Il futuro è un servizio pubblico europeo

“Un buongiorno a tutta la Grecia in questo giorno molto speciale. Vi promettiamo una radiotelevisione pubblica indipendente dal potere”. Con queste parole, la giornalista Marilena Katsimi ha annunciato, lo scorso 11 giugno, la riapertura della ERT, la tv di Stato greca, a distanza di due anni esatti dalla chiusura imposta dal governo Samaras nell’ambito del piano di riforme concordato con le istituzioni politiche ed economiche europee.

Un passaggio d’indubbia rilevanza storica e simbolica salutato dal primo ministro Alexis Tsipras come “una grande vittoria per la democrazia”. Depurati dalla retorica del momento, certi toni trionfalistici sono indicativi della centralità che la televisione pubblica mantiene nei delicati equilibri tra sistema politico, informazione e cittadinanza dei paesi europei.

Già, perché se c’è un elemento che più di altri ha forgiato l’Europa del Novecento (almeno quella occidentale) nelle sue profonde dinamiche democratiche e culturali, questo è senz’altro il servizio pubblico televisivo. Non è davvero possibile spiegare l’Europa dell’ultimo secolo – le sue epopee, le sue conquiste, persino i suoi drammi – senza ricorrere e soffermarsi sul concetto di servizio pubblico televisivo, quello straordinario impasto di pluralismo, accesso, cultura popolare, delicate e complesse architetture organizzative, che ha contribuito in maniera non secondaria e non banale a delineare le singole identità nazionali, scandendo i momenti più esaltanti o tormentati della vita di una comunità.

Eppure, in un tornante della storia così delicato per il continente, come quello che stiamo vivendo, stretto tra una perdita di potere degli stati nazionali, il vacillare dei pilastri del welfare state, l’offensiva più o meno velata dell’ideologia neoliberale, l’esplosione di tecnologie sempre più avanzate e la conseguente frammentazione dei pubblici e dei consumi, di fronte a tutto questo il servizio pubblico televisivo rischia seriamente di trasformarsi in un pezzo d’antiquariato, buono per essere custodito nelle teche della memoria condivisa, nel migliore dei casi, oppure di essere sacrificato sull’altare delle più spietate logiche di mercato, nel peggiore degli scenari possibili.

Del resto, proprio quello che è stato cuore e polmone del servizio pubblico nei decenni precedenti, e cioè l’intimo legame con la storia e la cultura delle singole nazioni, rischia oggi di esserne il freno, l’ostacolo più difficile da aggirare per fermarne l’avvitamento su sé stesso e ripensarne confini e funzioni. Se è vero, come sembra, che esiste un’Europa a due (o più) velocità in ambito economico, è altrettanto vero che i servizi pubblici televisivi del continente seguono percorsi talmente distanti e differenti da frantumare sul nascere ogni tentativo di unificazione culturale delle sue popolazioni.

 

Perché, ed è questo davvero il nodo più difficile da sciogliere, ciò di cui l’Europa tutta oggi avrebbe bisogno è forse proprio una cultura comune, un idem sentire che unisca non solo le più alte sfere del sapere e delle professioni, ma sappia raccogliere intorno a un progetto di unità anche le fasce di popolazione dotate di minore capitale sociale e minori opportunità di accesso alla conoscenza.

Ne è convinto, tra gli altri, Jérôme Bourdon, professore di media e televisione dell’Università di Tel Aviv, che qualche anno fa ha dato alle stampe una delle prime storie comparative della televisione europea (Du service public à la télé-réalité. Une histoire culturelle des télévisions européennes, 1950-2010 di cui è recentemente uscita la traduzione italiana nell’edizione curata da Massimo Scaglioni per Vita & Pensiero): l’ambizione del servizio pubblico, secondo lo studioso francese, deve essere sostanzialmente culturale e politica: culturale, nel senso di “trasmettere alla popolazione (…) una forma di cultura, un sapere che le consenta di raggiungere una forma di emancipazione e realizzazione” individuale e collettiva, e politica poiché deve assumersi il compito di “fornire conoscenze che permettano di partecipare al dibattito democratico”.

Tuttavia, se è vero, come diceva già Richard Collins, che il servizio pubblico televisivo affonda le radici e trae linfa dall’Illuminismo, è altrettanto innegabile che ciascun paese europeo ha declinato il concetto nelle forme che più gli sono proprie, innervandone i valori sopra le singole architetture della propria tradizione culturale e sociale; il pedagogismo di matrice cristiana della Rai degli esordi, l’apertura al pluralismo di associazioni e corpi intermedi nella tv pubblica dell’Europa centrale e settentrionale, il dirigismo tipico della tradizione francese, il decentramento territoriale nella Spagna fuoriuscita dalla dittatura, e così via. Con la Bbc inglese a svolgere il ruolo di faro esemplare sul terreno dell’autonomia e imparzialità.

