Cronache dallo Sponz Festival, il festival curato da Vinicio Capossela

Sandali ai piedi, petto nudo coperto solo da un telo azzurro, in mano un tamburello, Peppe Leone inizia la sua invocazione alla foce qui, alle sorgenti dell’Ofanto, nella “fontana che bolle” appena fuori Torella dei Lombardi, nell’Alta Irpinia. Lo Sponz Festival diretto da Vinicio Capossela è cominciato già da qualche ora, con un concerto all’alba dei Guano Padano, un “omaggio alla musica e al cinema di frontiera” nella piazzetta della fontana monumentale di questo paese di duemila abitanti a seicento metri d’altezza.

Percussionista, compositore e arrangiatore, sperimentatore del tamburello, anche Peppe Leone omaggia a suo modo la musica di frontiera, quella che attraversa confini geografici e culturali. Davanti a lui, alle spalle della fontana-sorgente dell’Ofanto, seduti a gambe incrociate sul prato o ai bordi della fontana, poco più di venti persone, coppie perlopiù giovani che ascoltano con attenzione.

Spettatori fortunati di questa ottava edizione limitata “causa covid”, vengono trasportati dall’Irpinia alla valle del Niger con tre brani ipnotici, il secondo dei quali parla di una “divinità d’acqua dolce, sirena vanitosa e guerriera, che in una mano tiene lo specchio, nell’altro la spada”: Oshun. Dall’Africa nera, dalla valle del Niger e dalla cultura yoruba viene anche Yemaja, o Yemaya, “la madre-acqua, divinità che con la tratta degli schiavi arriva fino a Cuba, Haiti, cambia, si evolve, madre di tutte le madri che partorisce la terra e da cui, chissà, viene anche la Madonna”.

Peppe Leone mentre si esibisce nell’invocazione alla foce

Peppe Leone, invece, viene dalla foce dell’Ofanto, tra Barletta e Margherita di Savoia, lì, vicino al bar Conchiglia a cui è dedicata la sua terza canzone che lega ancora una volta Barletta, Torella e il Niger. Attraverso l’acqua.

Questa edizione dello Sponz Festival è dedicata all’acqua: “Sponz Acquá, dalla Valle dell’Ofanto alla Foce del Sele”. E si tiene nell’anno pandemico. Parlare di acqua in un anno come questo, recita la breve introduzione firmata da Vinicio Capossela, “non è solo parlare di ecologia, di risorse, di sfruttamento e di rapporto con la natura, è soprattutto parlare di rinascita”, di purificazione e rigenerazione, di responsabilità “verso noi stessi, gli altri, la natura intorno”.

La natura dell’Ofanto, ricorda Linda Mollica nella sua vulgata lectio, è rabbiosa per Orazio, nato ad appena centro chilometri da qui, a Venosa. Orazio parlava dell’Ofanto come di un fiume “che strepita” e ancora oggi è un fiume che “racchiude la storia di questa terra, la coscienza di questi luoghi sta nel fiume Ofanto”, spiega il giornalista Generoso Picone.

Siamo in un “paesaggio antico e selvaggio” diceva Mario Soldati, arrivato qui a Torella dei Lombardi nella sua Fuga in Italia il 19 settembre 1943 insieme a Dino De Laurentiis, la cui famiglia era originaria di Torella. Un paesaggio che allo scrittore torinese ricorda la natura dell’Ariosto, una terra che ai tempi del fenicio Annibale, dice ancora Picone, “era aperta anche a chi veniva dall’Africa”, rimasta però politicamente ostile a Francesco De Sanctis, come racconta in Un diario elettorale, pubblicato a puntate in appendice alla Gazzetta di Torino nel 1875. L’autore che trova “la migliore definizione dell’Irpinia” nasce qualche anno più tardi. È Giuseppe Ungaretti. Per lui l’Irpinia, Calitri, sono “case sopra a frane ferme”.

L’Irpinia è “terra ballerina, terra d’acque”, per Generoso Picone, “terra che può essere compresa solo attraverso le sue catastrofi”, aggiunge l’antropologo Vito Teti, docente all’università della Calabria, seduto dietro una piccola scrivania, verde come l’acqua della fontana Santese di Gagliano da cui ogni tanto si affaccia timidamente una ranocchia, per poi immergersi di nuovo.

Vito Teti alla fontana Santese

La “fontana Santese è una delle fontane che hanno segnato la topografia di queste territorio nel corso della civiltà contadina, e che oggi appaiono ‘rottami’ in disuso, vestigia di un mondo millenario in cui l’acqua era fondamentale per le bestie e per gli uomini”, nota Vinicio Capossela, prima che Donato Lucev racconti una parte del suo itinerario alla scoperta delle “fontane di Calitri”, tradotto poi in un omonimo libro-inventario in cui cataloga “ 37 fontane più 4 vasche”.

