Il crepuscolo degli umani: l’imprenditore come artista e come supereroe

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Seppure evaporato rapidamente tra le polemiche estive e l’irrompere di altre tragedie, il breve ma intenso clamore seguito alla morte di Sergio Marchionne ha lasciato qualche segno che forse vale la pena riprendere e provare a interpretare. Innanzitutto per constatare la spettacolare inadeguatezza delle diverse reazioni politiche, tanto esclamative quanto votate all’incomprensione.

L’establishment uscente, senza distinzione di orientamento politico, beatificava Marchionne confondendo il suo lavoro di manager di un’azienda privata, certo significativo ma quantomeno controverso, con quello di un legislatore e di uno statista, incarnazione della sublimazione della politica nell’economia. L’establishment entrante invece lo criticava e lo difendeva allo stesso tempo, criticava il vivo e difendeva il morto, esercitandosi in uno di quei virtuosismi del bispensiero in cui la nuova classe dirigente (sic) si sta specializzando. Lontano dal via vai del Palazzo, ciò che resta del pensiero radicale e “antagonista” danzava intorno al cadavere come fosse il cadavere stesso del Capitale, mostrando di confondere l’uomo con la funzione e quindi di dimenticare, oltre alla basilare pietas umana, anche i fondamentali del marxismo, degradando la lotta di classe a odio personale e le rivendicazioni di giustizia a un accanimento da jacquerie.

Chi ha provato a denunciare il cinismo capitalistico additando lo scandalo di un uomo “licenziato” mentre è ancora agonizzante, è stato vittima dello stesso fraintendimento, solo rovesciato: pretendeva che si considerasse la “nuda vita” della persona ignorando gli automatismi necessariamente dis-umani della funzione. Se avesse potuto decidere, probabilmente Marchionne si sarebbe riservato lo stesso trattamento che gli ha riservato il consiglio d’amministrazione di FCA. Nella confusione degli opposti malintesi, non un pensiero strutturato sulle trasformazioni del mondo del lavoro, sulle conseguenze dei processi di automazione, sugli squilibri generati dal capitalismo finanziario, e sull’anomalia permanente del capitalismo italiano.

Come a compensare la debolezza dell’interpretazione politica e sociologica della funzione-Marchionne, il discorso pubblico è slittato verso una dimensione narrativa ed emotiva. Nell’insieme dei coccodrilli, dei ritratti e dei ricordi, il racconto della vita e della morte di Marchionne è stato inscritto all’interno di una più vasta narrazione globale, molto diffusa negli anni recenti e rivelatasi di grande potenza mitopoietica, efficace nel costruire un immaginario condiviso: la parabola dell’imprenditore-creatore. Marchionne è stato raccontato attraverso il mito dell’imprenditore come “costruttore di mondi”, individuo extra-ordinario che trascende se stesso per coincidere interamente con la propria vocazione. Lavoratore instancabile, perfezionista, ispirato da una visione superiore, spettacolare performer della mistica del lavoro: privazione del sonno, continuo rilancio sui risultati raggiunti, mobilità esasperata che lo porta a percorrere il pianeta come un individuo normale percorre il proprio quartiere, dominando l’intera estensione delle reti globali. Una capacità sovrumana di controllo e gestione delle materie più complesse, e l’abilità di manipolare la realtà per farla aderire alla propria visione, sovvertendo i rapporti di forza e cambiando integralmente le regole del gioco. Infine, la malattia e la morte rappresentati quasi come un martirio, come l’estremo sacrificio offerto alla propria idea.

Sono pattern narrativi abbastanza riconoscibili, che ricorrono nelle biografie – sorta di agiografie moderne – dei grandi imprenditori-innovatori della nostra epoca. Da Bill Gates a Steve Jobs, da Mark Zuckerberg a Elon Musk, il super-imprenditore del capitalismo post-fordista non è più il solido e ruvido produttore delle origini, tutto pragmatismo e senso della realtà. È al contrario un filosofo e un visionario, un guru e un intellettuale, un agente trasformatore della realtà. La sua funzione non si esaurisce nel produrre e vendere merci, ma consiste nel modellare esperienze, plasmare una nuova percezione delle cose, spalancare lo sguardo su inaudite dimensioni del possibile. Ricreare la realtà, secondo quello che è stato tradizionalmente, almeno nella modernità post-romantica, il compito dell’artista.

