Formicolii / La fine della scrittura nella polverizzazione dei linguaggi

scrittura, abruzzese

Pubblichiamo la prima parte di due di un testo inedito di Alberto Abruzzese, Formicolii su scrittura, linguaggi digitali e nuove forme mediali della lettura.


Tra le mani avete carta da leggere come si legge sulle pareti di un muro oppure avete la sua riproduzione sullo schermo in immagine fluorescente: immateriale ma comunque anche essa scolpita così come, in origine, l’alfabeto fece scavandosi la via attraverso la pietra e più avanti attraverso la cera.

Tuttavia niente pare oggi di più precario e caduco a fronte dell’onda inarrestabile dei linguaggi digitali che vanno ricombinando insieme tutti i segni insorti a far da significanti nel tempo lunghissimo della civilizzazione umana: prima, durante e dopo la scrittura. Contro di essa e insieme a suo vantaggio e svantaggio. Potenziamento e de-potenziamento a seconda dei sensi.

Eppure la carta è “pesante”, con un suo peso specifico, resistente. E lo schermo che, seppure insidioso e vulnerabile, le fa ora da luminoso supporto ci costringe ancora all’uso degli occhi come privilegiato accesso al mondo esterno: ad ogni sua cosa che abiti al di là della nostra pelle e chieda d’essere nominata.

Sappiamo bene quanto di secolo in secolo la scrittura abbia distrutto l’oralità

Tuttavia si fa sempre più motivo di lamento e di lutto la già più che prossima polverizzazione di questi supporti – comunque supporti di diversissima ma analoga rigidità, resistenza, quanto ad un effettivo accesso di esperienza vissuta – in quanto tale vanificazione sembra mettere in pericolo non solo l’editoria cartacea, il suo sistema storico e culturale, mentale e territoriale, ma con essa anche la scrittura in sé, ben oltre il libro. E oltre la sua evoluzione in ebook. Sembra annunciare la fine di ogni forma di scrittura mentale, individuale e collettiva: siamo prossimi – cioè già dentro senza accorgercene – all’implosione in altre tracce di sensorialità della straordinaria complessità dei suoi apparati geopolitici, mnemonici e relazionali, operativi,.

Ovvio entrare in allarme, se ripensiamo alle precedenti conquiste umane della tecnica, al loro potere distruttivo e, proprio in virtù di questo, rigenerativo. Sappiamo bene quanto di secolo in secolo la scrittura abbia distrutto l’oralità modificandone le forme, gli emittenti e i riceventi, facendosi carico al contempo di produrre una serie di rivoluzioni del linguaggio umano che, ancora oggi non interamente compiute, sono andate divorandosi l’un l’altra: dalla fotografia al cinema, dalla televisione al computer. Dai suoi programmi al web. Per arrivare di nuovo all’oralità o qualcosa di simile.

Possibile che un tale collasso della scrittura possa accadere in un presente di così tanta crescita esponenziale di scritture?

Eppure non è poi tanto ovvio, scontato, comprensibile questo allarme: possibile che un tale collasso della scrittura – molto più che semplice tracollo degli scriventi – possa accadere in un presente di così tanta crescita esponenziale di scritture e non soltanto di piattaforme di suoni e immagini? Sarà dunque ancora molto lunga la strada della loro perdizione? In ogni caso, insieme se non prima, dovrà accadere qualcosa di irreversibile anche nella nostra voce di dentro. Ed oltre la voce: sin nella macchina cerebrale che la detta, la fa pensare e parlare. E dentro le macchine cibernetiche ad essa sempre più biologicamente connesse, sino a farsi voce esse stesse. E pretendere di rinominare il mondo.

Per il momento ci sarà modo di continuare a editare (che altro se non predisporre, mettere in scena, in comune) e ci sarà modo di farlo per mezzo di vecchi e nuovi strumenti tipografici, nuove impronte di scrittura. Ma la durata di questo intervallo – o attesa che sia – avrà un senso a patto di ripensare sin dalle sue radici la scrittura liberandola della sua ambizione di segno indelebile e generativo, fondante, sovrano. A patto di trascinarla dunque fuori di sé, a misura delle metamorfosi sensoriali che stanno emergendo nell’esperienza vissuta del mondo.

