Dobbiamo capire come salvarci senza perdere il capitale sociale

Non è facile analizzare la realtà, in questi giorni dove gli unici canali a nostra disposizione soffrono di una forte intermediazione: social, stampa, televisione e perfino le call, familiari, di lavoro o amicali che siano , faticano a restituirci quel “vissuto” della realtà che ora resta fuori dalle nostre case.

Ma l’impressione, da qui, è che stiamo assistendo a una polarizzazione della distribuzione del capitale sociale nella società, già evidente nelle nostre città e resa ancora più esasperata dall’emergenza in corso: una polarizzazione che non ha tanto a che vedere con la distribuzione territoriale o sociale di questa straordinaria risorsa coesiva ma con gli elementi che costituiscono il capitale sociale stesso.

Se ci rifacciamo alla “ricetta” (per restare sui trend del momento) del capitale sociale originariamente fornita da Robert Putnam nel 1993 (quella a cui, opportunamente aggiornata, al Centro Antartide siamo ancora molto affezionati), si parla di ingredienti come “norme condivise dai membri di una stessa comunità che regolano la convivenza”, “fiducia” e “reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo”.

Per quel che riguarda le norme che regolano la convivenza in realtà abbiamo oggi forse il set di regole più chiaro che mai e forse anche la maggiore osservanza in questo senso mai registrata: per quanto in realtà come già notato da molti esse regolino solo alcuni aspetti che però sembrano aver preso il sopravvento. Le reti di associazionismo civico, in gran parte, si sono distinte per la reazione avuta durante l’emergenza e per le iniziative avviate a vantaggio delle persone colpite, direttamente e indirettamente dall’emergenza; sebbene anche in questo caso nella gestione complessiva della pandemia l’elemento del “comune accordo” sembra mancare quasi del tutto.

Se da una parte brillano gesti di solidarietà, l’attenzione ai più deboli, dall’altra si sta erodendo in maniera esponenziale la fiducia orizzontale, quella tra cittadino e cittadino

E tuttavia il nodo maggiormente critico ruota attorno a una delle risorse chiave in questo momento – la fiducia – e alla capacità fondamentale di collaborare, così importante per la corretta gestione dei beni comuni.

Scrive Paolo Venturi nell’ultimo numero di Vita proprio a proposito di fiducia: “Siamo davanti alla grande questione del bene comune. In queste situazioni di crisi capiamo che la salute è un bene comune. Ma i beni comuni postulano una convergenza di azioni e interessi, una prassi collaborativa e cooperativa che non si è vista.”  Cosa “vediamo” invece? Saltano agli occhi alcuni ossimori evidenti.

Se da una parte brillano gesti di solidarietà, la riscoperta del buon vicinato, l’attenzione ai più deboli e a chi si trova ad affrontare la drammatica esperienza della malattia personalmente o in famiglia, dall’altra si sta erodendo in maniera esponenziale la fiducia orizzontale, quella tra cittadino e cittadino, in una dinamica, spesso incoraggiata da alcune istituzioni e media in nome dell’emergenza al fine di migliorare l’ottemperanza alle norme: sospetto, diffidenza, giudizio verso il comportamento altrui, segnalazioni di presunte illegalità, in un clima in cui la funzione di controllo sociale, generata anche dalla frustrazione individuale, supera ogni empatia e collaborazione.

E ancora, se da una parte ci si affida alla capacità di governance dei politici a vari livelli, in alcuni casi esaltandone la linea decisa e intransigente o le capacità di comunicazione con la cittadinanza, dall’altra si assiste a una perdita di fiducia verso le istituzioni tutte che hanno reagito con poca prontezza all’emergenza, con conseguenze anche drammatiche, e che hanno per la stragrande maggioranza messo in campo strategie deboli sia sul fronte della costruzione di alleanze e relazioni proficue con la società civile e in mondo delle imprese che della chiarezza nell’azione strategica di divulgazione scientifica.