Vito Teti, curatore anni fa per i tipi Donzelli di una bella Storia dell’acqua. Mondi materiali e universi simbolici, ricorda che per Gaston Bachelard “ogni metafora dell’acqua è sempre legata a un’esperienza materiale, concreta”, e insiste sulla natura duplice dell’acqua, “che dà la vita e la distrugge”. Le alluvioni, dunque, ma anche i santi e le sante d’acqua, che fanno sgorgare l’acqua dove c’è bisogno, che interrompono la pioggia, le cui statue vengono immerse, bagnate, secondo quel “pensiero organico che non è razionale ma non è semplice superstizione”. L’acqua, ripete Teti, è “elemento che lega la vita, la morte, poi di nuovo la vita, elemento di raccordo, mediazione, continuità, al confine, al limen tra vita e morte”. “Acqua come imago mortis e imago vitae”, insieme e senza contraddizione. Nella contraddizione.

Si appella alla “logica metamorfica, che permette di essere se stessi e insieme altro”, anche Enza Perna. Parla da un balconcino che si affaccia su piazza Sergio Leone, alle spalle del castello Ruspoli di Torella dei Lombardi. Alla sua destra c’è il cantore Giovannangelo De Gennaro, che la introduce e la accompagna con canti e suoni antichi e contemporanei, perché il saggio – nota padre Giuseppe Gaffurini, già monaco cistercense per 35 anni, da 10 frate minore francescano alla basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme – “il saggio sa mettere insieme nova et vetera”. De Gennaro esegue “vidi aquam”, dal repertorio gregoriano, e poi “Onne homo ad alta voce” una lauda dal Laudario di Cortona, manoscritto della seconda metà del XIII secolo.

La storia raccontata da Enza Perna inizia invece tra il settimo e l’ottavo secolo, quando a Rocca San Felice appare una dea, Mefite, “che mostra la propria potenza attraverso l’acqua, e che è letteralmente metamorfosi della sua valle: la dea Mefite è metamorfosi della valle d’Ansanto”, una valle che prende il nome dal lago ribollente di sorgenti solforose ma “che è anche l’utero della dea Mefite”. “Acque miracolose, metamorfiche”, le definisce Enza Perna, caratteristiche di “un luogo potente, come lo era una volta Delfi per i greci”. Perché “oggi questa è periferia della periferia, espulsa da ogni centro, ma questa terra era un centro spirituale e fisico, onfalico, che rigenerava, dava vita e risurrezione”. Quell’aspetto curativo, protettivo, negato dai romani, “che conquistano i sanniti ma anche la loro dea di riconoscimento etnico, negandone la natura benefica”.

Beatrice, trentenne di Follonica, sostiene che è lo Sponz Fest ad avere effetti benefici, terapeutici. “L’anno scorso mi ha aiutato a uscire da un brutto periodo. Sono tornata a casa piena di energie positive”. È in compagnia di un’amica di Follonica, Claudia, e di altre due ragazze, Carla, madre di due figli, che viene da Livorno, e Francesca, che viene da Prato. “Ci siamo conosciute su un gruppo Facebook di Capossela, siamo venute qui la prima volta insieme e poi di ancora di nuovo”. Non ci rinuncerebbero più. Francesca perché è una “caposseliana” convinta, Beatrice perché “qui“siamo libere, fuori dallo spazio e dal tempo. Se lo vedi dall’esterno non lo capisci, bisogna immergersi nel festival, viverlo tutto”. Per loro lo Sponz è “un motivo per partire, un’avventura, una famiglia, una seconda casa”. Dietro a tutto c’è lui, certo, Vinicio Capossela, che hanno seguito anche nel tour invernale, a “San Giovanni a Piro, Ancona, Genova, Firenze, Montecatini, Salsomaggiore, Napoli, Venezia”. Ma “Vinicio rimane Vinicio, per me non sarà mai né Capossela né maestro, come lo chiama qualcuno”.

Qui, tra Calitri e gli altri paesi in cui si svolge questo festival sotto forma di carovana e pellegrinaggio, di maestri veri e propri non ce ne sono. Non ci sono lezioni, ma “incontri della Libera Università per Ripetenti”. Perfino la lezione alla neviera di Gagliano di quello che forse è il più accademico degli ospiti, il fisico nucleare Piero Martin – importanti ricerche in corso e alle spalle – è una lezione sui generis, in cui i cambi di t-shirt di Martin servono a ricordare che la fisica è in ogni cosa, che “i bosoni sono sociali mentre i fermioni amano stare distanti”, come ci tocca fare al tempo del covid. E soprattutto che “l’acqua è uno dei sistemi fisici più complessi, indispensabile per la vita”. Lo sostiene la scienza. Lo conferma la “capo-scienza”, quel particolare sistema di saperi che si celebrano allo Sponz Fest di Capossela e che mette insieme “la scienza e l’acqua santa”.

