La dipendenza dai turisti di Venezia sta facendo scomparire i Musei Civici

Si dice che Venezia abbia gettato la spugna. Si ripete che si è arresa agli effetti della pandemia, che non vale più la pena tenere aperti nemmeno i suoi musei. Riaprirli per chi? Mostrarli a chi? A chi mostrarsi?

Sappiamo che la Fondazione Musei Civici una risposta ce l’ha: «aspettare i turisti», per dirla con il Sindaco Luigi Brugnaro.

Sappiamo anche che nel frattempo l’idea è di tenere chiuso fino al 1° aprile, data utile per utilizzare al massimo la cassa integrazione per i propri dipendenti. Il Sindaco ha parlato di «senso di responsabilità», della necessità di «non dissanguarci e di salvare l’azienda». La presidente, Mariacristina Gribaudi, lo ha confermato, pur affidandosi a un tweet e dopo ben sette giorni dallo scoppio delle polemiche.

Molti veneziani, invece, si sono sentiti traditi dalla Fondazione che cura il loro patrimonio. E chi lavora dentro (o per) la Fondazione dice di stare in una barca incagliata in una secca. Molti di loro, con cui abbiamo parlato, non capiscono cosa voglia fare e cosa voglia essere questo ente. Nessuno, ai vertici della Fondazione, ha detto pubblicamente qualcosa di rassicurante né ha tentato di prospettare un progetto.

Molti veneziani si sono sentiti traditi dalla Fondazione che cura il loro patrimonio.

«Si potevano trovare soluzioni più flessibili – dice un professionista che accompagna da vicino la Fondazione – Il problema dei costi, c’è. Magari è impensabile aprire tutti i musei, ma si poteva essere più flessibili e agire con tatto verso la città e con chi ci lavora».

D’altra parte, la chiusura un lato positivo ce l’ha, come ha spiegato la direttrice Gabriella Belli nell’audizione in VI Commissione del Consiglio comunale, il 23 dicembre: «Dal punto di vista della conservazione del patrimonio, non c’è situazione migliore di non aver pubblico». Dentro la Fondazione, più di un conservatore ha sgranato gli occhi: «E perché non chiudere per sempre?», si chiede uno di loro.

Qui proviamo a leggere la Fondazione dall’interno, seguendo i protagonisti in pubblico e raccogliendo la voce di chi ci lavora, a più livelli e in ambiti diversi, la gran parte come dipendenti.

L’allarme e le polemiche suscitate dalla decisione sembrano mettere in discussione la Fondazione Musei Civici, come mai era accaduto nei suoi 12 anni di vita, a partire da ciascuna delle parole che ne compongono il nome: cosa sia una fondazione, che cosa un museo e cosa significhi essere civici. È soprattutto quest’ultimo, il senso di quell’aggettivo, quel «civici», l’architrave che regge il resto. Le risposte che potrebbero uscirne, se il dibattito pubblico dovesse continuare, avrebbero il merito di scuotere la Fondazione. E forse è il momento giusto per farlo.

“Dal punto di vista della conservazione del patrimonio, non c’è situazione migliore di non aver pubblico.”

Il primo problema è cosa sia la Fondazione. Luigi Brugnaro, nella sua conferenza stampa del 30 dicembre 2020, dichiara: «Mi assumo la completa responsabilità di indirizzo sulle società partecipate: l’obiettivo è quello di tenerle pronte a essere utilizzabili, come sarà, quando torneranno i turisti in questa città». Ha anche spiegato che verificherà «il budget mese per mese, per aggiornarlo sulla situazione reale».

L’azienda di cui parla è naturalmente la Fondazione Musei Civici, che gestisce 11 strutture museali, alcune vere e proprie icone della città, come Palazzo Ducale. Creata dal Comune di Venezia nel 2008, per avere un’agilità di gestione prima impossibile, come tutte le fondazioni a partecipazione pubblica vive l’ambigua condizione di essere un ente di diritto privato e di stare nei vincoli di un’architettura amministrativa pubblica che la disciplina, la guida e la usa. Tanto più che il Comune è socio unico e fondatore. Definirla «una società partecipata» è una forzatura, che fa comodo al Sindaco ma regge a mala pena in punta di legge.

Niente impedisce comunque al Consiglio di Amministrazione di avere una propria piena autonomia decisionale, anche se per Statuto è nominato interamente dal Sindaco che pure siede come vice-presidente. E così, l’autonomia finisce là dove parla il Sindaco. E quando lo fa, di solito cala l’imbarazzo. Lo stesso che in Fondazione non nascondono ora. Qualcuno precisa che «il CdA non ha mai deciso, in alcun atto, che l’apertura sarà il 1° aprile 2021. Ha invece dato indicazione di aprire le sedi non appena le circostanze e la legge lo ritengano possibile».

