Visto che scarseggiano le idee nuove su come spendere i soldi del piano europeo per la ripresa (il cosiddetto recovery plan) ne abbiamo una semplice. Tre mesi fa Franco Lorenzoni ha scritto su Internazionale che “la scuola deve continuare fuori dalla classe” e ha citato una dirigente scolastica di Palermo che diceva: “La scuola ha bisogno delle collaborazioni più diverse perché istruire ed educare ragazze e ragazzi non basta, se non si innescano processi di trasformazione della città, perché ci sono quartieri in cui la scuola è l’unica piazza, altre non ce ne sono”. Beh, almeno un’altra piazza c’è quasi dappertutto: la biblioteca. In un passaggio epocale in cui le piazze si stanno riducendo tutte a luoghi virtuali, dominati da social network e piattaforme, dobbiamo investire nelle biblioteche, perché diventino le nuove piazze del sapere: infrastrutture fisiche, sociali e cognitive.

Devono essere aperte, inclusive, animate. Per luoghi così si sono battuti fin dagli anni settanta molti bibliotecari italiani, sul modello della biblioteca pubblica anglosassone: spazi amichevoli, privi di barriere, che mettessero al centro delle loro preoccupazioni gli utenti, e cioè i cittadini, e al tempo stesso che fossero l’accesso agli archivi digitali, alle fonti, ai dati. È stata una battaglia intrapresa con coraggio da bibliotecari in Lombardia, in Emilia-Romagna, in Toscana, che hanno lavorato ben più di quanto erano tenuti a fare, usando la fantasia, la cultura e l’empatia per trasformare istituzioni di cui ai sindaci e ai presidenti di regione non importava granché. Ma cos’è successo da Roma in giù? Quante sono le biblioteche campane, calabresi, siciliane? Quante ore alla settimana restano aperte?