È stata la potente retorica del marketing, certo, a inventare questo personaggio, ma all’efficacia di questa narrazione corrisponde forse anche la necessità di spiegare qualcosa che è avvenuto nel mondo e ha avuto un impatto profondo sulle nostre immaginazioni.

All’aumentare della complessità dei meccanismi economici e finanziari, al rarefarsi e allo smaterializzarsi dei processi di creazione del valore economico, sembra corrispondere la mitologizzazione dell’imprenditore, la creazione di un’entità oltre-umana e post-umana in grado di dominare quasi magicamente ciò che la maggior parte di noi riesce a malapena a comprendere. L’immaginario collettivo ha creato una razza di eroi, di nuovi Titani, ai quali ha delegato il compito di gestire la crescente complessità del mondo. L’esistenza del super-capitalista conforta, perché consente di pensare che lassù, nei cieli del capitalismo finanziario, c’è ancora qualcuno in grado di addomesticare il reale. Allo stesso tempo, naturalmente, il racconto agisce contro qualunque possibilità di organizzazione del conflitto, anestetizza il senso di ingiustizia di fronte all’accumulazione di capitali esorbitanti, e in qualche modo giustifica i processi di estrazione della ricchezza collettiva e di trasferimento “verso l’alto” delle risorse.

La mitologia dell’imprenditore titanico denuncia anche il vuoto di immaginazione che si è prodotto sul fronte della creatività tradizionale: la crisi dell’arte e della letteratura, il loro progressivo assorbimento entro le logiche dell’economia e dell’industria dell’intrattenimento, ha indebolito la capacità di comprensione e rivelazione per via immaginativa delle strutture della realtà. A fronte di questo indebolimento l’impresa sembra aver conquistato una vertiginosa capacità poietica, assumendo direttamente il monopolio della creatività, dell’invenzione e dell’immaginazione. L’imprenditore ha trasferito su di sé gli attributi dell’artista, è diventato l’ultimo dei creatori: se Olivetti ingaggiava le menti creative del suo tempo perché modellassero il volto umano del capitalismo, Steve Jobs è l’artefice che con il suo atto creativo trasfigura il prodotto e cancella – illusoriamente, serve dirlo? – la durezza dei processi produttivi.

Come spesso accade, questo slittamento dell’immaginazione sociale lascia le sue tracce anche nei prodotti più sofisticati dell’intrattenimento e della cultura di massa. La galassia epica in espansione dei supereroi Marvel, per fare un esempio eclatante, tra minacce di estinzione della specie, utopie progressive, rigurgiti di forze arcaiche, sistemi di potenziamento delle facoltà umane che diventano strumenti di distruzione, sembra descrivere le tensioni che attraversano il presente molto più efficacemente di tanto presunto cinema “di qualità” – sempre più ombelicale e sbiadito. In questo contesto Tony Stark, il multimilionario creatore di Iron Man, è la rappresentazione perfetta dell’imprenditore titano di cui abbiamo tracciato il profilo.

Allo stesso tempo, è il più plausibile dei supereroi, quasi sempre il più affidabile: anche perché, per un interessante paradosso, pur essendo l’unico senza superpoteri ricevuti – l’unico supereroe che si è fatto da solo, creando i propri superpoteri attraverso un umano e “terrestre” potere economico – sembra essere un eroe quasi del tutto immune alle debolezze umane che invece contagiano i suoi colleghi superumani (fa eccezione il demone dell’alcolismo, che però è lì a confermare la sua umanità di partenza ed è il vizio contro il quale si staglia la sua genialità). Non è afflitto dalle malinconie di Hulk, non dalle ottusità arcaiche di Thor o dalla patetica nostalgia di purezza di Capitan America. Con intelligenza, ironia, cinismo e una sconfinata autostima Stark si dissocia dall’imperfezione umana, e la combatte, proprio come sembrano fare i super-imprenditori in carne e ossa di cui Stark è la summa fantastica.