Piero Martini alla neviera di Gagliano

D’altronde, sostiene nel suo applauditissimo intervento video Vincenzo Mollica ricordando i suoi incontri con Sergio Leone, Clint Eastwood, Federico Fellini, l’arte è “illusione e pasticciare, mischiare le cose, combinarle”.

È un’arte, un metodo che convince i ragazzi e le ragazze dell’associazione Fucarazza. Vengono da Carosino, un paese di seimila abitanti in provincia di Taranto. Ogni anno (tranne questo) organizzano il Festival della Primavera, celebrata ad aprile con il rituale di un grande falò. “Veniamo a studiare, a vedere come si organizza un festival, a prendere spunto, a raccogliere nuove idee”. Ma anche a vederne confermate altre, “come gli spaghetti per gli spettatori come momento aggregativo, il festival itinerante, diffuso, il rapporto con la natura”. Il falò per loro “è solo esito finale di un percorso che dura mesi, fatto per creare comunità, recuperare vecchie pratiche rituali, agricole e non solo”. Vinicio Capossela e la sua musica “all’inizio rappresentavano l’unica ragione per venire qui, oggi dopo tanti anni ci torniamo perché ci sentiamo a casa”, sostengono. Annuiscono le ragazze toscane. Per loro “Vinicio è un tramite, non la causa”.

Un po’ come l’acqua. Tramite e sostanza di tutto. Perché “l’acqua è una parabola infinita”, “l’acqua mostra come occorre comportarsi”, sostiene Capossela leggendo da un libriccino quasi introvabile di Danilo Dolci, Il potere e l’acqua, e introducendo la lezione di Goffredo Fofi sull’opera e il pensiero di Dolci.

Fofi parte da fatti personali per raccontare una stagione in cui la domanda sul “che fare?” si traduceva in azione, non solo in teoria, un periodo storico – “quello successivo alla fine della seconda guerra mondiale, ai suoi disastri e alle sue illusioni” – in cui il dire e il fare andavano a braccetto. A 18 anni Fofi vede sulla rivista Cinema nuovo un foto-documentario di Enzo Sellerio sulle attività svolte a Partinico da Danilo Dolci, a cui fa recapitare una lettera attraverso la rivista. Dolci la legge e gli risponde: pochi mesi dopo Fofi è in Sicilia, partecipa agli “scioperi alla rovescia”, riceve un foglio di via, scopre l’inchiesta sociale, passa un anno nel cortile Cascino, a Palermo, dove vivono 1.500 persone in condizioni degradanti. I bambini muoiono di fame. Il lavoro non c’è.

Ci si arrangia come stracciaioli. Per Fofi è una vera e propria università. E lo è un po’ anche per Danilo Dolci, che qui finisce per imparare tante cose.

Goffredo Fofi

In un periodo in cui ci si chiedeva quale sviluppo fosse possibile per il Meridione, in cui Manlio Rossi Doria distingueva “l’osso dalla polpa”, Dolci si batte per la costruzione della diga di Roccamena, nel Belice interno. Una battaglia lunga, dura. Da cui esce vittorioso, ma già perdente, come avrebbe scritto in una delle poesie raccolte in Il limone lunare (Laterza):

“Non si può mai pensare di aver vinto.
Ricordo quando, alcuni anni addietro,
eravamo riusciti ad ottenere
l’inizio dei lavori alla diga:
dopo scioperi duri mesi e mesi –
fame, minacce, denunce, galera –,
dopo anni di pressione popolare
contro sbirri, burocrati paurosi
ambigui magistrati,
isolando i mafiosi – tutti contro –,
dimostrando quanto era assurdo, infame
sprecare l’acqua a mare ed intanto lasciare
uomini senza lavoro.
Il giorno dell’avvio dei lavori
della strada per giungere al futuro
cantiere, siamo andati a vedere:
trenta uomini curvi spicconavano
sotto gli occhi di un tipo col cappello,
sotto un grande cartello:
un mafioso già aveva il subappalto”.

Anche per Dolci l’acqua è imago mortis e imago vitae. E il realismo pragmatico di questa poesia viene compensato da altri scritti, di tono molto diverso. Come questo, tratto dalla premessa a Nessi fra esperienza etica e politica, in cui Dolci si chiede, come molti di noi spettatori dello Sponz Fest 2020: “La coscienza dell’acqua, la coscienza della viva città, la coscienza dei rapporti necessari non può aiutarci a concepire un mondo, come i bambini dicono, più intelligente, più sano, più vero?”.