Sette domande sull’apocalisse del lavoro culturale: Tiziano Bonini e Maria Elena Colombo

Verso la fine del 2018, cheFare pubblicava un mio articolo, dal titolo Dalla sostenibilità economica alla neurosostenibilità. Nel pezzo provavo a sviluppare un ragionamento e una domanda, ovvero: il lavoro culturale, sempre più spesso precario, mal retribuito, pone nella vicenda quotidiana di molti, moltissimi, un tema cruciale, quello della sostenibilità economica della professione e, di conseguenza, della sua sostenibilità esistenziale, specie quando il lavoro comporta un carico significativo di ansia e fatica; ma che cosa accade quando il lavoro precario, o più lavori precari, più commissioni, con il relativo portato di stress e cronica incertezza, si combinano, per esempio, con un utilizzo intensivo dei device? E che cosa succede quando si è costretti ad accettare tutti i piccoli lavori che ci vengono offerti? Quanto a lungo è possibile sostenere un certo ritmo di vita e lavoro? Ecco che forse, mi dicevo, si pone un tema ulteriore: quello della neurosostenibilità del lavoro culturale.

Il pezzo è stato molto letto, condiviso e discusso. Segno che qualcuno si è riconosciuto e che la questione esiste. Perciò abbiamo pensato di provare ad allargare la discussione, inoltrando sette domande a persone e amici che lavorano nella cultura, nella conoscenza, nella formazione etc.

Crediamo che valga la pena parlarne, che occorra testimoniare, sollevare una discussione pubblica e che questo spazio, infine, sia il luogo giusto per iniziare. In questa prima puntata, a rispondere alle nostre domande sono Tiziano Bonini e Maria Elena Colombo, che ringraziamo. Entrambi hanno percorsi professionali ibridi, che si muovono tra più campi e discipline. Bonini tra radio e insegnamento universitario; Colombo tra insegnamento e, addirittura, un trascorso da archeologa.

Il che non è una sorpresa, ma semmai una conferma, da una parte, dell’eclettismo che il mercato del lavoro oggi richiede, dall’altra di un’irrequietezza che appartiene a tanti. Se Tiziano a volte si sente un «criceto nella ruota», Maria Elena sa che questa è la vita che si è scelta.

Le immagini all’interno del testo sono di Valentina Sommariva, l’immagine di copertina di Baref00t0rchid da Pixabay.

Foto di Valentina Sommariva

TIZIANO BONINI

Quanti anni hai e che lavoro fai?
Ho 42 anni e faccio il ricercatore universitario (non precario). Tra un anno diventerò professore associato. Faccio anche l’autore freelance per la radio pubblica.

Tempo fa hai scelto un certo percorso di studi e professionale. Quali erano in quel momento le tue ambizioni e i tuoi desideri?
Ricordo benissimo un momento della mia giovinezza. Ero in metrò, a Madrid, in Erasmus. Avevo 22 anni. Stavo parlando con la mia fidanzata dell’epoca, una fotografa di Torino, che mi chiedeva cosa volessi fare dopo l’università. A Madrid frequentavo un corso di “sceneggiatura radiofonica”. Le risposi che volevo scrivere programmi per la radio, inventare programmi, lavorare in una redazione radiofonica. Al ritorno dall’Erasmus iniziai a collaborare con la radio dell’università, poi da lì con Radio Onda Rossa, a Roma, per un paio di mesi e poi per Radio Popolare a Milano. Nel frattempo avevo avuto la fortuna di entrare in un corso di dottorato (ma senza borsa di studio). Quindi all’epoca avevo le idee chiare sul fatto che volessi lavorare nella “industria culturale”, ma continuavo, per quanto possibile, a barcamenarmi tra un’improbabile carriera accademica in Italia e un incerto futuro nelle radio “alternative”. A 29 anni, quando già avevo iniziato a lavorare da freelance per alcune radio nazionali, pubbliche e commerciali, sognavo di poter fare l’autore di un programma, magari in Rai, che è poi quello che ho fatto nella vita, dai 31 ai 42 anni.

Esiste un tema della «neurosostenibilità» nel tuo lavoro e nella tua vita? E come si manifesta? Con quali sintomi? Quali sono, a tuo parere, le cause?
È esistito, certamente, e in parte esiste tuttora. Tutti i miei trent’anni se ne sono andati lavorando su più fronti, tentando di mettere assieme un unico reddito. Continuavo a fare il ricercatore precario in università e, contemporaneamente, facevo l’autore freelance per la radio, ma ogni stagione era diversa, ogni contratto era diverso, da stagione a stagione, e c’erano mesi nei quali non lavoravo. Nel 2014, allo scadere di un assegno di ricerca, sono stato 14 mesi senza stipendio dall’università, e ho pagato l’affitto grazie al lavoro in radio e grazie ai risparmi degli anni precedenti. I dieci anni nell’industria culturale milanese sono stati molto belli e molto duri. Belli per le persone che ho conosciuto, per i programmi cui ho contribuito, perché avevo la libertà di fare tutto quello che mi piaceva, anche in università. Duri perché ho lavorato così tanto da sfiorare, credo, il burnout. Per poter restare in università dovevo pubblicare, e per pubblicare passavo intere serate a scrivere articoli. Nessuno dei due lavori che facevo, da solo, mi garantiva continuità e mi permetteva di pagare gli affitti sempre più alti di Milano. Quindi dovevo tenerli entrambi.

