Quel che resta di Tommaso Labranca è quel che resta di noi: il lavoro culturale alla fine del lavoro

Tommaso Labranca fa parte di una generazione di autori e autrici destinati alla giovinezza perenne. Anzi sarebbe più corretto dire, obbligati alla giovinezza. Apparsi sul proscenio culturale tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta questa categoria di donne e uomini che si prese la briga e l’onere di rilanciare e svecchiare la cultura italiana provando a sciogliere i confini tra i generi e gli strumenti si è trovata spesso priva di ogni possibilità di invecchiamento e tanto meno di maturità.

Precari perenni a cui veniva e viene chiesto sempre di avere idee nuove e mai di poter avere lo spazio e il denaro per elaborare e costruire. Tommaso Labranca è di quel gruppo espanso che va da Aldo Nove a Giuseppe Genna, da Silvia Ballestra a Tiziano Scarpa (e molti altri ancora) forse la figura più paradigmatica: lavoratore ostinato, interprete della contemporaneità di rara sensibilità, teorico e dilettante al tempo stesso, scrittore e performer, uomo di editoria come di televisione.

Labranca ha prodotto tantissimo, ha scritto moltissimo eppure come in una favola nera si è trovato abbandonato e solo, con pochi soldi in tasca ed uno spreco di idee ed energie sulle spalle incredibile anche solo da enumerare.

Abbiamo detto abbandonato e solo, ma non solo dagli altri, anche e forse soprattuto da se stesso, dalla sua durezza e dalle sue contraddizioni. Labranca non era un uomo facile e non era un uomo banale. Probabilmente ha pienamente ragione Claudio Giunta che in apertura del suo saggio, Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (Il Mulino) lo definisce come una delle persone più intelligenti comparse sulla scena culturale italiana di fine secolo.

Tommaso Labranca è stato un lampo nel panorama culturale che vale un libro, Andy Warhol era un coatto e una teoria, quella sul trash, ma anche e in qualche modo – pur non potendo considerare gli altri suoi testi di pari livello – è stato in grado di creare un immaginario e forse in questo è stato l’ultimo in Italia a riuscire a definire un contesto con tale precisione e soprattutto con un tale grado di innovazione e diffusione. Non c’è infatti ambito oggi tra televisione, giornalismo e editoria che non possa rientrare in quanto Labranca aveva intuito o immaginato.

Claudio Giunta nel suo saggio costruisce un profilo critico di Labranca e del suo mondo partendo da quello che fu un momento formativo ed espressivo fondamentale per tutta una generazione, la fanzine. Non si può capire infatti Labranca se non si parte dal lavoro e dall’autoproduzione delle fanzine.  Un’elaborazione di contenuto e grafica che viveva sicuramente nella nicchia, ma giocava con il mainstream; che era leggerezza e spesso anche superficialità, ma si nutriva di approfondimenti spasmodici e ossessioni intellettuali: non esiste fanzine senza feticcio.

Trasportare quel mondo prima nella televisione e poi nella rete è stata una qualità precipua di Labranca, ma anche per certi versi la sua condanna rispetto ad un panorama culturale incapace di soffermarsi e trasformarsi, ma più interessato ad inghiottire e digerire senza alcuno sguardo innovativo in un’ottica di puro consumo. Anche delle idee.

Avviene così, tanto più in Italia che le aspettative che si erano generate sia dalla televisione e poi una volta spente riaccese con la rete si siano frantumate contro il muro altissimo e invalicabile del lavoro quasi sempre gratuito o in ogni caso mal pagato. La rete doveva aprire i confini e le porte e invece per buona parte dei lavoratori cognitivi coinvolti fin dai primi anni si è rivelata una botola che si è chiusa sopra la testa di chi come Labranca vi aveva profuso passione investendo energie e idee immaginando un possibile spazio di espressione capace di superare i vecchi condizionamenti delle gerarchie culturali.

