Sull’orlo del baratro, la crisi del teatro è prima di tutto la crisi dei suoi lavoratori

Pare di essere come Vladimiro e Estragone, in attesa di Godot. Che non arriva. O che potrebbe arrivare in forma di decreto Cura Italia o di emendamenti.

Per quel che riguarda il teatro e lo spettacolo dal vivo, infatti, i riflessi non solo economici, sociali, professionali ma anche emotivi e culturali della sospensione delle attività in Italia, in seguito alle restrizioni dovute alla pandemia, stanno emergendo in tutta la loro evidenza.

Le contraddizioni di un sistema spinto, negli anni passati, a una frenetica attività iperproduttiva, si riverberano oggi nella difficoltà di immaginare una Fase 2 che non lasci indietro nessuno. Il governo sta facendo qualche (piccolo) sforzo per pensare a delle soluzioni, immettendo una cifra (bassa) per tamponare l’emergenza della mancata attività.

Oppure ipotizza un “Netflix della Cultura” – parole del Ministro Dario Franceschini – per sperare in un futuro migliore. Così, come per magia, ci siamo trovati tutti a parlare dell’eventuale palinsesto della novella Tv e nessuno che si ricorda più della miseria della suddetta cifra, dei 130milioni annunciati per salvare il settore, di cui appena 30 andrebbero – a quanto pare – al Fus. Ma siamo ottimisti! Una salva di hurrà, vedremo tanto teatro on demand!

Va bene, va benissimo: c’è bisogno di più spazio alla cultura e al teatro nelle programmazioni culturali della tv sia privata che pubblica, questi ultimi per ora lasciati in gran parte a Gigi Marzullo. E anche il AD Rai Salini si è detto d’accordo, rispondendo sul “Corriere della Sera” a una petizione lanciata da Piero Maccarinelli e firmata da molti artisti.

Sia chiaro: siamo innamorati degli archivi, vanno benissimo le trasmissioni di approfondimento – peraltro chi vi scrive ne ha condotte un paio, in quella tv che si chiamava Stream, poi diventata Sky, e a RaiSat, con Franco Scaglia, un uomo di televisione che amava profondamente il teatro – ci piacciono le dirette e le differite, le sincro e le fuorisincro, le produzioni e le riproduzioni.

Il problema non è tanto salvare il teatro in tv, quanto salvare il teatro in teatro

Però, ricordo sommessamente, il problema non è tanto salvare il teatro in tv, quanto salvare il teatro in teatro. E che forse la cultura potrebbe elaborare altri modelli (culturali appunto) rispetto alle piattaforme commerciali e di intrattenimento di stampo televisivo.

Anche perché, nella frenesia delle attività in streaming, si sta diffondendo anche il malcostume di pensare a “prestazioni” sempre e solo a titolo gratuito. Ce lo possiamo immaginare: “tanto che ti costa? Sei a casa! Basta che leggi un testo davanti al computer!”. Se pure l’attività di questi giorni ha saputo portare alla luce reperti video, e se pure qualcuno sta tentando formule di intrattenimento o informazione online, resta il fatto che il gioco è sempre al ribasso economico o alla gratuità. Insomma, oltre il danno, la beffa.

Già la pratica, un vero ossimoro, del “lavorare-gratis” era tristemente diffusa nel teatro italiano, ma oggi – nel clima di tragica emergenza che ci sovrasta – sembra che il “volontariato”, il gesto “generoso”, stia diventando la norma. L’aspetto è da considerare seriamente, perché, come è noto – ce lo raccontava benissimo Boris Vian ne “I costruttori di Imperi” – l’Uomo fa presto ad adattarsi alle ristrettezze, e a trovarne addirittura giovamento.