Questo stress ha delle conseguenze. Per anni mi sono ammalato tutti gli inverni, anche due volte nella stessa stagione. Ora che ho cambiato città, che ho un lavoro stabile, una prospettiva di lungo periodo, e non lavoro più dopo cena, non mi ammalo da tre anni. E soprattutto, tutto questo lavorare (preferisco il rumore del mare) ha un impatto sulle relazioni affettive: le sfibra, lentamente. Ho visto saltare tante coppie, perché entrambi erano precari, o perché lavoravano troppo. Ho lasciato Milano per vivere vicino alla mia compagna, perdendo un po’ di belle amicizie e situazioni stimolanti, ma il corpo mandava segnali chiari, e ora sta meglio.

Inoltre, il lavoro “intellettuale” è sottoposto (come altri) a sempre maggiori quote di rating e misurazione della performance. In radio ci sono gli ascolti (per fortuna meno pressanti di quelli tv); in università, da alcuni anni, ci sono le soglie, le riviste di fascia A, la misurazione dell’impatto dei prodotti della ricerca: questi paradigmi di misurazione della performance impongono a chi lavora di non fermarsi mai. Hai la sensazione di fare il criceto nella ruota e che la tua “creatività”, la tua principale risorsa, sia sfruttata a ritmi industriali. E hai il timore che prima o poi, questa risorsa, difficilmente riproducibile, possa terminare o estinguersi. Da un lato, bisogna dire che il lavoro culturale è sempre stato stressante e precario, già da Illusioni Perdute di Balzac, dall’altro occorre riconoscere che non è mai stato così sottoposto a sorveglianza come lo è oggi.

Fotografia di Valentina Sommariva

È una questione di cui parli con i tuoi colleghi e amici o è un tema tabù?
Fin troppo. Dico fin troppo perché poi non si fa nulla per modificare questa condizione, o per mancanza di possibilità, o perché, in fondo, ci piace raccontare agli altri che facciamo parte di questo mondo. Io ho lasciato Milano perché ne ho avuto l’opportunità, ma anche perché cominciavo a veder crescere, in tanti colleghi, amici e conoscenti che avevano superato i 35 (per me la soglia, quasi dantesca, che spartisce i sogni di gioventù dai conti con la realtà) una grande bolla narrativa: da una parte ci si racconta come “lavoratori dell’industria culturale” e ci si sente parte di un mondo privilegiato, fatto di status sociale e vita intellettuale, dall’altra si fa spesso un lavoro sottopagato, precario, non sempre soddisfacente, e per continuare a farlo, o si viene da una famiglia benestante, o si fanno enormi sacrifici. Quando l’affitto si prende il 60% del tuo reddito, dovrebbe suonare qualche allarme. È un furto.

Oggi qual è il tuo bilancio? E qual è il senso del lavoro che svolgi? 
A 30 anni sognavo di poter scegliere musica da trasmettere in radio. A 35 ho cominciato a pensare che avrei voluto smettere di fare quel lavoro entro i 40. Il bilancio del mestiere in radio è un po’ deludente: cioè, arrivato a un certo livello, non cresci più, fai sempre la stessa cosa e non guadagni nemmeno più di prima. Non è un campo dove puoi crescere molto. Se poi non sei un autore, ma lavori in redazione, la frustrazione è ancora maggiore, dopo qualche anno. Va meglio il bilancio del lavoro in università: alla lunga, è il lavoro che mi piace di più. E ho capito finalmente che trovo più soddisfazione nell’insegnare a una classe di 30 studenti che a trasmettere musica per un pubblico di 200.000 ascoltatori.

Quali sono le tue paure e le tue speranze per il futuro della tua vita e del tuo lavoro?
Le paure sono tante: non riuscire a lasciare traccia, non scrivere nulla di “significativo”, non essere letto. Le speranze sono il contrario delle paure. Altre speranze: non lavorare più dopo cena.

Quali sono le strategie che vuoi porre in essere per rendere la tua vita migliore e per dare maggiore senso al tuo lavoro?
Nel mio caso è già successo. Ho abbandonato Milano, ho vinto un concorso da ricercatore in provincia e faccio una vita un po’, non molto, più tranquilla. Credo fermamente che a 30 anni puoi mantenere ritmi di vita che a quaranta già sono deleteri.

