Crisi dei media e governance innovative

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Julia Cagé è una giovane economista francese che si occupa di economia politica dei media. E ha scritto un bellissimo saggio pamphlet sul futuro dei media.

Sappiamo tutti che i modelli economici che stanno alla base della sopravvivenza dei media di massa sono in crisi, ma questa crisi non dipende da Internet. O almeno, Internet rappresenta solo l’ultima tappa di questa crisi, se è vero che negli Stati Uniti, in riferimento al Pil, le entrate pubblicitarie dei giornali sono in calo costante dal 1955 e in assoluto sono in diminuzione dal 2005, ben prima della crisi del 2008.

Parte da qui il saggio di Julia Cagé, Salvare i media. Capitalismo, Crowdfunding e Democrazia (Bompiani). Il libro, già sdoganato e promosso da Thomas Piketty alla sua uscita in Francia, esce oggi nella versione italiana e rappresenta un agile e lucido strumento di analisi sulla parabola storica delle forme di finanziamento dei media. Ne esce un’analisi impietosa del futuro, non roseo, dei media. L’età dell’oro non tornerà più, (un po’ come i pomeriggi di maggio morettiani), il digitale da solo non risolleverà le sorti dei giornali e c’è il rischio che aumenti la concentrazione dei media nelle mani di poche grandi ricche famiglie. A questo scenario, vedremo più avanti, la Cagé risponde con una proposta molto innovativa, ma prima di descrivere il suo modello, l’autrice spiega chiaramente cosa non funziona più nell’industria dei media e quali illusioni sono da accantonare.

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La prima è l’illusione della pubblicità, che conterà sempre meno nell’economia di un giornale:
negli Stati Uniti, dall’inizio del XXI secolo, la quota di dipendenza dei giornali dalle entrate pubblicitarie è letteralmente crollata, ed è lecito pensare, sostiene la Cagé, che “la raccolta pubblicitaria corrisponderà ben presto a molto meno della metà delle entrate complessive dei giornali americani. Del resto, è già quanto sta accadendo al New York Times, in cui la pubblicità, dal 2010, rappresenta solo una componente minoritaria nel totale dei guadagni del giornale. La crescita del volume d’affari deriva ormai quasi interamente dall’aumento degli abbonamenti.”
La seconda illusione è quella del “tutto gratis”.

L’autrice sostiene che il “tutto-gratis” continua a rimanere uno specchietto per le allodole: “i giornali non usciranno certo dalla crisi moltiplicando il numero degli utenti online (che non pagano), in quanto non riusciranno mai a monetizzare quei lettori sotto forma di entrate pubblicitarie. L’accento dovrebbe invece essere posto sulla qualità, per stimolare i lettori a pagare per un determinato contenuto (non importa se si abbonano all’edizione cartacea o a quella digitale), in quanto è dagli abbonamenti che scaturirà in futuro la maggior parte delle entrate dei giornali, non dalla lettura fuggevole di milioni di internauti frettolosi.”

I contenuti a pagamento rappresentano il futuro di un’industria i cui ricavi pubblicitari sono ormai in libera uscita, se non in fuga. Del resto, negli Stati Uniti, un paywall è già stato adottato dal 41% dei giornali. E nei prossimi anni dovremmo assistere a un dispiegamento ancor più massiccio dei modelli fondati su contenuti a pagamento.

Cagé elenca anche un’altra serie di illusioni e miti: il mito della concorrenza, secondo cui una maggiore concorrenza fa bene alla qualità dell’informazione, e dimostra invece (portando dati scientifici e affidabili) che troppa concorrenza può addirittura tradursi in un declino della partecipazione dei cittadini alla politica e alle elezioni, nonché in una spinta da parte dei giornali a tagliare i costi del lavoro; il mito dei media sotto tutela dello stato, anch’esso un freno alla qualità dell’informazione, anche se in modi diametralmente opposti all’eccesso di concorrenza; il mito delle forme cooperative dei media, che troppo spesso si sono rivelate fallimentari: l’idea di un giornalismo autogestito, secondo Cagé, “è un’utopia, qualora ci si attenga con rigore al principio “un dipendente = un voto”. E neppure le associazioni dei lettori o le associazioni dei redattori sono risultate una panacea per i giornali che le hanno contemplate.”

Da questo momento in poi inizia la parte più interessante e innovativa del libro, perché fino a questo punto la Cagé aveva solo messo in linea tutta una serie di dati già noti a chi si occupa di economia dei media.

Il motivo per cui ne parliamo qui su cheFare è perché la Cagé fa seguire all’analisi della crisi dei media una sintesi innovativa, proponendo un modello nuovo di governance capace di evitare sia la concentrazione dei media nelle mani del miliardario di turno, sia il fallimento del vecchio modello cooperativo, un modello capace di tenere insieme il capitalismo con la partecipazione democratica alla proprietà dei media, il crowdfuding con la sostenbilità nel lungo periodo.

