L’Audience Engagement rischia di trasformarsi nella militarizzazione della nostra quotidianità

Con questo articolo di Flavio Pintarelli ci avviciniamo al 4° processo di scrittura collettiva del progetto Nube di parole.

Vogliamo riflettere insieme a voi sul significato del termine ‘audience engagement’, specialmente per quanto riguarda la produzione culturale.

La prima cosa che ho fatto quando mi hanno chiesto di scrivere quest’introduzione al concetto di audience engagement è stata aprire Google. Quale posto migliore per iniziare a farsi un’idea dell’argomento, di qualsiasi argomento, se non il motore di ricerca più usato al mondo?

Dopo una breve ricerca svolta usando alcune parole chiave e correlazioni di parole chiave a tema, la prima impressione che ho ricavato è che il concetto di audience engagement abbia a che fare con il mondo del marketing digitale e social in particolare.

In questo specifico cluster, con il termine engagement si indica la misura di quanto le persone siano coinvolte da un qualsiasi contenuto pubblicato su una piattaforma di social networking. Ma come si misura il coinvolgimento di una persona in relazione a un contenuto? Sulla base di cosa si esegue il calcolo?

È presto detto, l’engagement viene misurato in base a un set di azioni compiute dall’utente. Prendiamo Facebook come esempio. Per ogni contenuto pubblicato sulla più popolata piattaforma di social networking del pianeta io, che ne sono un utente, posso

  • esprimere il mio stato d’animo scegliendo tra sei emoji che rappresentano altrettante emozioni e stati d’animo e sono chiamate “reazioni”;
  • esprimere la mia opinione in forma ipertestuale attraverso un commento;
  • scegliere di condividere il contenuto in questione con gli utenti che fanno parte della mia rete sociale, ripubblicandolo sul mio profilo.

Il livello e il grado di coinvolgimento che un contenuto è stato in grado di creare e la visibilità che ne deriva nascono perciò dalla somma di queste azioni, ognuna delle quali deve però essere ponderata. Facebook attribuisce infatti un peso differente alle azioni con cui rende possibile all’utente interagire coi contenuti pubblicati al suo interno. Una reazione avrà un peso minore di un commento, che a sua volta peserà meno di una condivisione.

Il principio alla base di questo meccanismo di pesi e contrappesi è temporale. Una reazione è istintiva, senso-motoria, è l’espressione di un circuito di stimolo-e-risposta. Percepisco qualcosa e rispondo a questa percezione con un gesto istintivo, scelto tra un set dato di possibile risposte. Il tempo che impiego per farlo è basso, Facebook ne deduce dunque che il mio coinvolgimento con l’oggetto che attiva il circuito lo sia altrettanto. Per poter commentare invece l’utente deve ponderare la situazione di partenza ed elaborare una risposta ragionata, che attivi la facoltà della scrittura. Questa operazione, pensa sempre Facebook, richiede all’utente un maggior investimento di tempo. Ancora più alto è quello necessario per condividere. In questo caso non devo solo ponderare la situazione di partenza ed elaborare una risposta ragionata, ma devo anche valutare se uno specifico contenuto vale la pena di essere presentato ai miei amici e diventare così parte di quell’incessante opera di autorappresentazione e costruzione dell’identità che è il mio e nostro abitare i social.

Che questo impiego di tempo si verifichi poi nella realtà quotidiana di utilizzo della piattaforma è dibattibile e andrebbe dimostrato. Ma quello che importa sottolineare qui è come la definizione di engagement, per come viene presentata a chi si affida a Google come primo strumento di raccolta di informazioni, sia costruita a partire dalle possibilità inscritte nel modo in cui le piattaforme funzionano, il cui accesso ci è precluso dalla loro natura private e confidenziale.

L’impossibilità di accedere ai meccanismi che regolano questo meccanismo è la ragione per cui è rischioso provare a ricavare valutazioni strategiche o politiche dalla sola analisi delle interazioni social, come sembrava fare qualche settimana fa Alessandro Sahebi in un articolo intitolato “Sorpresa: Salvini sui social è in crisi. Lo dicono i numeri”. Senza sapere con esattezza come si comporta l’algoritmo e a quali variazioni è soggetto, diventa difficile interpretare un cambiamento nei volumi di interazioni come qualcosa di più di…un cambiamento nei volumi di interazione. Questo perché, così come viene comunemente presentato, l’engagement non è altro che una metrica puramente numerica, la quantità di azioni che avviene in relazione a un contenuto ponderata sul tempo a esso dedicato.

Tuttavia, l’engagement ha una dimensione ulteriore, spesso poco considerata. Tradotto alla lettera il termine significa infatti “fidanzamento” ed indica in particolare l’impegno formale tra due persone a contrarre matrimonio. L’engagement smette di essere soltanto la misura della quantità di azioni eseguite in relazione a un contenuto e diventa il modo in cui si costruisce una relazione tra diversi soggetti. In questo senso, l’engagement diventa la base dell’attività di costruzione di una comunità, ovvero il modo in cui un soggetto guida un certo numero di persone a riconoscere ciò che le accomuna e ad agire di conseguenza. È a questo punto che la dimensione quantitativa dell’engagement comincia a sfumarsi, lasciando spazio a quella qualitativa. Dal coinvolgimento espresso in termini di azionamento, si passa qui alla costruzione di una relazione basata sulla fiducia e sull’innamoramento. Una relazione caratterizzata da un legame stretto e incondizionato, frutto di una scelta che esclude qualsiasi alternativa dall’orizzonte del possibile, del concepibile.

Questo è il motivo per cui il concetto di engagement si è diffuso con tanta rapidità nel marketing. Conquistare il cuore dei consumatori fino al punto di fidelizzarli in una relazione inscindibile è il requisito desiderato da qualunque marchio o azienda che voglia sperare di affermarsi in un ecosistema in cui i valori immateriali che circondano un prodotto sembrano aver acquisito un peso pari e, a volte, persino superiore a quelli materiali. In un mondo e un tempo in cui le tecniche del marketing hanno da tempo rotto gli argini tracimando al di fuori dei confini a loro tradizionalmente assegnati per diventare parte integrante del modo in cui costruiamo e vendiamo la nostra identità nel mercato globale delle relazioni digitalizzate, siamo tutti soggetti alla ricerca di un pubblico da coinvolgere e con cui stringere una relazione fino a che morte non ci separi.

Qui, ancora una volta, è l’etimologia del termine a gettare luce sui possibili lati oscuri della relazione di engagment. Nel linguaggio militare, il verbo to engage significa infatti tanto reclutamento, coscrizione, quanto intraprendere uno scontro, dare vita a un combattimento. Se non siamo consapevoli del suo ’ordine del discorso’, l’engagement rischia di trasformarsi nell’ennesima tecnica di militarizzazione della nostra quotidianità, pronta per essere usata per dare vita a una coscrizione fisica e congitiva di massa, capace di passare per le reti neuro-elettroniche con cui siamo costantemente connessi in una rete di relazioni in cui alcuni nodi sembrano essere ormai stabilmente diventati più grandi, importanti e influenti degli altri.


Immagine di copertina: ph. Ketan Rajput da Unsplash