Formicolii / La competizione come fine della competenza

Pubblichiamo la seconda parte di due di un testo inedito di Alberto Abruzzese, Formicolii su scrittura, linguaggi digitali e nuove forme mediali della lettura.


Siamo dunque al centro del problema in testa ad ogni piattaforma editoriale che voglia indicare come proprio orizzonte di riferimento ciò che lega alla scrittura diverse forme espressive quali il teatro e le arti figurative, la voce recitata e l’immagine parlata, parlante. Letterature, immagini e voci ricalcate, incise. Che altro se non la parola – ancora la parola – le attraversa tutte?

Quindi anche il libro: non il libro come istituzione ma il libro nella sua sparizione, come lettera che muore (un paradosso che ha per maestro un grande e “spropositato” saggista come Gabriele Frasca). L’attualità paradossale del dispositivo cartaceo in cui per secoli la parola è stata custodita, sigillata, e che ora s’è fatto problema. Problema affascinante. Stregato.

Chi oggi s’avventura a fare l’editore è vittima di un pericoloso re-incantamento

E infatti chi oggi s’avventura a fare l’editore è vittima di un pericoloso re-incantamento. C’è della follia in lui. E a lui si adatta lo scopo professionale di cui ho detto: mettere se stesso a rischio per fare circolare fogli di carta in cui le parole che vengono da fuori e da dentro possano vivere ancora seppure alla giornata (un modo di dire che fu esecrabile ed oggi s’è fatto condizione necessaria).

Stato d’allerta, ho detto. Per questo m’è venuta in mente (da dentro) la sensazione del formicolio. La gamba affetta da un difetto di circolazione che si rivela nel dare spessore, consistenza, alla pelle e così la fa dolere e, facendola dolere, la fa presente: è la pelle infinita, nel suo dritto e nel suo rovescio, di cui ci parla in modo genialmente delirante – ostinatamente liminare, stimolante, libidinale – Jean-François Lyotard (un autore tra quelli che non si può evitare di citare anche volendo ripudiare il metodo della citazione).

Il formicolio fa sentire la pelle come un ostacolo – e insieme come apprensione – tra il dentro della carne umana e l’esterno mondo in cui essa abita: si dipana, si corrompe ed è corrotta d’altro da sé. Lo si deve, questo formicolare, ad un alterarsi della trasmissione dei segnali nervosi (quindi alla capacità che i nervi hanno d’eccitare e connettere).

Lo si deve a un difetto di comunicazione, di trasmissione, che fa venire in superficie la vita remota del corpo, appunto la carne, quella che funziona nel modo né volontario né involontario dei desideri. Questa pressione sui nervi può essere causata da una frattura (eccesso o errore di movimento) o da una lussazione (eccesso di lusso) o da lussuria (eccesso di piacere). Ed anche dal restare fermi per troppo tempo. O fare qualche abuso di droghe (lo sono anche le serie televisive di ultima generazione: prove estreme di sopravvivenza).

Che le neuroscienze stiano oggi penetrando in ogni disciplina potrebbe essere una buona novella, un buon antidoto per i mali dell’ideologia

Sino a provocare perdita di sensi e di coscienza. Sino a bloccare, paralizzare l’intero corpo. Da venticello a tempesta. Ma ad essere esemplare è proprio quel brulichio – guarda caso lo stesso termine d’uso per la folla così come per l’agitarsi nella mente di troppi pensieri – che per varie ragioni psicofisiche turba la cute di un dolore insistente ma lieve, sospeso tra fastidio e quasi piacere. Un formicolio che s’annuncia senza scopo, innocente. Un bollire sottile. Eppure può essere persino il primo segnale di un cancro, il primo riverbero della sua invadenza mortale … o almeno così si può credere, data la stretta affinità tra brividi di piacere e brividi di paura.

Che le neuroscienze stiano oggi penetrando in ogni disciplina potrebbe essere una buona novella, un buon antidoto per i mali dell’ideologia. Oppure potrebbe significare soltanto una nuova chiave di sicurezza. Un nuovo settimo sigillo. L’imposizione di un nuovo varco da aprire chissà dove e quando. Un espediente per ricominciare, invece che per finire. Una nuova disciplina, insomma (forse ne sono la premonizione le retoriche dell’eccellenza e della valutazione di cui s’ammantano le regole delle attuali istituzioni della scuola e dell’istruzione). Potrebbe significare una nuova canonizzazione dell’essere umano sempre in guerra con se stesso per mezzo di sé.

L’editore di carte ipersensibili – la soggettività e oggettività brulicante che potrebbe interpretare – è per me una persona chiamata ad orientarsi su questo bivio e tagliare la propria strada per il verso più opportuno. Scelta ultimativa, a patto di non volere deciderla come ultima in quanto unica possibile. Immersi nella crisi del capitalismo, ne abitiamo le sue rovine e insieme frequentiamo la cieca volontà di potenza instaurata dalle economie politiche che sovrastano tali macerie, tali rovinosi territori, senza incontrare più alcun freno alle proprie esclusive necessità e alla sofferenza che esse producono nella nostra carne. È allora proprio questo paesaggio a suggerire a molti il desiderio – dall’alto e dal basso delle società – di restaurare le capacità “frenanti” dei vecchi regimi politici? E’ una scelta giusta o ingiusta? Rispetto a cosa e a chi?

