Limiti e incertezze della democrazia digitale

Il remix di Tiziano Bonini dell’intervista a Luciano Floridi sulle camere d’eco e sulla democrazia digitale che ho raccolto per cheFare ha fra i molti pregi quello di rendere discutibili (nel senso etimologico del termine) alcune cornici implicite, alcuni pre-giudizi che di necessità (Hans Georg Gadamer insegna) si adottano nel pensare un tema come quello del rapporto fra Internet e democrazia. Si tratta, in ogni caso, di pre-giudizi non banali che ho cercato di affrontare nel mio ultimo libro Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia (Meltemi).

La prima cornice implicita, quando si discute questo tema, riguarda la natura della Rete. La Rete è un mero strumento, un corpo inerte, funzionale ai valori e alle finalità umane, oppure è un ente dotato di una sua essenza, contenente caratteristiche proprie che condizionano i comportamenti individuali e sociali (superando le volontà degli esseri umani)? Detto in altri termini, Internet è neutrale oppure presenta delle affordance (inviti all’uso)?

Si tratta di un tema classico della filosofia sulla tecnica (e, come tutti i temi fondamentali della filosofia, mai superato definitivamente). Da un lato, una posizione si può esemplificare con la metafora del coltello. Il coltello è buono o è cattivo?

Nessuna delle due ipotesi oppure entrambe insieme, si potrebbe rispondere: il coltello può essere utilizzato per nutrirsi (finalità nobile e funzionale alla vita) oppure può essere utilizzato per uccidere (finalità malvagia e funzionale alla morte). Dipende tutto dalle intenzioni dell’utilizzatore, dalle finalità umane sospese fra eros e thanatos. Questo approccio, mutatis mutandis, può essere naturalmente applicato anche agli strumenti digitali, sottolineando l’eterogeneità delle finalità per cui possono essere utilizzati.

Dall’altro lato, l’inventore del concetto di affordance nella scienza moderna, lo psicologo James Gibson, sosteneva addirittura che tutto ciò che ha senso possiede affordance, e che soltanto le affordance presenti nella realtà ci permettono di percepire (e quindi, successivamente, di comunicare). Un mondo privo di inviti all’uso è un ganzfeld, un nulla impraticabile sia individualmente sia socialmente. Secondo questa chiave interpretativa tutto ciò che è percepibile ha, quindi, una determinata affordance, a maggior ragione se stiamo parlando di una certa forma e tipologia di comunicazione. Sposando questa seconda cornice implicita, Giuseppe O. Longo ha annunciato la nascita del simbionte, caratterizzato dalla profonda ibridazione tra l’umano e i dispositivi da lui scaturiti (e che lo plasmano!). La tecnologia e l’informatica, creazioni dell’uomo, non sono né inerti né neutrali, ma retro-agiscono su di lui, modificandolo in maniera non prevedibile o deliberabile: «come l’uomo fa la tecnologia, così la tecnologia fa l’uomo».

L’indecidibile rapporto fra la potenza della tecnica e la volontà dell’essere umano porta inevitabilmente ad interrogarsi sulle conseguenze delle tecnologie digitali sulla più grande delle manifestazioni della volontà collettiva: la democrazia dei moderni.

Ecco che si presentano nuovi pre-giudizi, cornici implicite e ambigue: intendiamo la democrazia diretta come qualcosa che può essere incluso nella democrazia rappresentativa (che in un certo senso la completa e la sostiene) oppure è qualcosa che esclude la democrazia rappresentativa?
Stiamo parlando di piattaforme civiche (promosse ad esempio dalle istituzioni cittadine elette) e di iniziative come Rousseau (rigorosamente nell’ambito di un partito che si presenta alle competizioni elettorali – forma simbolo della democrazia rappresentativa – come il M5S)? Oppure del sogno di Gianroberto Casaleggio, secondo cui «le organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate», «la democrazia rappresentativa, per delega, perderà significato», ovvero di un governo diretto di tutti i cittadini mediante referendum quotidiani che escludono la rappresentanza? Se adottiamo il pre-giudizio dell’inclusività riformista il digitale ha già abilitato alcune (sporadiche) forme di democrazia diretta. Se adottiamo il pre-giudizio dell’esclusività rivoluzionaria il digitale non ha ancora abilitato assolutamente nulla: non si è mai visto qualcosa che assomigli ad una democrazia digitale pienamente diretta.

