Tutto quello che avreste voluto sapere sull’Audience Engagement e non solo

Questo articolo di Alessandra Gariboldi è dedicato ad approfondire il tema del 4° processo di scrittura collettiva del progetto Nube di parole.

Vogliamo riflettere insieme a voi sul significato del termine ‘audience engagement’, specialmente per quanto riguarda la produzione culturale.

Per esplorare l’espressione ‘Audience Engagement’ possono forse essere utili alcune premesse su come questa idea c’entri  con la cultura, e sul perché quel mondo da qualche tempo se ne stia interessando.

Inutile dire che in ambito accademico, almeno in quello relativamente ristretto dei “cultural studies” si tratta di un’espressione che è comparsa in tempi relativamente recenti, ma che ovviamente coinvolge riflessioni che ormai hanno anche un bel po’ di storia alle spalle.

In una fase di crisi degli assetti democratici, il fatto che gli individui siano in grado di esercitare la propria cittadinanza attivamente e consapevolmente costituisce l’unico argine possibile al dilagare di  recrudescenze nazionaliste.

Relativamente recente è l’attenzione alla mancata partecipazione culturale dei cittadini, non tanto perché le cose siano oggi messe peggio di prima (non sono mai andate bene, perché la cultura, almeno quella che noi definiamo tale, ha sempre riguardato una minoranza), ma perché ha cominciato ad essere percepito come un problema di sviluppo e di sostenibilità oltre che di democrazia. Non che il tema non fosse presente, ma era esclusivo appannaggio del mondo delle politiche culturali e della sociologia della cultura – non proprio un tema mainstream insomma.

Oggi, in una fase di crisi degli assetti democratici, il fatto che gli individui siano in grado di esercitare la propria cittadinanza attivamente e consapevolmente costituisce l’unico argine possibile al dilagare di fenomeni isolazionistici e di recrudescenze nazionaliste.

In questo scenario il fatto che la cultura e chi la conserva, la cura e la propone non siano stati in grado, in un secolo di politiche per l’accesso, di far crescere il senso critico e la capacità civica delle persone che con le proprie tasse la mantengono è, finalmente, diventato un problema troppo grosso per essere ignorato.

A cosa serve, in fondo, la cultura?

Ciò premesso, parlare di audience development, engagement, empowerment (oh cielo, signora mia, quante parole inglesi) significa chiedersi quale ruolo ha o dovrebbe avere la cultura nel perseguire il benessere della società, chiedersi chi all’interno del sistema culturale abbia la responsabilità di far sì che questo ruolo si inveri e, in ultimo, se al di là delle dichiarazioni di intenti siamo disposti a pagare il prezzo perché ciò avvenga. È insomma un tema di assunzione di responsabilità rispetto a un contemporaneo che chiede a gran voce a cosa serve, infondo, la cultura.

Le definizioni che seguono sono in buona parte tratte da due recenti pubblicazioni (Breaking the fourth wall, Proactive Audiences in the Performing Arts, 2018 e Engageaudiences, How to place audeinces at the center of cultural organisations 2017), che sono frutto del lavoro di ricerca realizzato nell’ambito di diversi progetti europei sull’Audience Development e Engagement.

Si tratta ovviamente di punti vista in evoluzione, ma che rendono conto dello sforzo definitorio e concettuale che ha visto la collaborazione di parecchi ricercatori, accademici e professionisti delle arti provenienti da una quindicina di paesi europei.

Audience

Lasciando da parte l’origine e la connotazione massmediatica possiamo dire che “Audience” è un termine collettivo che include una serie di punti di vista differenti e spesso in opposizione. Vi sono molti modi di descrivere il pubblico della cultura: spettatori, visitatori, membri, clienti, utenti, consumatori, partecipanti, frequentatori, ma solo di rado persone.

Le organizzazioni culturali sovvenzionate con fondi pubblici considerano spesso il loro pubblico in termini di “presenze”, “spettatori” o “visitatori”, come destinatari che suggellano un patto e, più o meno implicitamente, fanno parte di una comunità.

Il 14 febbraio parliamo di Audience Engagement a Torino, passa a trovarci.

Per contro, c’è un blocco tutt’altro che monolitico, ma decisamente più ampio e diversificato, costituito da coloro che non fanno parte di quel patto (il cosiddetto “non pubblico”). Così definiti i pubblici, il concetto di partecipazione (e non-partecipazione) si fonda su una visione sostanzialmente passiva e reattiva dell’audience, in cui le persone possono decidere se fruire o meno dell’offerta culturale, ma solo entro i confini rigidi e standardizzati del consumo e dell’esperienza.