E infine, se da una parte nascono flash mob di scroscianti applausi per ringraziare gli operatori sanitari impegnati nell’emergenza e si sta collaborando da più parti a una narrazione di medici e infermieri come veri e propri eroi del momento, dall’altra pur con l’emergenza ancora nel suo pieno sono bastate poco più di quattro settimane perché i cittadini, familiari e parenti, tornassero a mettere mano allo strumento ahimè molto diffuso già prima dell’emergenza della denuncia ai professionisti del mondo della sanità, del biasimo di una cura sentita non consona e dell’accusa al Sistema Sanitario che il più delle volte non si ferma al reclamo.

Nota ancora Paolo Venturi su Vita: “Le persone quando provano paura sono spinte a mettersi insieme. Ma solo se c’è fiducia gli uni negli altri, altrimenti…”. A essere pessimisti sembra che ci troviamo dentro quell’altrimenti. Così come la capacità del nostro Sistema Sanitario è il frutto di anni di scelte precise in questo ambito, così “l’estratto conto” della fiducia all’attivo nel patrimonio delle nostre città ha origini lontane nel tempo e responsabilità diffuse: ma questo momento attuale è molto importante per tornare ad allenarsi a coltivare fiducia.

Fidarci dei medici che ci curano, dei vigili che controllano, delle istituzioni che agiscono e ordinano misure restrittive. E fidarci dell’altro

La strada può solo essere quella dell’empatia: è del 19 marzo il messaggio di Luca della Godenza, Sindaco di Castel Bolognese, che come tanti sindaci italiani si trova a rispondere ai messaggi dei cittadini, tra chi chiede più controlli, chi segnala persone che escono, chi chiede se dopo una giornata di lavoro può fare una passeggiata e così via. Nono sono in tanti quelli che hanno saputo dare risposte più centrate in questo senso; qui un passaggio del suo post su Facebook: “Ora davanti a tante domande che non hanno risposta credo che l’unica cosa che possiamo fare sia quella di fidarci. Fidarci dei medici che ci curano, dei vigili che controllano, delle istituzioni che agiscono e ordinano misure restrittive. E fidarci dell’altro. La cosa più difficile. Fidarci quando vediamo una persona per strada, perché non sappiamo se ha un problema di salute o di depressione che lo porta ad uscire. Mettere su Facebook la sua foto vuol dire esporlo al pubblico giudizio e giudicarlo, ma chi sono io per giudicare?

Non sono tutti forti come noi che scriviamo sui social dicendo di stare in casa, ci sono anche persone che per motivi che non conosciamo ne hanno il bisogno. Non giudichiamole, la situazione è più difficile per loro. Chiediamogli di prendere tutte le precauzioni ma non urliamogli addosso. Non serve, e non servirà nemmeno domani. Facendo così giudichiamo negativamente noi stessi, prima di loro.

Fidiamoci dell’altro e del buon senso, perché anche se come diceva Manzoni, “il buonsenso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”, noi non abbiamo paura del senso comune!

Guardiamo l’altro dalle nostre finestre e cerchiamo di comprenderne le ragioni, non proviamo rabbia o invidia . Se lo faremo, se dimostreremo la nostra forza in un momento così difficile, allora ne usciremo più forti e più uniti. In caso contrario metteremo muri più spessi di quelle delle nostre case tra noi e gli altri.”

Solo attraverso l’empatia possiamo tornare davvero a costruire comunità, e una coesione che sia davvero inclusiva di tutti in maniera indiscriminata, non solo di chi in quel momento noi, a nostro insindacabile giudizio riteniamo che sia meritevole della nostra fiducia. E’ proprio questo tipo di fiducia la base per il capitale sociale, quella che ci lega in quanto membri della stessa “comunità” e non sulla base di meriti, condivisione di visioni specifiche o interessi.

Scrive sul Corriere Alessandra Dal Monte, a proposito di Coronavirus e condominio. “Sabato sera Antonio ha bussato a tutti (i condomini) per darci una porzione di lasagne preparate da lui. Due settimane prima ci aveva passato il ragù. Roberta appena va a fare la spesa scrive: «Vi serve qualcosa?»”.

