Come cambierà completamente lo spazio, il cuore delle relazioni sociali

In questi giorni di isolamento forzato siamo più o meno tutti costretti all’utilizzo di strumenti per le comunicazioni a distanza di gruppo. Che si tratti di didattica online, riunioni di lavoro su skype o zoom, videochiamate, aperitivi telematici. Abbiamo tutti le nostre storielle a riguardo.

In questo articolo voglio riflettere, al contrario, su quale sia il valore insostituibile degli incontri di persona, faccia a faccia, non solo per la gestione delle nostre relazioni sociali, amicali, ma dal punto di vista economico. Tali vantaggi sono stati brillantemente sintetizzati da Michael Storper nello schema qui sotto, al quale mi è capitato spesso di pensare in questi giorni.

I vantaggi delle relazioni faccia a faccia

Incontri e riunioni in presenza, per esempio, stimolano la partecipazione attiva, perché implicano un notevole impegno reciproco e investimento personale di tempo, attenzione, ecc. Guardarsi in faccia come noto scoraggia a mentire, rimuove l’anonimato e rafforza i legami e la fiducia. Ma è una vera è propria tecnologia di comunicazione: consente risposte più rapide, permette forme di comunicazione non verbale, aiuta a capire le reali intenzioni e emozioni dell’interlocutore (screening), facilita la condivisione di valori e linguaggi specifici che è necessaria per interpretare la complessità e prendere decisioni in condizioni di incertezza, o in fretta.

E soprattutto consente lo scambio di conoscenze non codificabili – che non possono cioè essere tradotte in un linguaggio formale e quindi trasmesse a distanza e interpretate autonomamente da chi le riceve – e di conoscenze tacite – ovvero che non sappiamo neanche di avere dal momento che, come per primo ha evidenziato Michael Polanyi, “possiamo conoscere più di quello che riusciamo a dire”. La compresenza è in altre parole indispensabile quando si tratta di condividere conoscenze che si riproducono solo tramite l’esperienza, l’imitazione, l’affiancamento, la collaborazione diretta.

Potrei andare avanti a lungo, ma mi fermo qui. E fin qui lo schema può essere utile a ciascuno di noi per valutare pro e contro delle proprie esperienze telematiche di questi giorni. Ma le implicazioni in realtà sono molto più ampie. Su questa base, infatti, la geografia economica ha re-interpretato alcuni fenomeni cruciali quali i processi di agglomerazione, concentrazione spaziale e densificazione che spiegano in primo luogo l’urbanizzazione; la stessa esistenza delle città. Come disse Robert Lucas, “perché la gente dovrebbe pagare gli affitti di Manhattan o del centro di Chicago, se non per stare con altre persone?”, ovvero per godere di quella che l’economista definiva dimensione esterna del capitale umano, che non deriva dall’istruzione ma dall’interazione con altre persone.

Non è certo un caso, quindi, che sistemi economici sempre più orientati alla produzione di informazioni e conoscenze abbiano condotto a un’enorme crescita economica prima ancora che fisica di alcune grandi città metropolitane. E non è un caso che i settori che caratterizzano queste città siano tutti ad alta intensità informativa: industria culturale, economia della conoscenza, ma anche per esempio la finanza (i contatti face to face facilitano infatti la trasmissione di informazioni riservate e proprietarie).

Le grandi città sono in qualche modo degli enormi assemblaggi di riceventi e trasmettitori di segnali che, per loro natura, decadono bruscamente con la distanza. Il che spiega anche l’apparente paradosso di una globalizzazione che, da un lato, disperde le proprie relazioni economiche in tutto il mondo e d’altro lato, proprio per questo, favorisce una straordinaria concentrazione di capacità competitive, di controllo e di coordinamento in alcuni pochi luoghi privilegiati. Nel momento in cui l’informazione codificabile diventa ubiqua, quella non codificabile o tacita diviene la vera posta in gioco. Per questa via è possibile spiegare, inoltre, l’importanza dei cluster – da Silicon Valley ai distretti industriali – in situazioni di rapidi cambiamenti tecnologici e di mercato.