Comunque, si potrebbe fare di più, si dovrà fare di più. Anche perché, nel frattempo, e contemporaneamente, circola la voce, al Mibact, che i teatri non riapriranno prima di dicembre (da non credere con quanta leggerezza sia stata fatta girare una simile ipotesi!), e al tempo stesso si stanno pensando delle soluzioni per calmierare quel monte di numeri che l’amministrazione richiedeva alle istituzioni teatrali: dati “quantitativi” che servivano a indirizzare i finanziamenti pubblici.

È ovvio che, venendo meno le attività, non sarà possibile – ancora per lungo tempo – rispettare quei parametri “prestazionali”, quelle richieste da aziende produttive fatte marciare al massimo o quasi. Il problema della eventuale riapertura è però più complesso di quel che sembra, ed è diverso per prosa, lirica, danza, musica, circo, cinema.

Problema di accoglienza e sistemazione del pubblico, naturalmente (sempre che il pubblico voglia tornare in quei “pericolosissimi” luoghi che sono i teatri o i cinema!) ma anche problemi relazionali e contrattuali con gli artisti.

Per dirne una: come si sistema in buca un’orchestra? Come si rapportano gli attori in scena? Uno Shakespeare a cast completo è considerato assembramento?

Tutti noi, critici o semplici appassionati di teatro dobbiamo tenere alta l’attenzione e stare al fianco di questi artisti

Ma la questione è ancora più delicata: se il governo e le associazioni di settore stanno facendo di tutto per tutelare le istituzioni, ossia le aziende produttrici di teatro, non altrettanto si può dire per quella miriade di artisti, tecnici e lavoratori dello spettacolo che stanno pagando sulla propria pelle più di chiunque altro il lockdown.

Ecco allora che tutti noi (critici, studiosi, semplici appassionati di teatro e d’arte) dobbiamo davvero provare a tenere alta l’attenzione, a rimanere lucidi e stare al fianco di questi artisti.

È indispensabile tutelare le istituzioni (teatri d’opera, di prosa, teatro ragazzi, centri di ricerca, residenze) dal momento che sono i punti fermi della nostra vita e garantiscono presidi culturali nel tessuto urbano e sociale, attraverso veloci finanziamenti straordinari e finanziamenti ordinari garantiti sul medio e lungo termine. Si sta finalmente parlando di dare gli acconti Fus per il 2020 (siamo comunque a maggio…) e a trovare escamotage tecnici utili a tamponare le difficoltà economiche.

Ma ancora più urgente diventa proteggere (non uso casualmente questo termine) gli artisti, soprattutto i meno o nulla tutelati e soprattutto i giovani o le associazioni.

In un’accorata lettera diffusa nei giorni scorsi, l’attrice Carlotta Viscovo, anche Coordinatrice Nazionale della Sezione Attori del sindacato SLC-CGIL, scrive:

«In questa situazione di emergenza, in cui i Teatri sono stati chiusi prima delle scuole, in questo periodo drammatico e difficile per tutti, sappiamo che il nostro settore sarà quello che ripartirà per ultimo e con non poche difficoltà di organizzazione e di Senso (…) Non spetta agli attori accollarsi il rischio di impresa, anche perché siamo in un Paese in cui per loro non sono state prese misure sufficienti per sostenere i periodi di non lavoro».

E conclude:

«nessun datore ha rispettato la Legge sui Licenziamenti per interrompere i contratti. I lavoratori hanno avuto semplici comunicazioni via e-mail, nel migliore dei casi sottoscritte dai Presidenti degli enti per cui lavoravano, in rari casi inviate tramite raccomandata, o addirittura tramite comunicazione orale o messaggi whatsapp, addirittura alcuni hanno ricevuto l’Unilav che non ha alcun valore, se non amministrativo. Inoltre, si evidenzia, ancora una volta, che per gli scritturati con Partita Iva non c’è alcuna tutela, nonostante svolgano il lavoro allo stesso modo dei subordinati. In moltissimi casi, i contratti non erano ancora stati sottoscritti e non si sa cosa impugnare, in nome dell’impegno preso (è un problema gravissimo che sia spesso la regola firmare i contratti solo al primo giorno di prove). Un pensiero solidale va anche a chi ha già svolto, senza retribuzione, la parte autorale di uno spettacolo: registi, drammaturghi, scenografi, costumisti, light e sound designer, etc».