Di certo la partecipazione politica non può più essere confinata soltanto all’interno dell’iscrizione ad un partito, del partecipare ad una campagna elettorale, dell’essere candidato eccetera, ma deve essere oramai estesa ai movimenti della società civile, a tutta quell’area che va dal movimentismo anti-sistema, anti-establishment, di contro-democrazia fino alle forme di cittadinanza attiva. Tuttavia, come sostiene Gianfranco Pasquino in una delle interviste nell’appendice di Potere digitale (Meltemi), si tratta spesso di forme transeunti. Emblematico ed interessante il caso della “costituzione in crowdsourcing” dell’Islanda nel 2012. In quel caso, l’elezione di un Consiglio costituzionale era stata entusiasticamente preceduta da un ampio lavoro di tipo partecipativo, seguita dall’interlocuzione con la popolazione attraverso i media digitali. Ma anche se la popolazione dell’Islanda conta circa 330.000 abitanti, l’esperimento non ha avuto un esito positivo: la bozza di costituzione elaborata con un processo partecipativo e utilizzando strumenti digitali, infatti, doveva essere approvata dal Parlamento, e i cittadini hanno poi finito per esprimere una maggioranza parlamentare contraria al progetto. L’ironica rivincita della rappresentanza.

Inoltre, come ho sostenuto in Potere digitale, vi sono alcune considerazioni prudenziali di cui tenere conto quando si pensa di applicare il digitale alla democrazia: il primo è l’insicurezza nel voto (le schede non possono essere ricontate potenzialmente da qualsiasi cittadino), il secondo è il digital divide (coloro che sono emarginati digitalmente non soltanto non possono partecipare effettivamente a forme di partecipazione online, ma vedono messi in discussione anche i loro diritti, intesi come possibilità di partecipare), il terzo è il problema della partecipazione totale (a causa della razionalità limitata degli individui e della specializzazione nella società è difficile – se non impossibile – avere comuni cittadini impegnati direttamente e quindi continuamente nella complessa gestione della res publica).
Infine vi sono i rischi connessi al superamento – parziale o totale – dei rappresentanti: secondo alcuni autorevoli teorici politici un passaggio del genere potrebbe portare a minore capacità di mediazione, a maggiore conflittualità, a dinamiche immediatiste, a maggiore conservatorismo, fino – come teme Ralf Dahrendorf – al pericolo di una involuzione autoritaria.

Quella che sembra una realtà indiscussa è, invece, il sistema mediatico ibrido teorizzato da Andrew Chadwick. Un sistema complesso e interconnesso in cui le informazioni che leggiamo in forma digitale (che si trovano sulle piattaforme, sulle app di messaggistica, sui blog eccetera) riprendono e sono riprese da altre informazioni che a loro volta si trovano su media diversi, come i giornali o le televisioni. Tuttavia, tale evidente complessità non può diventare la notte in cui tutte le vacche sono nere di hegeliana memoria. Non possiamo dimenticare che le grandi piattaforme come Facebook, che intermediano quantità molto rilevanti di informazioni su Internet, possiedono rispetto ai vecchi media inedite potenzialità di profilazione dell’utente e di sfruttamento dell’economia dell’attenzione: così vengono fornite all’utente soprattutto le notizie che gli piacciono (senza che se ne accorga), creando le camere dell’eco (Sunstein) o le bolle di filtraggio (Pariser). In questo modo, però, il pericolo è quello di ridurre le possibilità di incontri casuali che, secondo i Voltaire, i John Stuart Mill, i padri della democrazia pluralista, dovrebbero essere il sale della democrazia.

Anche se le echo chambers o le filter bubble dovessero (come si auspica) rivelarsi tutto sommato trascurabili nei loro effetti, parafrasando Norberto Bobbio il compito degli intellettuali dovrebbe pur sempre essere quello di seminare dubbi.


Immagine di copertina: ph. Marc Schäfer da Unsplash