Le funzioni insostituibili delle relazioni faccia a faccia spiegano anche l’importanza della mobilità umana, e la iper-mobilità un po’ schizzoide che caratterizza la contemporaneità

I luoghi che ospitano concentrazioni di attività economiche simili sono, da un lato, insostituibili serbatoi di conoscenze contestuali e, d’altro lato, favoriscono le interdipendenze di mercato – per esempio il coordinamento tra acquirenti e fornitori – e non di mercato – ovvero gli scambi di conoscenze. D’altro lato questa è anche una chiave essenziale per comprendere l’entità e la forma delle disuguaglianze spaziali che non a caso sono cresciute enormemente negli ultimi decenni.

La prossimità geografica non è tuttavia l’unica soluzione per garantire la compresenza. Le funzioni insostituibili delle relazioni faccia a faccia spiegano anche l’importanza della mobilità umana, e la iper-mobilità un po’ schizzoide che caratterizza la contemporaneità. Si pensi ai viaggi di lavoro. Chi ha funzioni direttive passa gran parte del suo tempo a parlare con altri: al telefono, via email, ma soprattutto in incontri e riunioni. Non a caso nell’epoca della globalizzazione i grandi manager sono sempre in viaggio.

Lo sviluppo di tecnologie di comunicazione a distanza sempre più avanzate e diversificate ha leggermente ridotto la necessità degli incontri di persona, ma non l’ha affatto eliminata. Anzi: ha amplificato la nostra interdipendenza. Come diceva John Urry, il più noto teorico della mobilità, le relazioni interpersonali possono essere gestite a distanza – d’altronde siamo tutti iper-connessi – ma richiedono poi periodicamente di essere riattivate tramite la compresenza.

Le conferenze scientifiche, le fiere, i meeting, per esempio, possono essere interpretati come forme di “prossimità temporanea”. Le catene del valore sempre più frammentate e disperse che caratterizzano il paesaggio economico contemporaneo sono tenute insieme non solo da flussi di beni, denaro e informazioni codificate, ma da reti di mobilità umana. L’emergenza coronavirus ci proietta in un mondo molto diverso.

Il regime di “distanziamento sociale” imposto dai rischi pandemici ci impone innanzitutto l’isolamento. Assistiamo a una sorta di nuclearizzazione delle relazioni sociali che ci confina all’interno delle nostre case e delle nostre famiglie (per chi ce l‘ha).

Riscopriamo l’importanza dei rapporti di vicinato, d’altro lato diventiamo iper-dipendenti dalle infrastrutture digitali

Riscopriamo l’importanza dei rapporti di vicinato, dei quartieri. (Ri)scopriamo spazi pubblici che avevamo in qualche modo dimenticato: i balconi, i cortili e i tetti dei condomini, i marciapiedi davanti casa, ma a danno di altri spazi pubblici e di interazione sociale più aperti e informali, che rischiano di essere ulteriormente privatizzati, recintati, sanificati. D’altro lato, e torniamo all’inizio, diventiamo iper-dipendenti dalle infrastrutture digitali.

Le misure adottate in questi giorni hanno d’altronde due funzioni principali: ridurre la densità, impedire la mobilità. Prima o poi verranno allentate e rimosse. Ma anche successivamente, il distanziamento fisico o sociale potrà continuare a essere alimentato o dal rischio concreto del contagio (di questo come di altri virus), o dalla paura, o magari dall’abitudine. Potremmo da un lato rivalutare quanto è importante e bello incontrarsi, assembrarsi, abbracciarci, ma anche l’opposto, ovvero l’avvento di una sorta di regime di austerità sociale o bio-austerità. Il rischio è quello di accelerare un processo socio-tecnico che, per altri versi, è già in atto: l’individualizzazione dello spazio sociale, la paura dell’altro, l’iper-dipendenza da relazioni mediate da piattaforme, ecc.

Il mercato, nel frattempo, sta scommettendo su questo secondo scenario. A fronte di un crollo senza precedenti dei mercati azionari alcune imprese stanno avendo performance molto positive. Sono stati per questo definite “quarantine friendly” e forniscono servizi di teleconferenza (ad es. Zoom), telemedicina (Teledoc), telepalestra (Peloton), telecinema.. (Netflix & co.). Per non parlare dell’e-commerce. Ne usciremo in ogni caso fra mesi, forse anni.