Raggiunta telefonicamente, rincara la dose Emanuela Bizi, segretaria nazionale della SLC-CGIL:

«è una situazione disastrata, a parte per i pochi noti che magari se la stanno cavando meno peggio degli altri. Ed è una situazione difficile da leggere: in quella realtà paludosa che era il sistema teatrale, in qualche modo gli artisti riuscivano a sopravvivere. Adesso sono esplose le difficoltà: ricevo telefonate, mail, che raccontano di persone che non possono pagare il mutuo, far la spesa. Magari c’è chi convive, coppie di artisti entrambi disoccupati, e vedono precipitare il proprio reddito senza prospettive. Questi lavoratori normalmente non hanno redditi alti da potersi permettere di non lavorare. Sono sul lastrico. La cosa grave è che purtroppo non ci sono spiragli a breve termine, rispetto allo spettacolo dal vivo. È un settore che rischia di ripartire “molto dopo”: per questo chiediamo interventi che garantiscano redditi almeno fino a ottobre. In questa sospensione, i lavoratori dello spettacolo, gli artisti, sono in una situazione “congelata”, e dobbiamo pensare non solo agli aspetti economici ma anche alle ricadute psicologiche. Chiediamo un intervento, nelle compatibilità di un Paese che sta franando sotto l’emergenza, di continuità, poi valuteremo l’importo che verrà deciso, se più o meno congruo. Ora però l’urgenza è che quell’intervento sia garantito, lo ribadisco, almeno sino a ottobre. Se avessimo un ammortizzatore dedicato a questo settore sarebbe più facile, ma in Italia non c’è nulla, non si è mai fatto nulla in questa prospettiva. Il lavoro dello spettacolo non è mai stato valutato per quello che è, con le sue specificità. Adesso ci troviamo in uno stato di fatto per cui tutti i lavoratori dello spettacolo sono considerati quasi un corpo estraneo, praticamente espulsi dalle istituzioni. Come si può pensare che chi opera nello spettacolo non abbia diritti a compensi per “cause di forza maggiore”? Sembra ci sia un accanimento assurdo contro chi realmente fa teatro. Allora cosa faranno le imprese? Cosa deciderà il Ministero? Chi ama davvero il teatro?».

Altri appelli stanno circolando, che dimostrano da un lato il diffuso scontento e al tempo stesso la frammentazione di un settore che parla a più voci ma non riesce a farsi sentire con una voce sola.

Coppie di artisti entrambi disoccupati vedono precipitare il proprio reddito senza prospettive

C’è il lavorìo quotidiano dell’Agis, di Federvivo e delle altre associazioni. E c’è anche la netta comunicazione di Cresco, coordinamento delle realtà della Scena contemporanea, che, con la sua presidente Francesca D’Ippolito, chiede a Giuseppe Conte e a Franceschini che «all’interno della Commissione di esperti in materia economica e sociale che avranno il compito di proporre soluzioni necessarie alla ripresa del Paese, sia nominato un esperto del settore dello spettacolo dal vivo, affinché le specificità descritte possano essere di aiuto alla comunità tutta, considerando lo specifico di ogni settore».

Un’altra precisa e articolata presa di posizione è arrivata da Oberdan Forlenza, presidente del Teatro Due di Parma, che ha voluto proporre alcuni punti fermi dai quali ripartire.

Si chiede Forlenza:

«Attuare il “distanziamento” non produrrà solo una diminuzione di pubblico per replica (oltre che una diminuzione in generale) e dunque un aumento dei costi produttivi, ma comporterà anche un necessario ripensamento globale dei luoghi ed una ristrutturazione degli immobili. Tutto questo dipenderà dal tipo di misure, come è ovvio, ma significherà tempo e denaro. Con un paradosso finale: meno pubblico e più costi. E intanto cosa faranno attori e tecnici e i tanti giovani che si sono appena accostati a questo mondo e che vivono già ora in cattive condizioni di precariato?».

