Un’editoria di ricerca è possibile?

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Quando, dodici o tredici anni fa, ho iniziato a lavorare nel cosiddetto mondo dei libri, prima come consulente di una casa editrice francese e poi come editore, il mercato editoriale italiano era investito dal fenomeno degli allegati ai quotidiani. Oggi non se ne parla più, ma allora era il tormentone della pubblicistica di settore, e in quegli anni non c’era rapporto dell’Associazione Italiana Editori che non ne registrasse il dilagare.

Dai tascabili appena tenuti insieme dall’involucro di cellophane alle produzioni più patinate o culturalmente ambiziose, tutto sommato non così rare tra i bonus dei maggiori quotidiani nazionali, si faceva leva su uno stesso modello di business, inducendo padri di famiglia a comportamenti compulsivi di caccia e raccolta che li portavano a fare incetta di enciclopedie tematiche, intere collane di guide turistiche storico-monumentali, classici di tutte le letterature mai andati fuori catalogo eppure mai prima d’ora tanto appetibili, esposizioni divulgative in ventidue volumi dei penultimi ritrovati della scienza e della tecnica, atlanti storici in quadricromia compilati da accademici in pensione e giornalisti con l’hobby delle grandi gesta dell’umanità, nonché manuali illustrati d’autore televisivo di cucina o giardinaggio o fai da te; il tutto con la vaga ma tenace convinzione di mettersi in casa, con poca spesa, e pure dilazionata, un patrimonio culturale di grande futuro beneficio per i figli, chissà, per i nipoti. Decine di milioni di copie che, iniettate nel mercato sotto la pressione di un marketing aggressivo, avrebbero creato squilibri di lunga durata.

Per la prima volta, il modello del lavoro interinale – esternalizzato e precario – aveva fatto il suo ingresso nell’Italia del libro. La penombra delle redazioni tradizionali non era adeguata a reggere quei quantitativi e quei ritmi di produzione. Ai redattori editoriali che da sempre avevano fatto apprendistato a bottega si andarono sostituendo le nuove figure di editor alacremente abilitati da corsi di editoria di nuova concezione: pragmatici, professionalizzanti, tecnici, letterariamente neutri, narrativamente assertivi. Una bolla formativa esplosa solo di recente.

Rimpiazzare le redazioni interne con agenzie editoriali a cottimo, all’altezza della produzione di massa e di cassetta, era solo una delle mosse attraverso cui si era fatto di tutto per strappare di mano il libro ai soggetti che fino a quel momento se ne erano presi cura. Portando a compimento il disegno che aveva trasformato le maggiori librerie in supermercati dove il sistema informativo aziendale misura l’indice di rotazione dei titoli, incrociando il ritmo di vendita con i centimetri lineari di scaffale, come si fa coi surgelati, si dirottavano ora i lettori, senz’altro, via dalle librerie, verso le edicole e poi le grandi superfici di distribuzione, smarrendoli.

Vista da qui, quell’opulenza assume i tratti del grottesco e può sembrare cosa d’altri tempi. Ma lo spaesamento dei lettori, la destituzione delle agenzie critiche, la mercificazone di massa del libro, la mortificazione del lavoro editoriale, il proliferare dei corsi accelerati di redazione, andavano di pari passo con la normalizzazione dello star system dei best seller, che avrebbe preparato il terreno ai fasti a venire della vanity press e alla penuria che ben conosciamo. Erano tutte manovre accomunate da una stessa idea del mercato, ispirate da una strategia complessiva: in un paese di non lettori, si trattava di realizzare una sorta di brand extension del prodotto-libro, cioè vendere qualcosa che avesse idealmente a che fare con il libro, ma non con la lettura. Perché, infatti, investire in un’intrapresa onerosa, complessa e in fin dei conti poco redditizia come la costruzione di cataloghi editoriali destinati all’affezione di lettori interessati e critici, quando invece il valore simbolico del libro, in sé potente, poteva essere sfruttato su piani ben più golosi? Non che ci fosse in alcun modo da sorprendersi: già da tempo in altri settori le strategie di product-oriented marketing avevano lasciato il campo alla commercializzazione di modelli di vita idealizzati di cui il prodotto è la parte meramente tangibile, accessoria. Semmai, è stata proprio la peculiare preponderanza della dimensione intangibile del libro ad amplificare straordinariamente questo fenomeno, altrimenti maggioritario, con esiti peculiari.

La produzione ipertrofica, unita al sabotaggio dei canali tradizionali, infatti, fu soltanto la premessa di una metamorfosi ben più decisiva: trasformare l’eccesso di offerta in una domanda capace di soddisfarsi da sé. Mutare i non lettori in editor, scrittori, commentatori di volumi che richiedono attrezzi interpretativi adeguati alla decifrazione di un rotocalco, e soprattutto acquirenti di servizi per l’autopubblicazione come espressione del sé narcisistico. A quel punto dei libri si poteva anche fare a meno.