 

Come tenere insieme modelli così diversi? I tentativi, nel corso degli anni, sono stati molteplici: direttive europee (la più celebre, Television Without Frontiers del 1989, poi aggiornata nel 1997), risoluzioni (come quella del 2010 sullo sfruttamento delle tecnologie digitali), creazione di canali transnazionali (Euronews, Eurosport), sempre nell’ottica di perseguire quella cosiddetta “unità nella diversità” che accompagna il processo di costruzione europea nei più svariati settori.

In tutta Europa, il servizio pubblico entra in crisi quando, a partire dagli anni ’80, irrompe sulla scena la tv commerciale; è quello il momento in cui il concetto stesso perde l’attimo per ridefinirsi, consolidando funzioni e identità. Travolto dalle logiche commerciali, il servizio pubblico finisce ingabbiato in quella che Alberto Contri qualche anno fa ha efficacemente chiamato “doppia trappola”, e cioè l’equilibrio tra l’assolvimento di una funzione pubblica, per quanto tutta da ricostruire, e le sfide di un mercato sempre più concorrenziale, l’integrazione tra una produzione di qualità (e di successo) e lo sviluppo dei diritti di democrazia, partecipazione e cittadinanza.

Ecco perché, in questo senso, il modello da seguire sta ancora una volta oltremanica; forte della propria tradizione di indipendenza e autonomismo (almeno formalmente e nell’immaginario), la Bbc ha interpretato il proprio status di soggetto di servizio pubblico alla più classica delle maniere anglosassoni, ovvero quale elemento al tempo stesso di stabilità e innovazione dell’intero comparto audiovisivo e culturale. Di questa nuova stagione della Bbc si era accorta nel 2013 Mariana Mazzucato, l’economista italiana celebre oggi soprattutto per il successo del volume Lo Stato innovatore; in un paper intitolato BBC: From Crowding Out to Dynamising In, Mazzucato sottolineava il ruolo dello Stato come mission maker e non solo come market fixer, ma soprattutto riconosceva al servizio pubblico televisivo britannico la capacità di porsi come guida del sistema, di rappresentare quell’elemento di dinamicità essenziale nei complessi ingranaggi dell’industria creativa, capace di stimolare progetti di economia collaborativa tra soggetti privati nel campo della tecnologia, di sostenere giovani artisti e piccole case di produzione (per esempio, la Big Talk Productions, produttrice di serie comedy come Rev. o Ambassadors), di investire ingenti somme di denaro nei progetti di co-produzione europea (667 milioni di sterline investiti nell’industria nazionale dell’intrattenimento nel 2011).

 

Quella delle co-produzioni, in particolare nel campo della fiction, è in effetti una tendenza che ha recentemente (ri)preso piede presso i grandi network (non solo pubblici) europei: si tratta naturalmente di far fronte a necessità economiche e promozionali per competere nell’agguerrito mercato globale delle serie tv, ma allo stesso tempo di farlo tentando di recuperare alcune radici comuni della storia europea. Una strada che, per esempio, proprio la Rai ha intrapreso (per la verità, con alterne fortune) da diverso tempo realizzando in co-produzione adattamenti di romanzi considerati patrimonio della cultura continentale (si pensi al recente La certosa di Parma, in collaborazione con France 3). E gli stessi network commerciali hanno cominciato a lavorare negli ultimi anni a imponenti produzioni trovando una vicinanza nelle grandi saghe ed epopee delle dinastie regnanti nell’Europa tardo-medievale e dell’età moderna (I Borgia, e Versailles, ambizioso progetto in fase di realizzazione sui fasti di Luigi XIV).

Può, tuttavia, l’Europa televisiva concedersi il lusso di attingere unicamente a un passato così lontano per avvicinare e unificare i propri cittadini-spettatori? Il rischio, naturalmente, è quello di perdere di vista le grandi questioni che attanagliano il presente, quel “deficit strutturale” della sfera pubblica europea di cui parla Barbara Thomass, che consiste non solamente nella barriera linguistica, ma anche e soprattutto nella mancanza di interesse da parte dei media nazionali verso tematiche europee; solamente in alcuni casi eclatanti, l’agenda politica continentale riesce a scardinare (peraltro parzialmente) alcune logiche palinsestuali radicate, come lo scorso anno quando l’EBU (European Broadcasting Union, l’ente associativo dei servizi pubblici radiotelevisivi europei) promosse – non senza difficoltà e resistenze nazionali – il dibattito tra i cinque candidati alla presidenza della Commissione Europea.

Eppure, succede persino – è avvenuto in Italia – che di fronte a una vicenda cruciale come il referendum greco delle scorse settimane, il servizio pubblico (generalista) non se ne occupi e un’emittente privata si sostituisca ad esso; perchè, come si dice, “è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare” e, giustamente, il servizio pubblico non può essere solo una medaglia da appuntarsi sul petto, ma lo sforzo costante di saper svolgere una missione. Con buona pace di trionfalismi e slanci retorici.

 

Foto di Joshua Rawson-Harris su Unsplash