Lavorare a costruire fiducia, collaborazione e comunità anche con il distanziamento fisico che ci è imposto e che forse ci porteremo dietro per un po’ è possibile e soprattutto necessario, anche considerato il periodo di crisi economica nel quale stiamo già entrando e che rischia di inasprire ulteriormente conflitti e insicurezze: ancora una volta, come Giampiero Mucciaccio scriveva nei primi progetti cittadini che nel rilancio del capitale sociale avevano l’obiettivo principale, le responsabilità sono diffuse, non solo istituzionali ma dovranno prevedere anche un protagonismo della società civile, del Terzo Settore (si veda su questo anche la riflessione di Stefano Zamagni in apertura del mensile Vita) e del mondo delle imprese.

Per tutti questi attori come in tutti gli investimenti, la prima strategia per ricominciare a coltivare fiducia dovrà essere quella di investire e distribuire fiducia in partenza: proprio a partire dai primi momenti che caratterizzeranno la ripartenza, la tanto agognata fase 2, e che verosimilmente non potrà essere impostata su rigidi meccanismi di controllo delle indicazioni e che dovrà avvalersi (a meno di non prevedere una crescita esponenziale dei soli costi di “vigilanza”) proprio della collaborazione tra cittadini e istituzioni, tra aziende e dipendenti, tra cittadini e cittadini.

Ed è moltissimo quello che anche gli individui possono fare in questo senso. La strada, per tornare su temi a noi cari, può cominciare ad esempio dalla gentilezza indiscriminata, che ha il vantaggio di poter viaggiare sui vari canali, anche quelli che il distanziamento sociale, che è poi fisico e non relazionale, ci impone e come ci insegnano gli amici del ballatoio milanese descritto dal Corriere. La gentilezza, in questo senso, è una strada privilegiata per la costruzione di empatia, di quella fiducia diffusa che è l’unica condizione per lo sviluppo del capitale sociale, non solo “bonding” ma soprattutto “bridging”.

Stiamo di fatto negandoci la possibilità di tutte le pratiche di promozione attiva della salute consolidate nelle ultime decine di anni

Si intende con questa seconda categoria infatti quella capacità di creare relazione e fiducia tra soggetti o gruppi di soggetti che poco condividono in quanto a background, interessi condivisi, provenienza geografica o sociale. La vera scommessa per il futuro delle nostre città e per la capacità di coesione delle comunità, con o senza Coronavirus.

La sfida ora sarà quella di capire, come società civile, come reinventare sul breve e lungo periodo gli altri strumenti che eravamo abituati a usare in materia di costruzione di comunità e di miglioramento della coesione, per fare in modo di tenere insieme distanziamento fisico, promozione della fiducia, invito alla collaborazione per la gestione dei beni comuni ed empatia senza però cadere nel rischio di esclusività che oggi, considerando fattori di digital divide e il bagaglio di paura e diffidenza che questa esperienza ci lascerà, si fa più grave che mai. Inventare nuove strategie in questo senso sarà il nostro lavoro dei prossimi mesi, nell’attesa che si possa trovare qualche modo per tornare alla spontaneità degli incontri, e poter ricordare solo le regole della cortesia dimenticando quelle delle “distanze di sicurezza”.

“Per il rischio pubblico è stato inventato il welfare state” conclude Venturi nel pezzo già citato. “Per i rischi privati, le assicurazioni. Ma per questo tipo di rischi non bastano né il “rimedio” pubblico, né quello privato. Serve il potenziamento della comunità e della società civile. In una società del rischio, se non rimettiamo al centro la società civile anche coprirci dai nuovi rischi, di cui il Coronavirus è solo un aspetto del problema, non ne usciremo mai. Per questo dobbiamo insistere su questo punto: è la realtà a chiedercelo”.

Ne va insomma della nostra resilienza come comunità. La narrazione in questo momento ha dato priorità alla salute della cittadinanza (per quanto si parli in realtà di una salute definita “per sottrazione”, come “salvezza da” dato che per difenderci stiamo di fatto negandoci la possibilità di tutte le pratiche di promozione attiva della salute consolidate nelle ultime decine di anni): ma dobbiamo fare tutto quello che è in nostro potere per non ritrovarci in un mondo “salvato” che nella strada per la liberazione ha finito per erodere tutto il suo capitale sociale.