La Fondazione, in questo modo, ha la possibilità e il fardello di muoversi a seconda delle circostanze come un ente privato o una partecipata municipale; può sfruttare la cassa integrazione come qualsiasi azienda privata, attingendo alle risorse generose dello Stato, oppure defilarsi di fronte alla voce grossa del Sindaco per il fatto di essere una «partecipata». In questa ambiguità, il sindaco agisce da imprenditore e da primo cittadino, che poi nel suo caso sono la stessa cosa (è il patron di Umana, colosso del lavoro interinale). Può farlo anche contraddicendo la presidente della Fondazione, che solo il 1° dicembre, in audizione alla VI Commissione, dichiarava: «Siamo pronti a ripartire oggi, non domani».

Vale la pena seguire le audizioni della commissione per capire il senso delle istituzioni locali. E così ci si imbatte in lunghi monologhi dei responsabili museali, quasi a riempire il tempo, mentre la presidente della commissione zittisce i consiglieri tra scatti d’ira e grida, intimandoli a non fare troppe domande. Il livello decisionale dentro il Comune di Venezia e tra il Comune e la Fondazione segue un copione in cui il senso delle istituzioni si fa evanescente.

È necessario prima di tutto ripulire il discorso istituzionale.

L’impressione è che sarebbe necessario prima di tutto ripulire il discorso istituzionale, renderlo dignitoso e leggibile, imparare a fare delle audizioni utili e fitte di domande precise, esprimere autorevolezza: già sarebbe un passo in avanti per riscoprire la dimensione civica della Fondazione e del suo socio fondatore.

A far arrabbiare i veneziani, in realtà, è come il Sindaco abbia giustificato la chiusura: «quando torneranno i turisti in questa città». Voleva dire che senza turisti non ha senso tenere aperti i musei? È inutile girarci attorno: la risposta è sì. Luigi Brugnaro si approccia sempre alla città come a un’azienda. Lo rivendica e non lo sfiora il dubbio di quanto possano essere ampie le politiche pubbliche. Resta il fatto che, dal suo punto di vista, Venezia è un’azienda che non ha paragoni. O lo era, perlomeno.

Anche la presidente della Fondazione è un’imprenditrice veneta di successo, capace di fare della Keyline SpA di Conegliano (Tv), produttrice di serrature, un’impresa di nuova generazione proiettata a livello globale. Un’impresa che ha una storia di secoli: era la fornitrice di chiavi della Serenissima. Mariacristina Gribaudi da quando è presidente dei Civici (2015) ha maturato una visione d’impresa larga, sedendo via via in molti board, da Crédit Agricole a H-Farm, Federmeccanica e Università Ca’ Foscari.

Come il Sindaco oggi, anche lei a luglio aspettava i turisti, che pure sono arrivati in quella fine estate. «Ho parlato con gli albergatori, i tour-operator, l’Aeroporto Marco Polo, siamo pronti», prometteva il 9 luglio a Il Fatto Quotidiano. A fatica e solo parzialmente hanno riaperto dal 31 luglio, gli ultimi a farlo tra i musei in città. Poi la seconda serrata. A forza di aspettare i turisti, non ci si è accorti che la comunità locale, uscita sotto choc dopo la prima ondata di epidemia, aveva bisogno di un dialogo nuovo, all’altezza della situazione. L’apertura sarebbe stata prima di tutto un gesto di riconoscimento alla città, così come hanno fatto fin da subito le Galleria dell’Accademia. Così ci si aspetta ora. In entrambi i casi, invano.

Era in contatto con l’Aeroporto, la presidente, anche se non c’erano voli. Con gli albergatori è più semplice: nel CdA basta parlare con Lorenza Lain, general manager del lussuoso Hotel Ca’ Sagredo, figura di spicco dell’Ava, l’associazione albergatori, oltre che ambasciatrice per il turismo d’affari del Principato di Monaco. Con lei siedono anche un docente in pensione di Ca’ Foscari, Bruno Bernardi e Roberto Zuccato, al comando di Ares Line SpA, prestigiosa azienda vicentina ed ex-presidente di Confindustria Veneto.

Colpisce il concentrato di imprenditori alla guida di questi Musei ed è interessante che lo spettro della società civile in una Fondazione come questa sia circoscritto al campo dei locali capitani d’impresa.

Ad ogni modo sono loro a poter vantare una Fondazione considerata un modello di business culturale a livello nazionale, come risulta dall’indagine di Federculture 2018. Capace cioè di sostenersi senza l’aiuto di risorse pubbliche, con una bigliettazione che da sola copre il 96% delle risorse.

Colpisce il concentrato di imprenditori alla guida dei musei veneziani

Il problema è che quel modello è naufragato nella bufera del 2020. Nessuno poteva immaginarlo, naturalmente. Ma il punto-forza, l’affidarsi a una inesauribile riserva turistica, è diventata una voragine. I Musei Civici sono stati protagonisti e vittima del modello insostenibile che reggeva la città.