Ed è anche per questo motivo che se oggi si vaga per le strade di Milano svuotate dalla sua patina glamour e cool (così si dice) dall’emergenza coronavirus, quello che resta non è altro che Pantigliate, ovvero un piccolo comune della cintura di Milano dove Labranca ostinatamente viveva.

Pantigliate è per Labranca il luogo generativo di una visione di Milano popolare e nazionale al tempo stesso: non si può capire Milano se non si vive ai suoi confini e non solo per una questione di vicinanza al popolo, ma anche per la forma di una città sostanzialmente piccola e dal centro cavo, per non dire ormai totalmene svuotato di senso: basti vedere l’oggi con le periferie capaci di organizzarsi e ritrovarsi in comunità e il centro e anche il semicentro abbandonati perché svuotati da impiegati in smartworking e da residenti in fuga verso i lidi di Sardegna e Liguria. E di altro non c’è traccia tra via Broletto e Corso di Porta Nuova se non l’apparire di un lucido e spettrale abbandono.

Giunta nel suo libro, utilissimo e assolutamente necessario per capire oltre che la figura di Tommaso Labranca anche un’epoca della cultura in Italia, insiste seppur non palesandolo del tutto in un confronto tra Pasolini e Labranca. In parte a ragione, in parte avvallando un po’ di stereotipi tipici attorno a Pasolini il che se appanna un po’ le lenti di lettura di Giunta offre al lettore un possibile confronto che non sta nei testi e tanto meno nelle cose dette, ma nel contesto in cui i due intellettuali hanno vissuto ed è il caso di dirlo lottato.

Non è infatti l’idea di popolare ad allontanarli o ad avvicinarli, ma la loro ostinazione che in un certo senso li ha condannati entrambi: Pasolini da postumo, trasformandolo in una figurina buona politicamente a qualunque schieramento e capace di essere radicalmente di sinistra quanto di destra a seconda di come – e con grande disinvoltura – si leggono i suoi testi, Labranca già in vita, messo all’angolo da produzioni culturali incapaci di contenerlo e da un carattere difficile che col tempo darà sampre più sfogo ai suoi lati più respingenti e insolenti.

Il vuoto attorno a Labranca diventa irriducibile come la sua idea di purezza, un’idea artefatta e tutta sua, forse a lui necessaria come àncora identitaria nel momento in cui sembra impossibile dare forma alle sue idee strutturandole e meditandole. Il confronto così tra Pasolini e Labranca diviene rivelatorio se si pensa a Petrolio di Pasolini, romanzo (il suo migliore) incompiuto e solo abbozzato. Infatti se si montassero tutti i testi di Labranca avremmo tra le mani un’opera non molto difforme al romanzo pasoliniano: un testo abbozzato, a tratti ripetitivo, ma con lampi e intuizioni assolutamente originali.

È come se Pasolini fosse arrivato sull’orlo della fine – per un autore e un poeta – della possibilità di scrivere, da qui anche le fughe nel giornalismo e nel cinema e qualche accennato tentativo di performance. Questo orlo invece Labranca e i suoi compagni di generazione si sono trovati a valicarlo finendo catapultati in un gorgo dalle correnti incontrollabili. Da quel gorgo Labranca non è più riuscito a uscire e a darsi nuove possibilità.

L’impossibilità per un autore di concepire un oggetto culturale e di dare senso non solo all’oggetto in sé, ma anche al tempo e allo sforzo necessario per compierlo è oggi un dato evidente a chiunque, tanto più in un contesto italiano in cui la prima (e spesso unica) domanda che ci si pone è quasi sempre A cosa serve la cultura? Rispondere è già avvallare un destino tragico. Provare a far slittare la domande sul Cosa fare è invece tutto sommato e nonostante l’apparente ovvietà la prima e al momento unica possibilità che resta tra le mani di chi tenta di dare al culturale ancora oggi il valore politico e sociale di un lavoro.