggetto architettonico virtuale esistente, Dies_“Broken Beauty” vincitore del Kyiv Lights Festival 2019

 

Altro livello sul quale agire è quello delle istanze che vengono fatte agli autori dei progetti. Avendo partecipato a qualche festival, non sempre ho trovato la richiesta di un concept, e mai mi è stata posta un’esigenza di sviluppo o chiarimento. Perciò la corrispondenza tra quanto scritto e quanto sviluppato nella parte audiovisiva non è mai stata valutata.

Le opere da incentivare dovrebbero essere quelle dotate di originalità, ma anche e soprattutto quelle derivanti da un percorso di ricerca approfondito e intransigente, impermeabili agli inafferrabili gusti dell’audience, con livelli di lettura che prevalgano gli attimi fuggenti dell’esperienza live nel rispetto di una sperimentazione coerente e necessaria. Altrimenti il rischio è che questo tipo di rappresentazioni proseguano verso la strada che le conduce all’irrilevanza. 


Immagine di copertina: Video mapping come forma d’arte: Tony Oursler e le microproiezioni surreali nel video per David Bowie del 2013