Tra gli esclusi e gli insediati, perché le città non sono oggetti fisici ma oggetti sociali

La parola emergenza deriva da emergere. Significa sorgere da (to rise out of), scrive Rebecca Solnit in A Paradise Built in Hell, The extraordinary communities that arise in disaster. Emergere vuol dire affiorare, rendere visibile, manifestarsi, ma anche brillare, eccellere. In italiano l’opposto di questa parola, che deriva dal latino mergere, è immergere, ovvero inabissarsi, sparire, sprofondare. In inglese l’opposto di emergenza è merge, e ha un significato in più rispetto all’italiano, perché significa anche fondere. «Un’emergenza è dunque una separazione dal familiare, un’improvvisa emersione in un’atmosfera nuova», che spesso ci richiede di sorgere, rise, «essere all’altezza dell’occasione».

Solnit racconta i momenti dell’attacco alle Torri Gemelle, ed è un’altra versione dei fatti rispetto a quella che conosciamo. «I media statunitensi erano intenti a rendere l’evento molto più simile a un film e nel farlo si sono persi la verità e la ricchezza di ciò che i newyorkesi comuni erano riusciti a fare in quel terribile giorno. I giornalisti hanno descritto la risposta al disastro come se si trattasse di un film d’azione, in cui erano gli eroi maschili a fare ciò che contava.

Nelle storie che ne sono scaturite, questi eroi in uniforme erano eccezionali, erano professionisti, erano uomini d’azione, e soprattutto erano uomini. Ciò che si è perso in questa versione epica è il fatto che la maggior parte delle persone è riuscita a evacuarsi da sola dalle torri e dalla zona senza molta assistenza da uomini in uniforme, e tra coloro che hanno salvato altri c’erano uomini gay poco atletici, anziane dirigenti donne, presidi di scuole, ebrei Hasidici in abiti decisamente poco eroici, una banda di contabili che ha portato giù un collega paralizzato per oltre 69 rampe di scale, giovani uomini che si sono fatti avanti mentre la polizia era sopraffatta, senzatetto, infermieri e autisti. Tutti, in altre parole, come in un disastro».

Dopo un terremoto, un bombardamento o un uragano, le persone sono altruiste. La risposta al pericolo è innanzitutto quella delle relazioni, della comunità che si protegge, si rassicura, si rafforza.

Dopo un terremoto, un bombardamento o un uragano, le persone sono altruiste, scrive Solnit. La risposta al pericolo è innanzitutto quella delle relazioni, della comunità che si protegge, si rassicura, si rafforza. «L’immagine dell’essere umano egoista, in preda al panico o regredito a uno stato selvaggio in tempi di disastro, non corrisponde alla verità». Nipoti, zie, vicini si casa e completi sconosciuti si sono aiutati, salvando vite umane dopo l’uragano Katrina, quando molti la persero perché il governo e i media avevano deciso che era troppo pericoloso intervenire. Intanto, la stampa era intenta a fabbricare e riportare con insolito zelo gli episodi di looting, i saccheggi: New Orleans veniva rappresentata come un luogo di perdizione e di criminalità. Poco importava che gli anziani, le madri e i figli, i malati intrappolati nella città e senza aiuti non avessero più di che mangiare. Per Solnit, l’ossessione mediatica per i saccheggi«è un’ossessione per la proprietà prima che per la vita».

La proprietà è divisiva. Lo sapeva bene Margaret Thatcher quando fu eletta nel 1979 con un manifesto programmatico (che riprendeva un’idea di Anthony Eden, primo ministro durante il secondo dopoguerra) per una property-owning democracy, una democrazia proprietaria.

L’anno prima David Harvey aveva teorizzato, sulla scorta delle riflessioni di Henry Lefevre, la transizione dal circuito primario del capitale, legato all’industria, al circuito secondario, legato al mercato immobiliare finanziarizzato. L’anno seguente il governo inglese passò il Housing Act che lanciava la politica del Right to Buy, il diritto ad acquistare la casa pubblica. Margaret Thatcher voleva cambiare la mentalità degli inglesi, e vi riuscì. Il modo più semplice per farlo era promuovere la proprietà privata.