La competenza, invece di convergere in sinonimo di competizione, dovrebbe piuttosto competere con se stessa

Il principio bellico della competizione, fondato sugli arsenali della civilizzazione moderna, della sua paradossale storia di morte per la salvezza e salvezza per la morte, sta schiacciando ogni passata competenza riguardo a come fare mondo. E questo avviene, si fa avvenire, si fa futuro, perché il mondo su cui agisce la competenza umana continua ad essere lo stesso mondo che fu alla base della progressiva occidentalizzazione del pianeta terra.

L’attualità della parabola europea questo ci insegna: non soltanto il fallimento delle nazioni d’Europa ma dell’intero sistema mondiale delle nazioni. E allora vuol dire che la competenza, invece di convergere in sinonimo di competizione, dovrebbe piuttosto competere con se stessa. Arrivare a immaginarsi, almeno immaginarsi, di potere porre un qualche freno – niente più che un freno, altrimenti sarebbe ideologia e delirio di potenza – alla catastrofe della globalizzazione, e a quanto ne verrà, solo mutando radicalmente il proprio orizzonte sul mondo.

Esercitando i sensi della propria persona così che essa contravvenga a tutto ciò che la obbliga socialmente. Tenendo uno sguardo strabico su ogni attuale riproposizione del nesso progressista e quindi umanista secolarmente instaurato dall’idea che la competenza debba riguardare la competizione, la debba produrre o ne debba essere il prodotto senza alcun scarto. E dunque che non vi possa essere un “distacco” – un vuoto – tra competenza e competizione. Sta qui per me il formicolio di sensi in grado di stregare una attività editoriale finalmente competente della incompetenza della società in quanto tale. Non ho esperienza di cosa provi un corpo morso dal vampiro (un etimo dell’aggettivo “stregato” lo richiama), ma forse si tratta appunto di qualcosa di assai simile a un formicolare di dentro e di fuori della pelle.

Per vivere oltre la propria vita naturale, l’imbecille – facendo virtù del proprio difetto – si fa allora tecnica

C’è infine di mezzo – a volere concludere sul formicolare dentro e fuori della pelle – anche la questione sollevata intorno agli “imbecilli” di Umberto Eco. Questione che continua a porre una distinzione sapienziale tra chi è in grado di governare il proprio ambiente e chi appartiene alla sua incosciente, passiva deriva.

Questo genere di punto di vista assegna un ruolo critico – comunque critico, distintivo, sia esso nel giusto o meno, quindi ordinariamente critico, critico per statuto – soltanto ai dispositivi di potere che dominano il mondo pretendendo di interpretarlo esclusivamente attraverso i propri stessi canoni. Quasi che la formula secondo la quale il problema della società civile nascerebbe quando gli strumenti – la tecnica – si sostituiscono ai fini della natura umana, escluda di fatto dal suo quadro di valori la promiscuità della vita quotidiana, e cioè la costante, seriale, sovrapposizione tra mezzi e fini in una sola necessità di sopravvivenza.

Imbecille viene da baculum. Anche “bacillo” ha la stessa provenienza. Bacillo si dice un microorganismo a forma di bastoncino diritto o curvo, patogeno per l’uomo in quanto, alimentato in ambienti ostili alla carne umana, aggredisce la sua cute, producendovi, tra varie muffe, il “carbonchio cutaneo” (il carbonchio, pensate! C’è una letteratura che ne ha parlato come pietra preziosa e lucente, diamante). Quindi esiste una relazione intima tra imbecille e bacillo: il primo, l’imbecille, è un corpo dal linguaggio imperfetto, carente: natura nata bisognosa e, per questo motivo, vita costretta a ricorrere ad un bastone per sopravvivere.

Per vivere oltre la propria vita naturale, l’imbecille – facendo virtù del proprio difetto – si fa allora tecnica. Dunque siamo tutti imbecilli. Il secondo, il bacillo, diminutivo di bastone, è protesi ben più subdola e ambigua: viene dall’ambiente che ospita l’umano. Il bacillo è a sua modo una protesi dell’ambiente e, nel suo attaccarsi al corpo umano, non lo sostiene ma lo corrompe, lo può persino annientare proprio a ragione delle leggi di sopravvivenza dell’ambiente. C’è una tecnica del mondo estranea all’umano e poco incline ad esserne assoggettata e cioè a diventarne l’oggetto inerme e passivo (se mai lo è stata veramente e non solo nell’immaginazione umana).

Così come, all’inverso, questo stesso pustoloso formicolio, debitamente trattato dalle scienze umane, si trasforma in cura (antibiotici: morte in cambio di vita, tecnica contro tecnica). Insomma, sempre di formicolii dei sensi si tratta: in una serie di metamorfosi che dalle piccole imperfezioni quotidiane arrivano alla oscurità e insieme lucentezza della morte. Questo è la tecnica che ci si ostina a volere ritenere come qualcosa di estraneo all’essere umano e al mondo vivente.