Per creare una normalità diversa dobbiamo partire dall’ingiustizia sociale e ambientale

Oggi in Italia, come in larga parte dell’Occidente, la misura, la natura e la permanenza dei divari sono «ingiuste» e percepite come tali.

Ne sono il segno: il numero di persone il cui «pieno sviluppo», per dirla con la Costituzione (art. 3), incontra «ostacoli» ingiustificabili nelle molteplici dimensioni di vita; il numero e la condizione di moltissimi soggetti vulnerabili e degli ultimi e penultimi, veri e propri «poveri»; la percezione di non riconoscimento da parte di vaste fasce sociali e dei cittadini dei territori marginalizzati; l’impoverimento relativo o assoluto di una parte significativa del ceto medio; l’assenza di prospettive di cambiamento, confermata dalla modesta mobilità sociale.

Permane e si rinforza, senza ancora un’adeguata percezione, il divario di genere, così significativo ancora in ogni parte del mondo: la vita delle donne è pesantemente condizionata dai carichi di cura, da ostacoli nell’accesso al lavoro, da molestie e ricatti nei luoghi di lavoro, da violenza nelle relazioni di intimità e dalla vittimizzazione secondaria quando la violenza approda davanti alla legge.

A essere negata per grandi masse di italiani è, con le parole di Amartya Sen, «la capacità di ciascuno di fare le cose alle quali assegna con ragione un valore», una capacità ancora più compromessa per le nostre future generazioni: ingiustizia sociale e ingiustizia ambientale assieme, la seconda parte integrante della prima.

E questa violazione della giustizia sociale pesa sulla stessa capacità del sistema economico italiano di produrre e di innovare. È tutt’uno con l’arresto della produttività.

L’ingiustizia sociale e ambientale segna, dunque, in Italia e in tutto l’Occidente, lo stato generale delle cose. È la chiave per comprendere i mali e le vie d’uscita di questa fase storica.

Il tema non è la «crisi del capitalismo». Come argomenta Branko Milanović, il capitalismo è oggi «più forte di quanto non sia mai stato». Lo è per estensione geografica. Lo è perché, sfruttando la trasformazione digitale, ha consentito sia di disintermediare e reintermediare lo scambio in moltissimi mercati esistenti (trasporto di persone e merci, cultura, turismo, informazione, credito, ecc.), sia di estendere sistematicamente il suo modus operandi a «cose che storicamente non erano oggetto di transazione e ora sono divenute merci» (dati personali, abitazione, auto, corpo, frammenti di tempo prima dedicati all’otium, ecc.), tanto da farci chiedere: «Quanto perdo se non offro queste cose sul mercato?».

Il tema è semmai che questo capitalismo è «troppo forte». Ha prodotto squilibri di potere, effetti sulle relazioni umane e sul rapporto con l’ecosistema e una distribuzione sbilanciata dei benefici così forti da suscitare in Occidente paura, risentimento e rabbia profondi, una sfiducia radicata in coloro che governano, negli esperti che li consigliano e nella possibilità che si possa cambiare.

Pubblichiamo un estratto dal saggio Un futuro più giusto (Il Mulino) di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo

Nasce qui la disponibilità di un numero sempre maggiore di persone a farsi convincere che l’unica soluzione sia di erigere muri sui propri confini, nazionali o di comunità, muri che proteggano dalla diversità e sanzionino comportamenti «devianti», anche al costo di comprimere le libertà.

Nasce qui, dal dolore prodotto dalla questione sociale e dal convincimento che non sia risolvibile, la disponibilità a trovare sollievo nella questione identitaria, in una qualche artefatta «purezza».

La diffusione in tutto l’Occidente di questa «dinamica autoritaria» è il segno che le cause primarie hanno carattere generale e non nazionale.

In Italia, poi, a queste cause se ne aggiungono altre più specifiche, e così alla gravità delle disuguaglianze si accompagna una stagnazione assoluta della produttività, la misura ultima del successo e del consenso del capitalismo, una stagnazione fonte di ulteriori ingiustizie. E si uniscono manifestazioni particolarmente minacciose della dinamica autoritaria.

Quella appena descritta è la «normalità» pre-virus, esposta senza le emozioni e le lenti di queste terribili settimane. Quelle parole, allora, rendono subito chiaro che non è a quella «normalità» che vogliamo tornare. Che è necessario piegare lo sconquasso prodotto dalla crisi, il cambiamento brutale intervenuto, a un cambiamento di rotta verso un «futuro più giusto».