Una cosa è certa: la salute dell’ente fino a ieri era ottima. Nel bilancio 2019, approvato il 23 giugno 2020, si trovano 31,5 milioni di euro di incassi, 1,5 milioni in più del 2018: erano 17 milioni nel 2008. I soli biglietti valgono 29,7 milioni di euro. Nel 2019 le disponibilità liquide, quindi banca e cassa, erano 8,3 milioni di euro, 2,7 milioni in più dell’anno precedente. Il complessivo patrimonio netto (fondo di rotazione, riserve e utile) pari a 15,3 milioni di euro. Cosa volere di più da un’impresa museale?

Nel 2020, il black-out: i mancati introiti sono stati quasi 8 milioni di euro. Tanti gliene ha versati lo Stato sotto forma di contributi di indennizzo (8,4 milioni per la precisione). In Fondazione calcolano che, a tenere chiuso per i primi tre mesi del nuovo anno e lasciando allo Stato i 77 dipendenti in cassa integrazione, potrebbero non dover sborsare attorno ai 600 mila euro. Peraltro, dalla chiusura o meno, dipendono anche i 320 lavoratori delle cooperative che assicurano guardiania, caffè e biglietteria.

Prima e dopo la pandemia, la questione resta il modello di business. Gabriella Belli, sempre in audizione, ha sottolineato come la Fondazione sia un «best performer» nell’attrarre fondi privati. Eppure, sempre leggendo il bilancio 2019, la voce più grossa di entrate, dopo la biglietteria, sono i canoni concessori di caffè e bookshop: 664 mila euro. Gli sponsor? 262 mila euro. Le donazioni 143 mila, le co-produzioni 246 mila, le attività editoriali 154 mila. In totale fanno 845 mila euro, nel 2018 erano 930 mila. Si può davvero considerare un grande attrattore di risorse? «Nel 2020 siamo riusciti ad arrivare a 1,3 milioni», ci dice Belli. La differenza l’ha fatta l’acqua granda di novembre 2019, che ha scosso alcuni portafogli, a cominciare da due catene di supermercati: la PAM ha sfoderato 500 mila euro per il restauro del piano terra di Palazzo Fortuny, la Coop 450 mila per quello di Ca’ Rezzonico. Il problema è che l’emozione suscitata da un’alluvione non è esattamente una strategia d’impresa.

Se la Fondazione abbia approfittato di questi mesi per disegnare uno scenario nuovo, non è ancora pubblico. Tuttavia, la direttrice ci racconta di aver lavorato su una road-map, «un vademecum per non dipendere interamente dalla monocultura turistica: pur immaginando che la bigliettazione rimarrà centrale, dobbiamo attrezzarci per attirare fondi europei, nuove risorse da privati e nuove aree di business, come le attività di consulenza a musei anche esteri, oltre a una maggiore attività educativa-scientifica». Potrebbe profilarsi anche l’ingresso di nuovi soci, oltre al Comune? «È una decisione politica, naturalmente. Ma potrebbe essere una possibilità». Sarebbe una nuova Fondazione.

Secondo l’Annuario turistico 2019 del Comune, dei quasi 2,2 milioni di visitatori della rete museale civica, ben 1,4 sono entrati a Palazzo Ducale, ben piantato vicino alla Basilica. Nel vicino Museo Correr, invece, che pure abbraccia Piazza San Marco, ci sono entrate 310 mila persone.

Ca’ Pesaro, Galleria d’arte moderna: ha chiuso il 2019 con 67 mila ingressi, ma è anche la struttura che ha subito più danni dalla marea del 12 novembre. Eppure, nel 2018 erano poco meno di 80 mila e l’anno prima 103 mila. Un calo costante: questo è uno di quei musei che dovrebbe vibrare, votato com’è al contemporaneo e col privilegio del Canal Grande d’affaccio, ma l’offerta sembra drammaticamente deludente. Niente di paragonabile al palazzo che svetta a pochi passi, Ca’ Corner della Regina, macchina d’arte della Fondazione Prada. Ca’ Pesaro era nato nel 1902 come «sede provvisoria» e ora, come dice uno specialista, «ha così tanti problemi logistici, strutturali e di identità che bisognerebbe chiedersi se davvero abbia senso usarlo come un tradizionale museo».

