Per la Fondazione Piemonte dal Vivo il pubblico deve stare al centro

È possibile portare l’innovazione culturale anche negli enti più istituzionali? Togliere la polvere di dosso a realtà che, a volte, sembrano rinunciare in partenza a evolvere e ad adottare nuove pratiche? La risposta, per quanto possa sorprendere, è positiva. Lo dimostra l’esperienza di un ente come la Fondazione Piemonte Dal Vivo: nata nel 2003, col tempo ha affrontato una profonda trasformazione che l’ha portata a essere non più solo un circuito teatrale, ma a occuparsi in senso multidisciplinare di spettacolo dal vivo (prosa, danza, circo contemporaneo) e a diventare il braccio operativo della regione per lo sviluppo delle politiche culturali in ambito performativo.

E così, oltre a organizzare festival e decine di stagioni teatrali su tutto il territorio piemontese, la fondazione ha assunto nuovi cruciali ruoli: “Siamo il soggetto capofila della Lavanderia a Vapore, un centro di residenza per la danza, membro dello European Dance Network, che si trova a Collegno nella ex lavanderia di un grande ospedale psichiatrico. È un bellissimo esempio di rigenerazione urbana”, racconta Matteo Negrin, quarantacinquenne e direttorte di Fondazione Piemonte Dal Vivo. “Ci occupiamo inoltre di progetti specifici legati all’empowerment degli operatori culturali del territorio, attraverso una realtà come Hangar Piemonte che li aiuta a ottenere competenze specifiche e strumenti concreti nell’ambito dell’impresa culturale, sviluppando nuove capacità nei confronti della sostenibilità economica, ambientale e culturale”.

Matteo Negrin

Da circuito teatrale, la Fondazione Piemonte Dal Vivo è diventata una realtà multiforme, che si occupa anche di fornire nuove abilità agli operatori del mondo della cultura e le cui funzioni vanno quindi oltre l’organizzazione degli spettacoli dal vivo: “Per chi ha seguito lo sviluppo a livello europeo degli ultimi anni non si tratta di una novità, ma per un ente istituzionale come il nostro è stata una vera e propria rivoluzione copernicana”, prosegue Matteo Negrin. “Una rivoluzione anche perché oggi cerchiamo sempre più di mettere il pubblico al centro della nostra attività, assumendo il suo punto di vista e quello dei nostri stakeholder e interlocutori, con l’obiettivo di arrivare a ingaggiarli nelle politiche di sviluppo della fondazione”.

Le attività di cui si occupa la fondazione sono quindi non solo diversificate, ma anche molto differenti tra loro. C’è un filo conduttore che tiene insieme tutto questo? “A unire ogni nostra attività è l’abilitazione del contesto. Mi spiego: ogni nostra offerta è pensata sulla base del pubblico, in un’ottica di audience engagement, ma anche sulla base della strategia dell’amministrazione e anche di ciò che potremmo chiamare genius loci. Anche un progetto come Hangar Piemonte si mette nei panni del proprio interlocutore e cerca di individuare in lui gli strumenti per emanciparsi, mentre la Lavanderia a Vapore abilita artisti e pubblico ai linguaggi del contemporaneo, specificamente per quanto riguarda la danza.

Sentire parlare di empowerment, audience engagement e abilitazione del contesto all’interno di un ente istituzionale regionale potrebbe fare una certa impressione, visto quanto il panorama culturale istituzionale italiano venga considerato antiquato e poco propenso all’innovazione. Significa che la situazione sta cambiando? “Se guardiamo a realtà come la nostra o come il Polo del Novecento (con sede sempre in Piemonte, ndr), si tratta di enti che hanno assunto direttori che sono relativamente giovani per lo standard italiano”, prosegue Matteo Negrin. “Si tratta poi di strutture all’interno delle quali la componente di giovani e donne con esperienza europea è molto elevata. Inoltre, noi ragioniamo in ottica sempre meno piramidale, con una leadership che lascia spazio a un organismo collettivo. Penso che per il futuro si possa essere positivi, perché il cambio che sta avvenendo non è episodico, ma strutturale”.

Una positività che è però messa a dura prova dall’impatto che la pandemia ha avuto sul mondo della cultura e in particolar modo degli spettacoli dal vivo: “Siamo stati i primi a chiudere e gli ultimi a riaprire. Non avendo tuttora nessuna idea sulle modalità di svolgimento di quest’autunno, stiamo puntando moltissimo sull’estate per dare continuità alla relazione con il pubblico e anche per rimettere in moto la macchina di artisti, tecnici e maestranze, che si trovano in una situazione molto difficile. All’inizio di giugno, nel giro di 15 giorni, abbiamo messo in piedi quasi duecento spettacoli per tutta la stagione estiva. Nonostante le difficoltà, si tratta di un momento entusiasmante in cui è possibile testare nuove strategie per il nostro lavoro, circostanza che non è sempre data per gli enti come il nostro. È un momento in cui si può osare, sapendo che in questa fase un errore di valutazione sarà più facilmente perdonato”.

L’altra inevitabile conseguenza della pandemia è invece la digitalizzazione, che anche dal punto di vista lavorativo ha comportato cambiamenti più profondi del semplice lavorare da casa: “Abbiamo compiuto da un momento all’altro un balzo sull’agenda digitale”, conferma Negrin. “Ma lavorare in regime smart significa lavorare per obiettivi e non in base a un orario di lavoro”. Per quanto invece riguarda la digitalizzazione degli spettacoli – che altrove ha suscitato grande entusiasmo in forma di streaming, concerti virtuali, ecc. – la posizione di Negrin è decisamente più sfumata: “La peculiarità dello spettacolo dal vivo è tale che, per essere digitalizzato, non basta riprodurlo in streaming, ma è necessaria un’operazione più complessa, figlia di un pensiero nativo digitale che richiede competenze che non sono quelle di un ente come il nostro”.

“Stiamo però facendo riflessioni profonde in senso verticale”, conclude Negrin. “Per esempio, nel mondo degli spettacoli per ragazzi e per le scuole c’è la possibilità di coinvolgere artisti e videomaker, per sfruttare al meglio gli strumenti della didattica a distanza e realizzare qualcosa di puntuale, che vada incontro alle necessità attuali della scuola. Questo ci permetterebbe di uscire da una dimensione in cui il digitale è spesso un surrogato, qualcosa di accessorio, ed entrare invece in maniera perentoria in una in cui il digitale è sfruttato al meglio quando diventa una soluzione necessaria”.