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New York Times “Moveable Type” lobby installation

Preoccupata per la qualità decrescente dell’informazione e convinta che l’informazione, soprattutto quella politica, fornisca un servizio pubblico, allo stesso titolo dell’università, del cinema o dell’insieme delle industrie che costituiscono e costituiranno nel XXI secolo l’economia della conoscenza, Cagé propone una nuova forma di partecipazione al capitale di un media, con condivisione del potere di controllo e del potere decisionale. Una nuova forma di democrazia azionaria adeguata al mondo dei media, che garantisca il pluralismo della proprietà dei media in maniera diversa dalle forme strettamente cooperative: un azionariato plurimo, diversificato, in cui la maggioranza dei diritti di voto non sia nelle mani di una minoranza di individui.
Cagé propone in particolare uno statuto di “associazione non profit”, a metà strada tra lo statuto delle fondazioni (sul modello di quella che gestisce il Guardian) e quello delle società per azioni. Un modello in grado di conciliare attività commerciale e attività senza fini di lucro.

Il modello associativo previsto dalla Cagé “punta dunque a limitare l’onnipotenza dei grossi azionisti. Ed è anche e soprattutto una leva che pone gli azionisti piccoli e medi nelle condizioni di agire e di raccogliere le sfide del giornale al quale sono legati. Di più, è pure importante sottolineare che il nostro tipo di associazione non coltiva in alcun modo l’illusione cooperativa dell’uguaglianza assoluta e inflessibile tra dipendenti (“un dipendente = un voto”). Non serve, infatti, fingere che il capitale non esista, poiché il capitale è, tutto sommato, necessario al buon funzionamento dei media e ai loro investimenti”

Piketty la spiega così: “i contributi in forma di capitale sarebbero congelati e non produrrebbero dividendi (come nelle fondazioni) però comporterebbero il diritto di voto (come nelle società per azioni). Solo che il diritto di voto crescerebbe proporzionalmente ai contributi di capitale, dai più modesti in su, mentre sarebbe regolato dall’imposizione di un tetto rigoroso per i maggiori azionisti, in modo da evitare che chi mette centinaia di milioni disponga di tutti i poteri. Al tempo stesso i media beneficerebbero della riduzione fiscale riservata alle donazioni, il che consentirebbe di sostituire l’opaco sistema di aiuti alla stampa con un sostegno neutro e trasparente”.

Questo modello prevede che oltre a grandi benefattori, un media possa raccogliere investimenti da parte dai suoi stessi dipendenti riuniti in un’associazione per poter contare di più nel CdA e da parte dei suoi lettori e crowdfunder individuali (sul modello delle piattaforme digitali di crowdfunding). Diversamente dal crowdfunding, dove un lettore contribuisce al finanziamento di un giornale senza avere in cambio alcun beneficio politico, il modello della Cagé attribuisce ad ogni finanziatore un peso politico tradotto in potere di voto proporzionale, fino a una certa misura, al suo contributo economico.

Il modello, solo in apparenza complesso, rappresenta un’innovazione lungimirante e brillante per risolvere se non l’impasse generale dei media, almeno l’impasse di molte esperienze giornalistiche che avrebbero potuto essere salvate se non fossero finite nelle mani sbagliate, perché ancora capaci di attrarre un pubblico e di produrre informazione di qualità.

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New York Times “Moveable Type” lobby installation

Come nota Piketty, su un piano più simbolico, questo modello rappresenta anche un tentativo di superamento democratico del capitalismo e una riflessione sul concetto di proprietà privata, non soltanto dei media.

La Cagé, durante la presentazione del libro in università IULM a Milano ha anche realisticamente affermato che non crede che questo modello possa rappresentare una forma di governance alternativa a quelle che attualmente governano i grandi media, piuttosto crede che il suo modello sia più adatto alle nuove imprese mediali del futuro.

La proposta di Julia Cagé si inserisce inoltre all’interno di un dibattito ormai consolidato, nello studio dei media, sulla partecipazione “dal basso”, democratica, ai media. Lo studioso dei media Nico Carpentier distingue tra due diverse forme di partecipazione dei cittadini ai media: 1) alla produzione di contenuti (contenuti generati dagli utenti – UGC – e usati dai media) 2) partecipazione strutturale alle decisioni economiche ed editoriali.

La proposta della Cagé si posiziona evidentemente tra le forme strutturali di partecipazione, in cui i cittadini/lettori hanno un peso anche politico ed editoriale, una forma di partecipazione che è simile a quella che io e Ivana Pais abbiamo previsto nel nostro modello di riforma del canone Rai secondo logiche di crowdfunding, dove chi investe su un programma particolare ottiene in cambio diverse forme di potere decisionale in proporzione al suo contributo.

Citazione migliore del libro: “non sono i padroni delle diligenze a costruire le ferrovie” (Schumpeter).
Tradotto: le rivoluzioni arrivano sempre da soggetti esterni a un mercato consolidato. In questo caso la rivoluzione sarebbe ripensare il sistema di proprietà dei media, un ripensamento che non verrà mai dai magnati stessi che ne sono i padroni, ma che può venire soltanto dall’esterno, per esempio da una nuova legge che regoli questo nuovo statuto proprietario.