Qual è la distanza che ci separa? Un libro di Emilio Tadini per capire la nostra distanza

«Ma qual è la distanza che separa un uomo che sta nella sua stanza al primo piano di una casa da un altro che sta al quinto piano? È una retta – o piuttosto una linea tortuosa che passa per porte aperte e chiuse, corridoi, pianerottoli e scale? Calcola e indica, questa distanza, un percorso pensato insieme a un percorso compiuto da tutto il corpo? E questa distanza cambia in qualche modo, se i due uomini in questione non si conoscono o se sono amici intimi?»

Queste parole si trovano nelle primissime pagine di un libro di Emilio Tadini del 1998 che si intitola La distanza. Parole che, quando lessi il libro per la prima volta, mi erano sembrate banali, giusto un pretesto per avviare il discorso, ma che, rilette oggi, alla luce di un’emergenza sanitaria internazionale che ci obbliga al confinamento domestico, acquistano un significato simbolico che in realtà avevano sempre portato con sé.

Quella che prima poteva essere una linea tortuosa ma sempre percorribile (anche se mai percorsa), capace di portarmi in ogni appartamento del condominio in cui vivo, ora si è trasformata nella linea retta che collega il mio balcone a quelli del cortile su cui affaccia: per lo più vuoti. Quella che restituiscono le mie finestre è un’immagine tutto sommato nota della realtà: il silenzio là fuori un po’ fa impressione, ma non è diventato uno stimolo all’interazione generazionale, sociale e umana che in altri contesti ed epoche l’emergenza ha prodotto. Mi sembra che ciascuno rimanga chiuso nel suo piccolo mondo, concedendosi al massimo qualche saluto in più, un canto alle 18 del sabato, giusto per dire che una comunità esiste ancora.

Tuttavia l’impossibilità di uscire dalla porta di casa con la libertà di prima e la necessità di affidare alle finestre – reali o digitali – la nostra elaborazione dello sguardo sul mondo impone di ragionare su cosa queste misure di confinamento stiano comportando per noi; per questo può essere utile interrogare La distanza per capire come possiamo affrontare quel distanziamento sociale con cui dobbiamo imparare a convivere (probabilmente per molto tempo), senza aggirarne i vincoli, ma anche senza ignorare le opportunità che potrebbe comportare.

La distanza è un libretto smilzo, pieno zeppo di domande e scarsissimo di risposte, come sempre avviene quando il pensiero cerca di andare avanti e non chiudersi su se stesso. E proprio da un interrogativo partiva la riflessione di Tadini: «Che cos’è la distanza?». Una domanda che permette di condurre il ragionamento negli ambiti più disparati, dalla politica all’antropologia, dalla letteratura alle arti visive (Tadini infatti era scrittore e pittore).

D’altra parte questo concetto pervade la nostra vita più di quanto immaginiamo, determinando un campo metaforico con cui siamo abituati a pensarci in relazione agli altri – i “nostri prossimi” – e che rivela oggi la sua cogenza nella brutalità con cui il suo lessico sta definendo la nostra condizione.

La distanza, dice Tadini, è qualcosa che si «intorno a noi, e anche dentro di noi», tanto che le si potrebbe attribuire anche una maiuscola – la Distanza – come fosse un’entità «attiva e potente» che condiziona il nostro esistere: «La Distanza come stabile orizzonte del nostro universo privato e pubblico». Percepiamo ogni oggetto o persona a partire dalla distanza a cui si pone rispetto a noi, e proprio oggi, rinchiusi nello spazio delle nostre case, comprendiamo come le distanze possano anche essere ridotte, minime, addirittura costrittive. Tuttavia, proprio per questo, fatichiamo a concepire con precisione questo concetto e galleggiamo nell’incertezza dei nostri movimenti. E se quando usciamo abbiamo un metro di misura per stabilire la “giusta” distanza (appunto un metro, almeno), in casa ci troviamo costretti a riconfigurare da capo il nostro reticolo di distanze.

Ecco, quello che mi sta sorprendendo di più in queste settimane è il modo in cui tutti quanti stanno cercando, ostinatamente, di ricostruire il proprio vecchio sistema, cercando addirittura di dimostrare in qualche modo che la distanza fisica che ci impone la quarantena non è in realtà un freno all’incontro, allo scambio, alla produzione; non è cioè una «Distanza assoluta», ovvero «la massima grandezza che noi riusciamo a concepire. Anche simbolicamente».

È così per me, che ho visto la mia vita cambiare in questi giorni, ma non in maniera radicale: il lavoro da casa, il tempo passato insieme alla mia famiglia, l’abbondante ricorso alla rete per tenere le relazioni sociali e professionali. Tutto questo c’era prima e ora è “semplicemente” estremizzato. Ed è così anche per gli altri, a giudicare dall’immagine che restituiscono le mie finestre digitali: la rapidità con cui la “macchina culturale” si è riorganizzata intorno ai vincoli dell’#iorestoacasa, la «furia onnivora delle piazze virtuali», il fiorire di newsletter, di dirette social, di infinite call su Zoom o Teams, per lavoro e per piacere, indistintamente. Sono tutti tentativi volti a convincerci che ogni distanza può essere colmata: perché per noi distanza è una parola dall’accezione innanzitutto negativa, che porta con sé l’idea di separazione.