Fotografia di Valentina Sommariva

 

MARIA ELENA COLOMBO

Quanti anni hai e che lavoro fai?
Ho 48 anni. Insegno Multimedialità e beni culturali all’Accademia di Brera, a Milano. In altre università e corsi post laurea, invece, insegno materie che intrecciano museologia e comunicazione, con un’attenzione specifica sul digitale.

Tempo fa hai scelto un certo percorso di studi e professionale. Quali erano in quel momento le tue ambizioni e i tuoi desideri?
Non sono certa mi fosse chiarissimo l’obiettivo professionale. Certamente, col passare del tempo, ho compiuto tante scelte diverse: ho fatto l’archeologa, ho lavorato per le agenzie di comunicazione, ho fatto il digital media curator per i musei… Senz’altro ho scelto ogni giorno di studiare, capire, pormi domande, commuovendomi in ambiti che sentivo molto miei. Si tratta di mestieri che fai non solo per quel che sai, ma per quel che sei: difficile scindere le due cose.

Esiste un tema della «neurosostenibilità» nel tuo lavoro e nella tua vita? E come si manifesta? Con quali sintomi? Quali sono, a tuo parere, le cause
Ecco… non so se «neurosostenibiltà» sia la parola giusta, per via del suo rimando a una patologia. Intendo dire che non mi mancano certo alcune reazioni corporee: quando mi aggroviglio senza respiro fra pensieri, emozioni, giudizi severi – sempre miei – il mio corpo lancia inequivocabili e acuti segnali, impossibili da ignorare, proprio uno stop. Non credo sia corretto attribuirne la causa al lavoro, ma al mio modo irriducibile e totalizzante di fronteggiare il mondo. Certo l’instabilità, mettersi in discussione, l’impossibilità di fare piani personali e familiari a lungo termine per via dell’incertezza economica, non aiuta né a stabilizzare né a rinfrancare le anime senza pace. E ancora… non aiuta a vivere con serenità la vita di coppia, per chi abbia, come me, l’ambizione all’autonomia finanziaria. Non aiuta a fare piani di maternità secondo il proprio desiderio. Tuttavia c’è un “ma” molto potente: sento di essere quella che sono e credo che sarebbe un peccato – e non solo per me – compattarmi in un impiego «solido», che però non mi appartiene. Insomma, c’è la felicità dell’onestà nelle mie giornate.

È una questione di cui parli con i tuoi colleghi e amici o è un tema tabù?
Non m’imbarazza affatto parlarne, e il confronto con i colleghi è sempre prezioso. Non amo però l’incistamento e la lagnanza continua e petulante: l’unica strada, quando tutto è difficile, e lo è, è la leggerezza. Con gli amici che lavorano in contesti diversi dal mio, a volte non è facile intendersi, anche perché credono che tante difficoltà derivano dall’ostinazione donchisciottesca con cui si perseguono carriere incerte e non sempre ben remunerate.

Oggi qual è il tuo bilancio? E qual è il senso del lavoro che svolgi? 
Per alcuni versi sono arrivata dove non avrei mai creduto, e forse desiderato, arrivare. Ad esempio non ho mai avuto la smania dell’insegnamento o della vita accademica. Ma tant’è: mi sono trovata a creare un sapere peculiare, che si pone tra museo e innovazione digitale, rivelandosi utile in un momento di competenze specifiche non ancora così diffuse e sviluppate. Il senso del mio lavoro consiste nel creare consapevolezza intorno alla comunicazione museale, che – digitale o meno – consenta una diffusione più etica, più democratica, più aperta, più accessibile, della cultura.

Fotografia di Valentina Sommariva

Quali sono le tue paure e le tue speranze per il futuro della tua vita e del tuo lavoro?
Le mie paure riguardano i miei familiari: se mio figlio volesse studiare a Londra? Se mamma avesse bisogno di un aiuto? Se venisse a mancare anche l’unico stipendio sicuro (quello del mio generoso consorte)? Le speranze riguardano una soluzione che mi garantisca, dal punto di vista formale e di contenuto, di poter mettere a frutto con meno fatica la mia esperienza.

Quali sono le strategie che intendi porre in essere per rendere la tua vita migliore e per dare maggiore senso al tuo lavoro?
Da un lato, come ho scritto un anno fa per cheFare, non accettare rapporti di lavoro non adeguati, come ritengo che sia spesso la Partita Iva; non accettare incarichi che nascono senza speranza già nelle condizioni di partenza; imparare a far valere la maturità professionale costruita. Consolidare la rete di relazioni professionali che negli anni ho costruito, alla quale sono grata e che costituisce la mia comunità di riferimento. Quanto alla “neurosostenibilità”, non saprei. Proteggermi ogni tanto mi viene poco bene, ecco. Conto di lavorarci su. Sono arrivata a pensare che il continuo senso di inadeguatezza (la mia sindrome dell’impostore) sia una leva potente per crescere. Sto cercando di trasformare quel senso d’inadeguatezza in uno strumento utile e non dannoso.

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