E circolano già diverse profezie o distopie sul futuro che ci attende. L’idea è, per esempio, che l’urbanizzazione planetaria amplifichi il rischio di spill-over dei virus dagli animali agli esseri umani, e dovrà quindi essere arrestata. Altri evidenziano che la densità urbana sia un terribile veicolo di trasmissione delle epidemie.

Come disse Noah Webster in occasione dell’epidemia di febbre gialla che nel 1793 uccise il 10% degli abitanti di Filadelfia, “perché dovremmo costruire città, se non diventano altro che tombe per gli uomini?”. La geografia della pandemia, tuttavia, sembra avere alcuni dei suoi focolai principali in città secondarie (da Wuhan a Bergamo) e colpire relativamente di più gli spazi suburbani e peri-urbani fortemente dipendenti dagli spostamenti.

La chiave sembrerebbe essere la mobilità tra città e città, o tra città e campagna, più che la densità in sé

La chiave sembrerebbe essere la mobilità e le interconnessioni tra città e città, o tra città e campagna, più che la densità in sé. Anche all’interno delle città, le zone più colpite sembrano essere non già quelle più dense (che sono spesso tra le più povere), ma quelle delle élite cosmopolite iper-mobili e mondane.

È in ogni caso del tutto ingiustificato e anche un po’ ridicolo parlare di fine della città. Ma è vero che i problemi socio-sanitari hanno da sempre svolto un ruolo cruciale nella produzione dello spazio geografico. Ed è vero in particolare per le pandemie perché hanno l’inconveniente di non discriminare più di tanto sulla base del censo, ovvero colpiscono non solo i poveri ma anche i ricchi, e non possono essere risolte semplicemente tramite la segregazione spaziale dei due gruppi.

Si pensi al ruolo che la sanificazione nel XIX secolo ha avuto nel dare forma alle città, senza tuttavia mai arrestare l’urbanizzazione. All’epoca si trattava di garantire condizioni minime di igiene, distanziare gli edifici per fare circolare l’aria e la luce, costruire fogne, ridurre i miasmi, ecc. Oggi si interviene sulla micro-fisica delle interazioni inter-personali e gli effetti saranno di conseguenza particolarmente rilevanti sulle relazioni economiche, sociali e spaziali che da tali interazioni traggono la loro linfa.

Qualche guru degli studi urbani come Richard Sennett e Richard Florida si è già avventurato nella previsione di soluzioni che consentano la socialità e la mobilità in condizioni di distanziamento. Si invocano poi da più parti soluzioni ‘smart’ e una ancora maggiore pervasività di infrastrutture e piattaforme digitali che, come ha detto Michele Acuto, “potrebbero rappresentare la sanificazione del nostro tempo”.

Si interviene sulla micro-fisica delle interazioni inter-personali e gli effetti saranno rilevanti sulle relazioni economiche, sociali e spaziali

Ma quali sono e saranno le implicazioni più ampie? Qual è il “lato oscuro” di ciò che ci aspetta? Non siamo certo qui a prevedere il futuro ma per fornire – si spera – qualche coordinata utile per decifrarlo.

Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è in primo luogo il trionfo dei legami forti, ovvero delle relazioni sociali con persone a cui siamo già fortemente legati. Assistiamo, invece, al collasso dei legami deboli, ovvero delle relazioni più sporadiche con conoscenti, amici di amici, o degli incontri casuali.

Questi ultimi non sono solo i legami di gran lunga più importanti in economia, come ci insegna la sociologia economica, ma sono anche straordinari veicoli di mobilità sociale. Le misure di distanziamento da un lato, e l’aumento delle interazioni online dall’altro lato, convergono in questo senso nell’aumentare l’omofilia, ovvero nel segregare ciascuno di noi ancora di più all’interno delle proprie trappole sociali e territoriali, o nelle nostre bolle.