Ma degli allegati ai quotidiani, dicevo, ormai non parla più nessuno. Di che si discute, allora? Oggi le concentrazioni che viziano il mercato italiano del libro non dovrebbero più essere un elefante nella stanza, visto che si legge in prima pagina di operazioni come l’offerta di acquisizione presentata da Mondadori a RCS Libri, da poco accolta. Eppure scrittori ed editorialisti si appassionano sfornando corsivi accorati o sottoscrivendo appelli come se queste variazioni sul tema rischiassero davvero di cambiare qualcosa in un panorama che già ora, e da tempo, ha i tratti dell’oligopolio. Lo stesso si può dire della fusione tra due dei maggiori operatori della distribuzione editoriale, Messaggerie Libri e PDE-Feltrinelli. Già prima di questa operazione, un piccolo editore indipendente che si fosse rivolto all’uno o all’altro dei due distributori, si sarebbe visto radiografare i conti al fine di stabilire la potenziale redditività del rapporto di distribuzione: una valutazione che nella maggior parte dei casi in effetti si concludeva con il diniego di erogare i servizi suddetti. Un po’ come se il tassista non ti facesse salire perché gli hai chiesto di portarti a un indirizzo troppo vicino. Il che, come può capire limpidamente anche chi commercia in profilati di alluminio, equivaleva già di fatto per la maggior parte degli editori indipendenti a una gravissima limitazione, se non all’impossibilità di accedere al mercato. Da questo punto di vista, anzi, l’obbligo di erogare i servizi di distribuzione a chi ne faccia richiesta, introdotto dalla delibera dell’Antitrust che ha dato l’accordo all’operazione Messaggerie-PDE, è un precedente di rilievo, almeno sul piano teorico.

L’epic win della riduzione dell’IVA sull’eBook, un altro tema che com’è noto ha scaldato di recente la passione triste di molti operatori del settore, si avvia prematuramente a trasformarsi in un ennesimo epic fail, dato che con sentenza del 5 marzo 2015 la Corte di Giustizia europea ha giudicato illegittime le agevolazioni analoghe introdotte da Francia e Lussemburgo, obiettando che in quanto immateriali gli eBook sono servizi elettronici e non beni. In effetti l’IVA agevolata al 4%, gli editori la versano in anticipo, e per di più ulteriormente ridotta della metà. Un tempo lo si scriveva accanto al prezzo di copertina, quando era in lire: «IVA assolta dall’editore». Si tratta infatti di un regime “monofase”: al contrario, cioè, di quanto hanno voluto dare a intendere molti commentatori, anche istituzionali, non ricade sull’acquirente. Ora, il motivo per cui è stata introdotta, era compensare il mancato guadagno derivante dagli invenduti, a fronte dell’investimento necessario per le tirature, specie nell’editoria di periodici. In altri termini, è una misura funzionale al meccanismo finanziario che consiste nello stampare e distribuire molte copie, incassare i proventi dei conti deposito, poi ricevere le note di debito degli invenduti (“fisiologicamente” almeno un terzo della produzione), e compensare quei segni meno nei rendiconti con l’uscita successiva, sempre in molte copie, altrimenti il conto diventa negativo. Un sistema perverso come una catena di Sant’Antonio, che chiarisce le ragioni strutturali della superfetazione di titoli e di copie che chiunque può constatare facendosi un giro in una libreria di catena a caso. L’eBook sarà anche un libro a tutti gli effetti, ma non produce l’effetto un libro è un libro è un libro suggerito dall’hashtag lanciato per l’occasione #unlibroèunlibro. Quindi l’IVA agevolata non si giustifica.

E domani? Sarà ancora possibile un’editoria di ricerca sostenibile, capace cioè di non soccombere all’appiattimento neoliberista e al suo corredo ideologico, al quale sono perfettamente funzionali le querelle insulse e fuorvianti come sull’IVA, o quelle mal poste come sugli sconti o sulle joint venture più macroscopiche? Ci sarà ancora spazio per modelli nuovi? Contribuisco al dibattito proponendo due mosse possibili.