Parliamo anche delle mostre. Sempre secondo l’Annuario, 141 mila sono le persone che nel 2019 hanno preso un biglietto solo per vedere una mostra temporanea. Certo, magari la maggior parte preferisce visitare il palazzo e pure la mostra. O magari è così: «Abbiamo sempre l’impressione che le mostre siano improvvisate, che ti chiedi quando mai abbiano fatto il progetto scientifico – dice un’altra voce interna – Alla fine sfornano una raffica di titoli che poi bisogna riempire». «Parliamoci chiaro – dice un altro interlocutore – le mostre che funzionano sono a Palazzo Ducale: il che significa perpetuare l’effetto di concentrazione nell’area marciana. E comunque non tutte vanno al meglio, neanche là. Forse quelle blockbuster, comprate e riproposte. Ma costano». Un esempio? «Quella su Manet». Era il 2013.

La vicenda più eclatante è in terraferma, dove la Fondazione ha raccolto molte delusioni. Senza la certezza di turisti del centro storico, qui la sfida è più ardua. Ed è andata persa. La sensazione è la totale mancanza di relazioni con il territorio, l’incapacità di leggere il contesto, di avere un progetto reale.

La sensazione è la totale mancanza di relazioni con il territorio e di un progetto reale

Tra le strutture che invece sono state considerate un gioiello vi è Palazzo Fortuny. Ma qui la vicenda si ingarbuglia e finisce in tribunale. Nel novembre 2019 viene d’improvviso licenziata la direttrice, Daniela Ferretti. Nessuno ne vuole parlare, ma come in un romanzo ci si imbatte in un testamento, un’eredità, un lascito che la Fondazione rifiuta e vari colpi di scena. Sono frammenti raccolti nel più assoluto riserbo. Fatto sta che il Fortuny, ammirato in questi anni per la sofisticata qualità dei suoi progetti espositivi, verrà trasformato in una casa-museo. L’attesa è per il restyling firmato da Pier Luigi Pizzi, il famoso scenografo. Cosa prevede il progetto? «Non c’è alcun progetto Pizzi, lui aiuterà solo nell’allestimento», dice un altro interlocutore. Palazzo Fortuny è diventato una casa di segreti e bugie?

Infine, sembra fervere l’attività scientifica. La direttrice sempre in audizione: «Nel 2020 abbiamo proceduto al catalogo generale delle opere, un’operazione fondamentale». «Ma come è possibile se eravamo in cassa integrazione?», si chiede uno specialista interno. Dei 77 dipendenti, metà circa fanno parte del cosiddetto “comparto scientifico”. Certo, ha aggiunto Belli, «è un’opera imponente: ci vorranno 10 anni per terminare».

Cosa succederà a questo punto? «Per il 2021 ho presentato al Cda un bilancio da 16 milioni di euro – ha dichiarato il 23 dicembre a Il Sole 24 Ore, il manager della Fondazione, Mattia Agnetti – e un programma che prevede di limitare l’attività scientifica, concentrando tutte le risorse per la manutenzione e per garantire le aperture al pubblico, traghettandoci in sicurezza al 2022». Tra i professionisti con cui abbiamo parlato, ha suscitato molto sconcerto quel «limitare l’attività scientifica», ma lui precisa che «è tutto parametrato ai fondi». Ha anche aggiunto che i prossimi giorni sono pronti a lanciare alcuni prodotti multimediali commissionati a due società inglesi, sul modello del Metropolitan di New York. Un filone, questo, su cui la Fondazione sconta un grande ritardo. «Bisognerebbe magari avere un progetto di comunicazione e un uso non improvvisato dei social», riflette un dipendente. Ad ascoltare il «piano editoriale» elaborato solo a novembre scorso, l’impressione è di brancolare nel buio.

E ancora. La grande mostra sul Carpaccio slitterà al 2023, il debutto ormai sarà a Washington. Quella sulle origini dell’Opera, con il Victoria and Albert Museum, cancellata. In ballo c’è una serie di mostre all’estero, ha confermato la direttrice: a Mosca su Casanova, due negli Emirati Arabi, “Venezia e il mare” a Helsinki e Sidney, una tutta digitale sulla città lagunare con il Grand Palais.

Il Comitato Scientifico è scaduto e raramente è stato convocato nel passato. Eppure mai come ora ci sarebbe bisogno di visioni nuove e di voci esterne e inattese: il rinnovo del Comitato potrebbe essere l’occasione per reinventarne la funzione? Se la Fondazione non riesce a fare il salto ora, nella governance e nei contenuti, nel rapporto con la città e nel mondo digitale, rischia di depistarsi in un mondo stravolto.

Ma è soprattutto la città che deve interrogarsi. Chiedersi se davvero un eco-sistema culturale come questo possa sentirsi autosufficiente; se sia il caso di lasciare le decisioni solo in mano a un gruppo composto da un direttore, due dirigenti e quattro imprenditori, di cui uno imprevedibile, che pure è il sindaco della città e che fa la voce grossa su tutti. E’ sul protagonismo di un soggetto civico, che possa giocare anche un ruolo attivo dentro la Fondazione, che potrà avere un senso definire civici i musei della città.