Le council houses erano case di proprietà pubblica, di tutti, diventate proprietà privata, di qualcuno.

«Noi, al massimo, potevamo scegliere il colore della porta d’ingresso» mi racconta mia madre, cresciuta in un piccolo paese vicino Liverpool prima dell’era Thatcher. «Eravamo ben contenti delle nostre case. Tutto funzionava bene, se c’era un guasto il Comune veniva subito. Nessuno di noi si sarebbe mai sognato di comprare una casa, non ce n’era motivo». Mia madre ricorda la prima volta che qualcuno nel paese comprò una casa. «Eravamo allibiti, non capivamo il perché…». Il perché, secondo Margaret Thatcher, era il senso della celebre frase pronunciata durante un’intervista: «non esiste la società, esistono solo gli individui». Dividere la classe, schiacciare le lotte, rompere la solidarietà, atomizzare la società.

Nel giro di pochi decenni questo disegno si è compiuto. 2 milioni di case su un totale di 6,5 milioni sono sopravvissute al gigantesco piano di dismissioni di Thatcher. Ma la sua vittoria non è solo numerica. Le council houses erano case di proprietà pubblica, di tutti, diventate proprietà privata, di qualcuno. Questo passaggio è stato raccontato spostando l’attenzione dal tipo di proprietà al tipo di utenza delle case, dando una nuova connotazione a queste abitazioni: le case pubbliche sono diventate le case dei poveri. La casa privata è invece diventata un investimento, e poi un prodotto finanziario, secondo la logica del buy to leave, un pretesto materiale, staccato dal suo valore d’suo, per operazioni che avvengono nell’etere.

Secondo il US Census Bureau negli Stati Uniti ci sono 17 milioni di case vuote. Secondo dati Eurostat del 2011 e analizzati da FEANTSA l’Europa conta oltre 38 milioni di case vuote. In numeri assoluti Spagna e Italia, con circa 7 milioni di case vuote per paese, primeggiano.

«L’atto di rivendicare spazio nelle città e di costruire case si oppone all’esclusione spaziale, all’appropriazione di terre e proprietà da parte dei ricchi senza alcuno scopo se non la speculazione, alla colonizzazione dei territori indigeni e ai tentativi delle autorità di rendere invisibili intere comunità non riconoscendole.»

Naturalmente, le cause del fenomeno e i tipi di proprietà sono vari. In Italia, per esempio, sappiamo che molte delle case vuote sono quelle nelle aree in via di spopolamento. Ma in molti casi (Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia) l’aumento di case vuote è una conseguenza dello scoppio della bolla immobiliare nel 2008, dell’aumento dell’invenduto e dei pignoramenti delle banche, scrive FEANSA. C’è poi un vuoto occasionale, oltre a quello strutturale, «legato al turismo e al non uso di seconde case».

Il report dunque distingue tra case davvero vuote e seconde case. Per l’Italia, naturalmente, i dati della percentuale di questo tipo di vuoto sul totale non sono disponibili. Sarebbe invece interessante conoscerli, perché secondo FEANSA «in alcuni paesi con elevati flussi turistici, la percentuale di residenze secondarie è molto più alta di quella delle abitazioni vacanti (Grecia, Francia, Cipro, Portogallo)».

Il vuoto è anche possibilità. «Il fatto che un edificio vuoto sia un edificio in transizione lo rende potenzialmente utilizzabile e adattabile a fini sociali, economici o anche ambientali. Gli immobili vuoti, ad esempio, rappresentano una potenziale soluzione per l’alloggio di rifugiati e migranti che arrivano in massa in Europa». Tuttavia, notano gli autori del rapporto, è difficile individuare iniziative simili su larga scala. Intanto un quarto degli abitanti delle aree urbane sul pianeta è senza casa, abita in un’abitazione informale, auto-costruita, inventata.

