Abbiamo bisogno più di immaginazione che di progettazione, un dialogo con Emanuele Coccia

L’albero di Giuseppe Penone, tra i cui rami è incastrata una grossa pietra, emerge dal Bacino dell’Arsenale di Venezia. Sembra un manifesto e un monito per gli architetti in mostra alla Biennale. Non a caso è l’edizione che, sotto l’urto della pandemia, più fa i conti con altri mondi, in particolare con quello vegetale.

Se il padiglione danese raccoglie l’acqua piovana e la fa correre come un fiume dentro casa riscrivendo gli spazi dell’intimità e della micro-comunità domestica, Claudia Pasquero e Marco Poletto di ecoLogicStudio lavorano sulle loro architetture biotecnologiche, colture viventi, alghe urbane, micro-fattorie. Elisa Silva prova a capovolgere la maledizione di uno dei barrios dimenticati di Caracas attraverso le piante autoctone e le erbe aromatiche che lo innervano e lo rendono vivo.

Daniela Mitterberger e Tiziano Derme creano un habitat sensoriale, di terra e funghi, materiale organico e macchine, «in grado di risanarsi e nutrirsi», preferendo l’intelligenza di un giardiniere robotico a quella di un umano. Sono solo alcuni esempi, tra i tanti che spuntano nei progetti in mostra. Ancora in modo maldestro, magari riprendendo vecchi appunti e allusioni hippie, ma lo sforzo sembra quello di andare oltre i boschi verticali o gli esercizi sulle forme vegetali come ispirazione.

C’è da chiedersi se il mondo vegetale abbia finalmente fatto irruzione come chiave per leggere il contemporaneo e per capire la realtà in movimento. Abbiamo girato la domanda a Emanuele Coccia, filosofo, docente all’École des hautes études en sciences sociales, che su La vita delle piante ci ha scritto uno splendido libro (il Mulino, 2020, pagg.160), mentre nell’ultimo si è concentrato su La filosofia della casa (Einaudi, 2021, pagg.144). «Credo sia una apertura di sguardo su tutto ciò che non è umano – dice subito – Ci si interroga ormai apertamente sulla trasformazione che la città deve subire per ritornare ad essere un progetto di coabitazione tra esseri umani, altri animali e piante».

Questa riscoperta del mondo vegetale da cosa dipende?

«Il fatto che questa riapertura al non umano avvenga attraverso la riscoperta delle piante, dipende da varie cose. In parte perché è più facile riprogettare una città o una casa partendo dal vegetale, che non dal rapporto con gli altri animali: c’è già un sapere del paesaggismo e del verde da cui si può attingere. E forse abbiamo bisogno di progettare nuovi paesaggi e nuovi giardini, più che nuovi edifici.  C’è un secondo motivo: si è fatta ormai largo l’ipotesi storica secondo cui la casa nasce nel momento in cui i gruppi umani si legano attorno al giardino, al costruire un luogo di essenze vegetali da cui dipende la sopravvivenza alimentare. Sarebbe stato quindi il giardino a creare la necessità di una casa e di una città».

Un cambio di prospettiva, dunque.

«Siamo abituati a pensare il giardino come qualcosa che interrompe il tessuto urbano o come decorazione, ma dal punto di vista storico sembra vero il contrario: abbiamo cominciato a costruire case quando abbiamo smesso di cacciare e di raccogliere, di vivere nomadicamente e ci siamo legati attorno a delle piante, costruendo insediamenti simili a quelli delle piante. La città è questa. Ma c’è un’altra ragione di questo cambio di sguardo sulla realtà, non legata direttamente all’architettura»

Quale?

«Per secoli la biologia si è costituita attraverso il prisma della zoologia, ritenendo che sarebbero stati gli animali a fornirci i concetti fondamentali con cui noi categorizziamo la vita. Abbiamo pensato l’intelligenza sempre e solo in termini cerebrali o nervosi; ci siamo afferrati allo zoocentrismo, mettendo al centro dell’esperienza dei viventi l’animale, l’essere dotato di un sistema nervoso. Quando abbiamo scoperto che la simbiosi è molto più importante della competizione ai fini dello sviluppo della vita su scala planetaria, le piante ci hanno offerto un altro modello, assumendo un ruolo epistemologicamente fondamentale. Osservare le piante, che producono vita perché possa essere vissuta dagli altri, ha fatto sì che la botanica diventasse centrale rispetto della zoologia».

E questo ha investito anche l’architettura

«In realtà, quando si guarda alla storia dell’architettura c’è una lunga tradizione che individua nell’albero l’oggetto architettonico per eccellenza. Famoso è il trattato di Marc-Antoine Laugier in cui, chiedendosi cosa fosse il primo artefatto architettonico, la casa di Adamo, esclude che fosse in latterizio o una grotta, ma una casa di alberi. Negli anni ’80, “L’architettura degli alberi”, di Cesare Leonardi e Franca Stagi, parlano di una seconda architettura, parallela a quella urbana: l’invito è quello di pensare a una architettura con una temporalità diversa, perché cresce con il tempo, diversa anche dal punto di vista estetico. È una riflessione ricca, che ha accompagnato in maniera minore il modernismo». 