Uno: ripensare su basi del tutto nuove la questione del prezzo del libro, che la legge Levi inquadra in maniera inadeguata e conservatrice degli equilibri vigenti (l’insensatezza delle alternative proposte e fortunatamente sventate non la rende una legge migliore). Lo strumento principale sarebbe l’introduzione di un bilancio sociale trasparente del libro. Grazie a questo bilancio pubblico, il lettore verrebbe a conoscenza di dati come chi ha lavorato alla creazione di quel tale titolo, come e quanto è stato pagato, quali reti sono state coinvolte, chi ha contribuito all’ideazione e alla concreta realizzazione, quali materiali e processi sono stati utilizzati (carte e inchiostri ecologici ecc.), e qual è l’impatto ambientale di stampa, confezione e distribuzione. Ma si tratterebbe anche di chiarire come tutti questi elementi intervengono nella composizione del prezzo, anch’esso trasparente, e quanta parte invece va ascritta a costi di intermediazione, e perché: un po’ come nella bolletta della luce. Il lettore sarebbe così pienamente coinvolto nell’ecosistema editoriale, che allora potrebbe davvero funzionare in base alla fiducia e alla reciproca garanzia, assicurando ai lavoratori dell’editoria condizioni dignitose e rispettose dei diritti. Comprare un libro di un certo editore, e in una libreria piuttosto che in un’altra, sarebbero atti di politica culturale, al contempo semplici e carichi di responsabilità informata e documentata. Sarebbe cioè una base concreta per la costruzione di una comunità di lettori consapevoli delle condizioni di produzione e distribuzione di ciò che acquistano, e dunque solidali nei confronti dei circuiti virtuosi.

Due: ripensare su basi del tutto nuove la fiscalità del libro, sostituendo all’IVA agevolata la detraibilità delle spese in libri (ma il provvedimento andrebbe esteso a tutti i prodotti/servizi culturali). Si potrebbero privilegiare i libri di editori che pubblicano il bilancio trasparente, e la quota detraibile potrebbe anche variare in misura inversamente proporzionale al periodo trascorso il quale autore ed editore accettano di rilasciare l’opera in accesso aperto con licenze libere, alternative al copyright (fuori da ogni ipocrita retorica securitaria sulla pirateria). Sarebbe un modo indiretto per attingere alla fiscalità generale i fondi per sostenere e sviluppare forme di “pollinizzazione” delle dinamiche culturali. Il sistema avrebbe però la possibilità di configurarsi liberamente, senza pianificazione dall’alto, offrendo ai fruitori la possibilità di orientare democraticamente e criticamente gli equilibri (nello spirito della proposta di Tiziano Bonini sul servizio pubblico televisivo) ; senza peraltro richiedere l’imposizione di nuovi tributi.

Sono due ipotesi di lavoro (che andrebbero naturalmente sviluppate e corrette nell’ambito di una discussione pubblica, insieme a molte altre) basate su un assunto prioritario: se un’editoria di ricerca sostenibile si potrà ancora praticare, sarà con modelli strutturalmente diversi da quelli dell’editoria mainstream.

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Sabato 28 marzo dalle 17.15  a BookPride (sala Otarda) a cura di Roberto Ciccarelli. Con Tiziano Bonini (cheFare), Bertram Niessen (cheFare), Macao, Barbara Imbergamo (Acta-sociolab), Simonetta Pozzi (cowork lab121), Andrea Libero Carbone (Re Federico coworking)

La cosiddetta Sharing Economy (economia della condivisione) si è inserita come un software auto-installante su di un sistema operativo sociale dove la precarietà è ormai la condizione comune delle nuove generazioni. I free lance e i precari di tutto il mondo hanno visto negli strumenti della Sharing Economy il miraggio di un ammortizzatore sociale che gli stati nazionali liberali occidentali non vogliono più garantire. Dove il welfare state è solo per i lavoratori garantiti e a posto fisso entrati nel mercato del lavoro nel XX secolo, gli esclusi dalle forme di sicurezza sociale hanno iniziato ad arrangiarsi sfruttando economicamente gli appigli offerti dalla Sharing Economy. Come la nascente classe operaia del mondo industriale ottocentesco ha creato le sue forme di mutuo soccorso (poi incorporate dallo stato sotto forma di welfare state), oggi i freelance e i precari della nuova economia digitale si auto organizzano in nuove forme di cooperazione e di mutualismo per affrontare la durezza della vita da imprenditore di se stesso. In questo contesto, anche in Italia emergono e si strutturano esperienze di lavoro condiviso e co-progettazione in spazi comuni (coworking), mentre il lavoro digitale e l’innovazione tecnologica si confrontano con le problematiche dell’impresa sociale e della cooperazione. Un incontro sulle nuove forme di auto-organizzazione sociale e produttiva nel quinto stato per discutere sulla sostenibilità delle nuove economie basate sulle reti digitali. Un’occasione per passare dalla politica degli ottanta euro alla classe media al reddito di base o a un sostegno diretto alla creazione di imprese digitali no-profit efficienti e sostenibili.


Immagine di copertina: ph. Kimberly Farmer di da Unsplash