Secondo Leilani Farha, il cui mandato come relatrice speciale delle Nazioni Unite per il diritto alla casa è da poco terminato, gli insediamenti informali sono spesso creazioni «eccezionali» da parte di individui, famiglie e comunità che rivendicano il proprio posto nel mondo costruendo case, cultura e vita comunitaria nelle circostanze più avverse. «L’atto di rivendicare spazio nelle città e di costruire case si oppone all’esclusione spaziale, all’appropriazione di terre e proprietà da parte dei ricchi senza alcuno scopo se non la speculazione, alla colonizzazione dei territori indigeni e ai tentativi delle autorità di rendere invisibili intere comunità non riconoscendole. Gli insediamenti informali sono una risposta a questo, sono una dichiarazione: siamo qui e non spariremo». Secondo Farha gli insediamenti informali sono una pratica dei diritti umani, guidata dagli esclusi e dagli ultimi: questi non vanno considerati solo come vittime di una violazione dei diritti, ma come attori di una rivendicazione attiva di diritti.

Oggi Farha è impegnata in un nuovo progetto, Make the Shift, che aspira a diventare un movimento globale per il diritto all’abitare. Nel 2018 Make The Shift ha contribuito alla nascita di una rete di città per il diritto all’abitare, Cities for Adequate Hosuing, che ha stilato una dichiarazione e dieci punti programmatici per garantire l’accesso alla casa. Una sfida che si annuncia centrale nel mondo post pandemia. Sono milioni le persone che in tutto il mondo faticano a pagare l’affitto, mentre le moratorie sugli sfratti sono in scadenza.

Molte delle previsioni e delle proposte sulla città post-Covid partono dall’oggetto casa, dalle preferenze e dalle possibili scelte abitative. Ma si tratta troppo spesso di proposte basate su comportamenti individuali. Scenari bucolici di ritiri campestri popolano l’immaginario di architetti e giornalisti, senza considerare lo stato dei servizi necessari e i costi connessi per abitare le campagne e i borghi spopolati.

Di contro, gli incendi negli Stati Uniti spingono gli esperti a chiedersi quanto sia una buona idea andare ad abitare in un bosco in epoca di cambiamenti climatici. Gli ingenti danni economici degli incendi conteggiano infatti i danni alla proprietà proprietà, e i costi per spegnere gli incendi per proteggere la proprietà. Senza considerare i danni ambientali, sono costi stratosferici. Ma a causare gli incendi sono anche le scelte abitative individuali. Sono infatti moltissimi gli americani che si spostano nelle zone cosiddette di wildland-urban interface (WUI), zone di confine con la vegetazione spontanea.

Il WUI è la classificazione di utilizzo del territorio in più rapida crescita negli Stati Uniti. 11,2 milioni di persone abitano in queste zone solo in California, in parte per fenomeni di espulsione dalle città: «mentre i costi elevati delle abitazioni in California continuano ad aumentare, aumenta anche la pressione per lo sviluppo nelle regioni meno popolate dello stato. Gran parte dello sviluppo edilizio nel WUI è semplicemente più conveniente economicamente e attira le persone con la promessa di aria pulita, viste meravigliose e un ambiente naturale» scrive il SFGate. People need housing, conclude l’esperto intervistato. Dove, sarà da vedere.

Mentre il dibattito si concentra sull’oggetto-casa, un’indicazione importante su come potrebbe e dovrebbe essere la città del futuro, le persone “comuni” l’hanno già data. Non con previsioni ma con pratiche: con l’emersione, il manifestarsi e l’affiorare di pratiche di solidarietà, mutualismo e cooperazione nate in tutto il mondo in risposta all’emergenza.

«Covid-19 da un lato ha messo in evidenza l’inefficienza del sistema produttivo globalizzato (…), dall’altro ha mostrato l’insostenibilità sociale e ambientale dell’attuale modello di sviluppo, e soprattutto della crisi del welfare, portando nel contempo alla luce un nuovo tessuto di riproduzione sociale, una sorta di nuova infrastruttura di welfare territoriale, formatosi localmente dal basso anche grazie alle nuove tecnologie digitali» scrive Stefano Simoncini. Spostando il punto di vista, dalla città come oggetto fisico alla città come oggetto sociale, emergono chiarissimi i contorni di una città diversa già presente, che già esiste, che è il luogo delle comunità.