La drammaturga Lina Prosa, giorni fa, sulle pagine di Repubblica, si domandava:

«nella Fase 2, che prefigura la 3, qual è il ruolo del teatro e degli artisti che per definizione non si occupano direttamente di economia ma piuttosto del mistero laico dell’esistenza? Ovvero, chi ne ha competenza ci sta riflettendo? Si sta preparando alla Fase 3? Come passare dalla terapia intensiva alla scena, dai ventimila morti ai camerini dei teatri e al costume, al trucco del personaggio?»

Un’altra lettera diffusa in questi giorni, dal taglio più poetico, sulla necessaria centralità del corpo a teatro, è a di Francesco Pititto di LenzTeatro, e infine circola un aspro appello firmato da ben 32 spazi teatrali capitolini, raccolti nella signa UTR-Unione dei teatri di Roma, che lamenta il pressoché totale silenzio della amministrazione comunale, dove si legge, tra l’altro:

«Siamo in attesa di segnali di intervento e siamo disponibili a un confronto che riteniamo necessario per affrontare un’emergenza che diventa sempre più impellente, ma anche per evitare misure che, sebbene potrebbero aver efficacia in altri settori, si possano trasformare in ostacolo e compromettano il percorso di ripartenza per lo spettacolo dal vivo. In questo periodo, nella sola città di Roma, l’esercizio teatrale registra e prevede circa 1.150.000 spettatori e 24.000.000 di euro perduti per i soli mesi di marzo, aprile e maggio con una ricaduta disastrosa sul nostro settore e tutti i suoi addetti, diretti e indotti, che pure svolgono un compito fondamentale per la vita sociale e il progresso di tutto il Paese».

E infine, provo a lanciare un tema che mi sta molto a cuore: ancora resta da capire cosa accadrà di tutto quel teatro “sociale”, ovvero quel teatro che si confronta e opera con i territori del disagio e della marginalità. Che ne sarà del teatro fatto con le cooperative, con i portatori di handicap, nelle carceri – ricordate le rivolte di qualche settimana fa? Che conseguenze avranno sulle pratiche riabilitative come il teatro? – nelle scuole, negli ospedali? Che ne sarà non solo degli artisti-operatori, ma anche delle persone coinvolte? Quanto ci vorrà prima che una normale attività di laboratorio “sociale” potrà tornare a pieno regime?

Ancora resta da capire cosa accadrà di tutto quel teatro “sociale”, ovvero quel teatro che si confronta e opera con i territori del disagio e della marginalità

Perdere simili esperienze, radicate in tutta Italia e particolarmente necessarie in zone periferiche o di tensione, significa mettere a rischio professionalità che hanno favorito la creazione di modelli sociali e culturali di assoluto valore, ma significa anche annullare i risultati acquisiti in termini di cittadinanza, convivenza, riabilitazione, incontro, dialettica, civiltà.

Insomma, la situazione è delicata, bisogna prenderne atto e agire di conseguenza. “Essere pronti è tutto” diceva Shakespeare. E qui si tratta di ridisegnare il sistema, mettendo al centro non tanto e non solo le esigenze del mercato, quanto il ruolo fondante del rito teatrale cui restituire forza, dignità, presenza nella costruzione e nel miglioramento del tessuto sociale.

Così come Roma uscì dagli Anni di Piombo grazie al cosiddetto “effimero” – che poi effimero non è stato – creato da Renato Nicolini, sarà necessaria, nei prossimi mesi, una politica attenta, scrupolosa, rispettosa e, perché no?, creativa, comunque presente e ferma nella volontà di far crescere il settore. Tutelare lo spettacolo dal vivo significa tutelare la società. Intanto aspettiamo Godot.