Gli incontri di persona o le forme di socialità morbida, inoltre, sono meno escludenti. La conoscenza (tacita) è in altre parole un bene comune o un bene pubblico – ovvero non escludibile – ma di natura locale; può essere goduto solo tramite relazioni di prossimità. Esistono ovviamente innumerevoli soluzioni che consentono di prescindere dalla vicinanza geografica.

Si pensi alle reti di innovazione disperse, che sono tuttavia ambienti di interazione estremamente formalizzati, strutturati, pianificati. Le relazioni faccia a faccia consentono invece esiti maggiormente casuali (serendipità) e aperti ad una fruizione condivisa e diffusa.

Gli esiti delle reti di innovazione a distanza, invece, sono molto più spesso catturati e gelosamente custoditi all’interno delle stesse reti che li producono, così come l’innovazione che si produce all’interno dei confini proprietari delle imprese. A rischio sono soprattutto quelle forme di innovazione e di creatività che si basano sulla produzione sociale della conoscenza, e che caratterizzano buona parte (buona in tutti i sensi) delle economie urbane. Rischia di implodere quell’ecosistema sociale dal quale trae linfa la creatività, che è fatto di relazioni informali, incontri casuali tra mondi diversi – le cosiddette esternalità a la Jacobs.

I lavoratori della conoscenza, per fare un altro esempio, possono a differenza di altri telelavorare comodamente da casa. Ma d’altro lato si nutrono di socialità e conoscenze tacite. Per non parlare degli effetti diretti e drammatici che il blocco degli spettacoli dal vivo ha sulle componenti più deboli e meno strutturate delle industrie creative e culturali. E non parliamo di una élite di star o celebrity, ma di migliaia di lavoratori iper-precari e sottopagati.

Gli incontri di persona inoltre costano poco, al netto dell’eventuale costo dello spostamento (che è nullo in condizioni di prossimità geografica). Consumano solo tempo. Le relazioni mediate da piattaforme digitali hanno invece un costo monetario.

Alcune piattaforme offrono invece servizi gratuiti, ma al costo di sottoporci a meccanismi indiretti di estrazione del valore e di sorveglianza che gli consentono poi di fare cassa con i nostri dati personali e la mercificazione delle nostre relazioni inter-personali (“se il prodotto è gratis il prodotto sei tu”).

Le piattaforme digitali sono infrastrutture strategiche che svolgono funzioni di interesse pubblico, ma sono private e molto poco regolamentate e regolamentabili

Non è solo un problema di privacy, che pure è emerso fortemente in questi giorni laddove si discute di sostituire il distanziamento sociale imposto erga omnes con forme di tele-sorveglianza e tracciatura degli spostamenti. Si tratta di riflettere più in generale sulla crescente importanza ma anche sui lati oscuri del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”, che non nasce con l’epidemia ma che sicuramente ne uscirà più forte che mai. Non solo perché in questo periodo siamo tutti lì, online, sui social, ecc. Ma perché le piattaforme hanno un modello di business molto lean ovvero iper-esternalizzato, con bassi costi fissi irrecuperabili e quindi flessibile e resiliente.

Sta emergendo con ancora più forza quanto le piattaforme digitali siano infrastrutture cruciali, strategiche, che svolgono funzioni di rilevantissimo interesse pubblico. Ma sono private, oltre che prevalentemente straniere – o peggio rischiano di dare forma a nuovi dispositivi di sovranità post-statale – e sono molto poco regolamentate e regolamentabili.

Queste piattaforme consentono inoltre rilevantissime economie di scala. E quindi, tra le altre cose, aumentano la sostituibilità dell’interlocutore. Per farla semplice: finché come docenti dobbiamo essere tutti fisicamente presenti in aula, siamo tutti necessari. Ma quando la didattica si svolge online? In questi giorni sono tutti giustamente preoccupati che docenti e studenti abbiano a disposizione infrastrutture e competenze adeguate per proseguire la didattica online. E sappiamo che non è così. La mia preoccupazione è anche un’altra. Non è che alla fine qualcuno di prenderà gusto, e ci sostituirà tutti con degli eccellenti corsi online forniti dall’università di Harvard?