Si può allora seguire questa nuova traccia pseudo-alfabetica o piuttosto farla riemergere per metterla alla prova. Ci fu un tempo in cui nessuno avrebbe pensato di poterla separare dalla propria voce interiore se non rimettendosi al dettato divino, sacrificandosi alla sua volontà suprema e ammutolendosi nella preghiera votiva).

Si può rivedere la scrittura, ma solo una volta che si mostri essere davvero nello stesso luogo della lettura

Si può allora rivedere la scrittura, ma solo una volta che la scrittura – liberata dalla sua tradizione autoritativa (di queste tradizioni, il presente si rivela sempre più selvaggiamente insofferente in quanto segno di esclusione e sopruso) – si mostri essere davvero nello stesso luogo della lettura: nel medesimo sentimento delle sue interpretazioni più aliene, impreviste e imprevedibili, sino all’incomprensione. E viceversa, lo stesso discorso vale per quelle scritture che bruciano se stesse e cercano un senso nelle loro stesse ceneri.

Il regime di conversazione che tanto sopravviene ai media tradizionali con il dilagare dei social network non riguarda soltanto una minuta varietà di interlocutori ma un Interlocutore Generale: un general intellect dei circuiti digitali uno a uno, uno a molti, molti a uno, molti a molti. Non ci si lasci ingannare o intimorire dalla aggressività personale, singola, di cui spesso si traveste tale condizione di massima interlocuzione: è l’eccitazione di una persona sempre più impegnata a conversare direttamente con la pluralità di discorsi che si compongono e scompongono nella singola natura di ciascun altro. Singolarità in cui il diaframma tra interiorità e esteriorità è caduto in modo molto più violento di sempre.

Le rivelazioni non dicono nulla sul futuro ma lo dicono su un presente che finalmente si riconosce per quello che è stato

Le rivelazioni non dicono nulla sul futuro ma lo dicono su un presente che finalmente si riconosce per quello che è stato. O almeno se ne risente. Lo sviluppo delle tecnologie digitali sta ora rivelando – forse non ancora producendo ma di certo rivelando – la scrittura e la lettura, l’una&l’altra, come i due indistinguibili, inseparabili momenti che la mente umana alfabetizzata pratica o almeno ha sino ad ora praticato per esprimersi ed essere espressa. Due attimi che si anticipano a vicenda. In uno stesso istante.

Quindi immersa dentro l’intensità dei processi di digitalizzazione della vita quotidiana, la scrittura – là dove il pensiero si fissa per coincidere con la lettura interiore che lo ha predetto – continua ad esserci proprio grazie agli infiniti flussi di lettura che, così a lungo resi necessari alla vita delle parole, hanno comunque la necessità – forse provvisoria, forse caduca, ma comunque qui e ora – di prodursi e riprodursi in un supporto visibile. Per quanto, appunto in virtù del loro intensificarsi, di necessità sempre più rapido ed effimero, si tratti di scritture sempre più tradotte in immagini e immagini sempre più riconsegnate come scritture. Una fantasmagoria di significanti e significati sempre più in contrasto tra loro: del resto già nei secoli ultimi il mondo s’è gonfiato di enormi accumuli e discariche di sensazioni “impure”. Ognuna di queste sensazioni, sempre di ritorno, pretende sempre ancora il completamento di una interpretazione. E tuttavia ogni interpretazione disponibile ne risulta al contempo infranta.

Se dunque a correre rischi di estinzione è l’editoria cartacea in quanto apparato che frena la ripresa di una reciproca sorgiva coincidenza tra scrittura e lettura, così inibendo il trionfo della parola viva su l’una e l’altra (o meglio sullo stesso loro avvenire nell’immaginario, sul loro “evento”), si tratta allora di capire cosa sia davvero in pericolo andando al di là del libro, materia e figura simbolica di quella distanza che la civilizzazione ha sempre più imposto tra ciò che è chiuso nella scrittura e ciò che si apre nella lettura.