D’altra parte quello che si riflette nella mia bolla è il nuovo ceto medio creativo, nato con la flessibilità, lo smartworking, l’autoimprenditoria, la colonna portante della «società della stanchezza» che si mostra capace, proprio quando questa stanchezza tocca tutti, di adattarsi meglio degli altri alle esigenze del contesto e di ristrutturare – interamente – la propria vita di fronte al mutare delle contingenze.

Più che resilienza, sembra un’ormai connaturata predisposizione a trasformare ogni situazione nel proprio posto di lavoro

Più che resilienza, sembra un’ormai connaturata predisposizione a trasformare ogni situazione nel proprio posto di lavoro, a stare sempre nel proprio progetto: dove lo stare, come qualcuno ha scritto, è verbo centrale, ma anche sintomo di una paradossale carenza di agency, che si manifesta proprio là dove ci si dovrebbe sentire in continua “produzione”.

Intanto, però, a fronte di quell’inesausto tentativo di rivitalizzare la nuova quotidianità attraverso una proiezione costante nel virtuale, le bolle social si stanno progressivamente appiattendo. Privi del riscontro del mondo là fuori cominciamo ad assomigliarci tutti; ci limitiamo ad aggiornare i nostri pareri sull’unico argomento di cui ora interessa parlare. Oppure facciamo come se nulla fosse. Presi dal bisogno di superare questa distanza, stiamo evitando in ogni modo di confrontarci con essa e con le potenzialità che pure potrebbe rivelare.

A questo proposito Tadini offre una pista da seguire: «La distanza non è forse il luogo in cui ogni presenza e ogni assenza sono rese possibili? / La distanza non è forse la scena della rappresentazione – di ogni rappresentazione?» Ecco, la distanza è anche un luogo di rappresentazione, di raffigurazione e di ri-creazione. La distanza, infatti, è innanzitutto lo spazio della «separazione primaria», quella che divide il figlio dalla madre e a partire dalla quale il figlio comincia a vedere la (figura della) madre. E sul modello di quella separazione, dice Tadini, si replicano tutte le successive, tra cui vanno annoverati i molteplici tentativi di dare espressione al nostro stare nel mondo, tutte quelle strategie di sopravvivenza alla solitudine che sono però anche modi con cui l’uomo rende visibile il proprio sistema di distanze, come l’arte e la letteratura. Nel percepire la distanza noi riusciamo a mettere a fuoco la nostra presenza e a comprendere la nostra esperienza.

«Quando nella Distanza si è prodotta la separazione del nostro corpo dal corpo – totale – della madre e si è compiuta la metamorfosi capitale del corpo della madre in figura, è forse lì, nella prima immaginazione e nella prima sperimentazione sensibile della misura, che si è manifestato il seme di ciò che poi abbiamo chiamato “il sapere” – l’ordine del sapere?»
Distanza, sapere e metamorfosi: potrebbero essere queste le parole chiave per provare a comprendere che questo momento, questo stato d’eccezione, proprio perché ci impone di misurare i nostri rapporti, potrebbe essere l’occasione per ripensare il sistema di distanze – sociali, economiche, politiche, culturali – che regolano il nostro attuale mondo (e distanza in certi casi fa rima anche con disuguaglianza).

La distanza non è forse la scena della rappresentazione, di ogni rappresentazione?

Serve però uno sforzo di concettualizzazione, la fatica di ridiscutere il paradigma (proprio quello che non ci sta aiutando a comprendere questa situazione), serve il «desiderio» (altra parola chiave di Tadini) «di entrare in contatto corporeo con il mondo», proprio oggi che quel mondo non è più a portata di mano. Un desiderio che non sia però un impulso nostalgico a ricostituire l’ordine interrotto, a ripristinare un’utopica totalità senza distanze – dove quello che tocchiamo non sono corpi, ma figure –, ma sia al contrario uno slancio a “misurare” e “misurarci” a partire dalla nostra inaggirabile solitudine: «è proprio in quanto è nostro “prossimo” che l’Altro ci limita nel tempo e nello spazio – e che così facendo ci insedia e ci trattiene nel mondo, nel presente». Questo desiderio deve indurci ad «alzare lo sguardo sul nitore assoluto del niente e fare il primo passo su quella superficie accecante».

Ci vuole coraggio per ammettere che intorno a noi non si stende altro che vuoto, uno spazio instabile in cui qualsiasi costruzione risulterà precaria. Ma proprio adesso che quel vuoto ci si presenta in maniera evidente e concreta, è opportuno pensare a come rappresentarlo, a come raffigurare la distanza:

«Ogni rappresentazione ha forse a che fare con quel “costruire” cui per forza di cose deve dedicarsi chi è arrivato ad una calma, imperturbabile coscienza del niente».

Capire la distanza implica un secondo, complementare movimento, che consiste nell’avvertire la necessità di costruire qualcosa nello spazio intermedio che la Distanza apre intorno a noi. Forse, in questo strano momento di sospensione, è arrivato il tempo di edificare.