Nel frattempo, anche l’irruzione del virus nell’ultimo anno ha spinto a guardare oltre. Un protagonista non umano si è preso la scena e ha cambiato le vicende del mondo umano.

«Ci siamo resi conto di una cosa ovvia: di non essere padroni dello spazio né di poter controllare tutto ciò che succede. Ci siamo accorti di questo strano narcisismo negativo per cui l’uomo si considerava non solo come il culmine della creazione, ma anche l’unico capace di distruggere il pianeta. Possiamo intravedere cambiamenti epocali. Penso al ritorno del lavoro a casa, dopo che la città aveva strappato il lavoro allo spazio domestico dando inizio alla modernità: questo è un cambio che resterà anche oltre l’emergenza pandemica. Riequilibrerà e costringerà a ripensare la forma domestica. E allo stesso tempo vediamo le città mutare: in Francia, ad esempio, l’élite economico-commerciale se ne va dai centri urbani, si rifugia nella casa con giardino fuori Parigi; questo significa anche che la città si incanaglisce, chiudono i negozi, ma non scendono gli affitti perché si accelera la conquista dei centri storici a parte del capitale russo, arabo e cinese. Si parla molto di case-giardino e città-giardino, ma anche se il modello ottocentesco non si replicherà, qualcosa di simile potrebbe rispuntare. D’altra parte, il virus ha solo accelerato cambiamenti legati alle dinamiche del sistema economico e politico».

Nell’ultimo numero di “Vesper”, la rivista scientifica dell’Università IUAV, dedicato alla selva, nel suo saggio lei scrive che la città contemporanea non soffre un eccesso di tecnica, ma un deficit di tecnica. Arriviamo da una sbornia di smart city, di città digitale e iper-connessa, eppure lei ci ricorda che quello urbano non è un livello di intelligenza così elaborato. Cosa significa?

«Il fatto è che abbiamo misurato la tecnica rispetto alle pietre. È un’idea che nasce dall’archeologia, perché i primi artefatti di cui abbiamo testimonianza sono di pietra, sottovalutando che gli oggetti organici si decompongono più facilmente. Dall’Ottocento in poi, è passata l’idea che il progresso della tecnica si misuri con la sola capacità di manipolare le pietre, fino agli oggetti odierni più avanzati, dal telefonino ai computer. Pensare che gli uomini siano i soli esseri dotati di tecnica è un’idea molto consolatoria. Perché la tecnica è sempre una relazione con altri viventi, molto più di quella che si instaura con una massa inerte. Se dunque è vero che la tecnica è una relazione complessa fra specie, la città ci appare con un deficit tecnico mostruoso, perché è uno spazio in cui una collezione di vite appartenenti a una stessa specie prova ad esistere in maniera endogamica, ma non riesce a costruire un ecosistema complesso. Lo stesso sistema implementato per alimentare la popolazione è relegato lontano e delocalizzato, e finisce per essere una forma rozza di approvvigionamento. Abbiamo invece bisogno di molta più intelligenza nella relazione con specie diverse, che poi è la condizione affinché collezioni di esseri eterotrofi possano sopravvivere. La città attuale ha espulso fuori da sé campi e allevamenti e ha creduto di poter vivere di sola umanità, il che è impossibile non solo spiritualmente ma anche materialmente».

Dunque: è da riscrivere per intero il senso della realtà. Magari abbiamo bisogno anche di parole nuove.

«Abbiamo bisogno di parole e immagini nuove. Quello che succederà nei prossimi anni sarà decisivo, perché dobbiamo capire come immaginare nuove forme di convivenza e di coabitazione non solo tra umani e non umani, ma anche tra umani. Quello che è successo mi sembra faccia tramontare non solo l’idea tradizionale di città, ma anche di famiglia. Magari risorgeranno nuovi falansteri, nuovi castelli per comunità di umani, in cui la coabitazione tra individui sarà molto simile a quello che abbiamo costruito attraverso le app. Zoom, facebook, instagram, whatsapp sono corridoi in cui costruiamo un comune che bypassa la città. Possiamo essere coinquilini di persone che sono costantemente assieme a noi, senza dover chiudere la porta di casa dietro di noi. Abbiamo costruito questo spazio digitale, continuando tuttavia a vivere in case minerali che sono così in ritardo rispetto a quella forma virtuale. Dunque, è possibile che cercheremo di adeguare sempre di più la casa minerale alla casa digitale e questo comporterà grandi cambiamenti nel rapporto con il non-umano. La sfida mi sembra di immaginazione più che di progettazione».