Non è detto che all’editoria tradizionale venga meno la possibilità di intervenire avendo ancora una propria funzione

C’è da capire cosa sia a far tremare spingendosi a volere sentire oltre il volume-libro: sarebbe questo l’unico sigillo da aprire se si vuole godere di una rivelazione, l’unico scrigno in cui custodirla e preservarla? Sarà ancora così per molti di antico regime almeno sino a quando il libro saprà abitare ed essere abitato. Ma già ora non è più così come era prima, quando il suo abitare il mondo, comprenderlo, fu la propria forma assoluta di potere. Tanto più efficace quanto più forma di conoscenza oggettivamente distante dalla vita quotidiana dei sottomessi alla sua parola. Al suo Verbo. Ci sono state folgoranti eccezioni, ma le eccezioni ci sono per confermare la regola.

Tuttavia non è detto che all’editoria tradizionale – meglio di essa quella più leggera, meno appesantita dalla storia, dai suoi contenuti, dai suoi soggetti e dai suoi modi di produzione – venga meno la possibilità di intervenire avendo ancora una propria funzione, seppure provvisoria, a scadenze sempre più rapide e sedimentazioni sempre più segrete. Magari funzione anche sacrificale, quanto più data per salvifica. Le battaglie di retroguardia fruttano spesso persino qualcosa di più e di diverso da quelle d’avanguardia. Fanno piazza pulita dei ritardatari più irriducibili. Nella particolare congiuntura delle attuali relazioni umane – caratterizzata dalla loro implosione al di qua e al di là dell’umano – i fogli di carta (oppure le loro impronte digitali) possono ancora farsi sensibili a questo nostro particolarissimo clima.

Ma quale clima? Quale perturbazione? La qualità dei mutamenti deve sempre molto a quanto profondamente essi riescono a vivere e fare vivere la loro pulsione distruttiva. E’ allora utile fermare l’attenzione su ciò che si dilegua. Non per trattenerne il destino ma per meglio attrezzarsi per ciò che seguirà e già sta seguendo. Anzi è seguito. Per accettarne più facilmente, felicemente, la necessità. Sensazioni, appunto: stato d’allerta. Tremori in cui sapere auscultarsi, per quanto “senza volere” e “senza sapere”. Prendere appunti di sé su fogli sparsi che, una volta assolta la loro funzione, possono essere gettati via, come accade sui social.

S’è detto a lungo intorno alle doti psicosomatiche dei linguaggi digitali

Il libro monumentale continuerà ad avere mercati di antiquariato, ad essere un oggetto a caro prezzo, come l’arte sublimata dal passato o dal mercato; ma il libro effimero – la miriade di testi editi ogni anno, tra sommersi e segnalati, letti e non letti, revenants o neonati – sarà il solo a potere soddisfare non un’epoca e neppure un’epoca di mezzo, ma le giornate di congedo, di scadenza, del loro stesso tempo breve.

Nell’euforia delle nuove piattaforme espressive del web, s’è detto a lungo intorno alle doti psicosomatiche dei linguaggi digitali.

Alla valorizzazione o alla penalizzazione di queste doti va ricondotta anche la questione del conflitto, reale o simulato che sia, tra barbari e civilizzati, tra linguaggi analfabeti e linguaggi alfabetici della civilizzazione; opposizioni tanto incastrate nelle più classiche dicotomie della società moderna da essere ora, con il suo tramonto, tutte più o meno destinate ad un lungo, insistente finale.

Oggi di tali dicotomie si parla con più indecisione: cautamente nei confronti degli entusiasti della rete ma anche, seppure in chiave non apertamente critica, nei confronti dei conservatori ad oltranza della letteratura. Le ragioni di tali cautele se non ripensamenti? Molto complicate. Spesso anche molto noiose, lapalissiane o pretestuose.

Questo avviene per il fatto di volere criticare il “mondo nuovo” a partire dai criteri del “vecchio mondo” e viceversa, ma senza una possibile via d’uscita perché è proprio l’ideologia moderna del “nuovo” – il moderno che celebra se stesso aggettivandosi tale – a girare a vuoto alla stessa maniera dell’anello di Moebius che offre un solo piano d’azione facendo credere che si tratti invece di due, uno nel rovescio dell’altro.