Nel suo ultimo romanzo Origin, Dan Brown, l’autore di besteller sempre prodigiosamente connessi ai movimenti tellurici del presente, inventa la figura di un imprenditore/scienziato/futurologo, probabilmente ispirato proprio alla figura di Elon Musk, che attraverso le sue illimitate risorse economiche e tecnologiche arriva a svelare, nientemeno, il mistero di come si è originata la vita sulla terra. Significativamente, Edmond Kirsch – il giovane, attraente, dinamico, brillante, geniale, ironico, empatico e altruista milionario dall’infanzia difficile, protagonista del romanzo – trae ispirazione per le sue scoperte dal patrimonio culturale in cui l’umanità ha crittato il proprio sapere sul mondo, dall’arte e dalla letteratura che hanno intuito e rappresentato i segreti essenziali dell’esistenza. Ma il suo utilizzo dei saperi tradizionali mostra la definitiva inversione dei rapporti di forza: sono la scienza e la tecnica a inglobare l’arte nel loro mosaico conoscitivo, ed è la forza economica innescata dall’imprenditore-demiurgo a mettere in moto la macchina della rivelazione.

Non a caso, il romanzo di Dan Brown si affaccia su un futuro dominato dall’intelligenza artificiale delle macchine, anzi da nuove forme di vita simbiotiche in cui l’umano è incorporato nei suoi stessi manufatti tecnologici. La mitologia dell’imprenditore titano del resto non fa che incarnare la percezione di una realtà che si tende in senso post-umano. E tra le sue conseguenze più evidenti contiene anche una diminuzione e relativizzazione dell’ormai davvero antiquato essere umano, che non sembra avere più le capacità intellettive e gli strumenti concettuali per governare e comprendere i processi in atto.

La sofferente impotenza dell’umanità si manifesta proprio nel declino delle capacità di gestione politica delle emergenze attuali, nella disattivazione di quello che per secoli è stato lo strumento troppo umano di orientamento dei processi reali, la politica appunto. E così siamo tornati al punto di partenza, al momento in cui il pensiero politico abdica alla propria volontà di comprendere e si affida alla trasfigurazione mitologica.

La situazione geopolitica del resto, o meglio il modo in cui i media la organizzano in racconto, non fa che confermare questa insufficienza e quasi insoddisfazione per le spiegazioni e le soluzioni “a misura d’uomo”. Le forze e i movimenti politici in campo, anche e forse soprattutto laddove si mostrano più muscolarmente e tradizionalmente in controllo della situazione, si rivelano poi in balia di forze che li sovrastano. E così anche nel dominio del politico nascono racconti mitologici, si intravede la presenza di supereroi, si tende a trasformare il mondo nello scacchiere in cui si gioca lo scontro all’ultimo sangue tra due oscure entità super-politiche: l’esercito di Geroge Soros contro quello di Steve Bannon, ad esempio.

Ancora due imprenditori, che impersonano la lotta tra i bianchi del globalismo e i neri del sovranismo nazionalista: non sorprende che in questo contesto anche l’immaginario di Star Wars sia uscito dallo sgabuzzino del vintage e sia tornato a parlare al presente con un linguaggio plausibile. L’alternativa secca e vagamente dietrologica offerta dalle due “menti” che manovrerebbero la politica mondiale è chiaramente una semplificazione, che cerca di sopperire alle carenze interpretative e di spiegare il deficit di agibilità politica nella situazione attuale.

Come tutte le semplificazioni, è anche una cessione di responsabilità, simile a quella che si produce nella creazione del racconto del super-imprenditore. In entrambi i casi, il vuoto della politica è colmato dal ricorso a entità post- e super-umane. Nel trionfo dell’imprenditore sovrumano che mette insieme i tratti arcaici della divinità e quelli futuristici della post-umanità, si consuma il crepuscolo degli umani. Se qualcuno dell’Alleanza Ribelle è in ascolto, si faccia sentire.


Immagine di copertina: ph. Jean-Philippe Delberghe da Unsplash