Ma da quanto sta accadendo per i concetti di accesso e partecipazione (le cui interpretazioni sono cambiate nel tempo), anche nel modo di intendere l’audience si trovano segni di una visione diversa: l’idea che i pubblici non siano mero ricettacolo passivo di significati imposti da altri, ma piuttosto soggetti coinvolti — sia cognitivamente che emotivamente — nell’attribuire un significato a ciò che esperiscono (sebbene spesso inconsciamente) e, in parte, a orientarlo.

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Questo coinvolgimento attivo ha diverse dimensioni interrelate: percezione, comprensione, interpretazione, valutazione e risposta.

I sostenitori della teoria dello spettatore attivo ad esempio (e non a caso è più spesso il mondo delle arti performative, quello che senza pubblico non esiste, che più ci si interroga) rivendicano che non possiamo assumere che il significato di un lavoro artistico sia determinato in anticipo rispetto all’esperienza che ne fa un pubblico, poiché il significato è l’esito della negoziazione tra un pubblico e un prodotto in un particolare contesto di comunicazione (Chandler and Munday, 2011).

Lo spettatore è attivo, allo stesso modo di uno studente o uno scienziato: osserva, seleziona, confronta, interpreta. Connette ciò che osserva a ciò che ha osservato in altre occasioni, in altri luoghi. Compone la propria opera con l’opera con cui entra in contatto. Partecipa alla performance se è capace di raccontare una propria storia sulla storia che sta di fronte a lui (Rancière, 2011).

Audience Development (AD)

Il concetto è faticosamente arrivato negli ultimi anni a una sua definizione a partire da una prospettiva squisitamente organizzativa. Non a caso il termine nasce dalle organizzazioni culturali, come risposta a un problema sia interno (storicamente affrontato dal marketing), quello cioè di non raggiungere abbastanza persone, o persone troppo simili tra loro, quello di avere impatti significativi sulla loro formazione culturale e comprensione dei fenomeni, sia esterno, quello di legittimarsi come soggetto artisticamente, socialmente ed economicamente rilevante (e quindi meritevole di essere finanziato).

Inutile dire che, finché hanno ricevuto sufficienti fondi pubblici, le organizzazioni questo problema non se lo erano poste più di tanto.

L’AD è oggi generalmente definito come un approccio pianificato, che coinvolge l’intera organizzazione, finalizzato allo sviluppo di nuove e diversificate relazioni con il pubblico

I primi tentativi di mettere a fuoco il concetto di AD risentono fortemente di questa provenienza dal marketing, poco più che timide evoluzioni concettuali che tentano di superare l’approccio meccanicistico con cui chi produce cultura ha tendenzialmente trattato quella disciplina (che, frustrata, cerca da sempre di uscire dall’angolo strumentale in cui viene reclusa, per reclamare un maggior peso specifico nella definizione di approcci strategici). Come disse ancora pochissimi anni fa un noto consulente inglese: “ora che lo chiamiamo AD, possiamo finalmente fare marketing della cultura”. Nel tempo, la definizione si è ampliata fino ad arrivare a quella più o meno condivisa oggi.

L’AD è oggi generalmente definito come un approccio pianificato, che coinvolge l’intera organizzazione, finalizzato allo sviluppo di nuove e diversificate relazioni con il pubblico (The Audience Agency), un processo attivo e intenzionale volto alla creazione di legami di senso tra le persone e un’organizzazione culturale, in una prospettiva di lungo termine. L’AD è per definizione strategico, e si propone non solo di aumentare il numero di visitatori, ma di creare nella comunità un senso di appartenenza, partecipazione, relazioni con l’organizzazione, con i contenuti che veicola e con chi ci lavora (B. Lipps, Theatron, 2015). È insomma un approccio organizzativo, non una pratica, che assume la centralità delle relazioni con i pubblici al pari dei contenuti di cui l’organizzazione è portatrice e interprete, e che può sostanziarsi in una varietà di azioni estremamente diverse.

Audience Engagement (AE)

Audience Engagement è un’espressione usata (nella pratica come nella letteratura) in modi molto diversi e non codificati, così come altre espressioni che rientrano nel quadro di riferimento semantico dell’AD (audience building, audience participation, ecc.). Più in particolare, il termine è impiegato per sottolineare la dimensione di coinvolgimento che suona meno esplicita nel concetto di “sviluppo”, e più meccanica nel concetto di “costruzione” (Engageaudiences, 2017). Per come inteso in una ricerca per la commissione europea del 2017, l’Audience Engagement consiste nelle fasi dell’AD più strettamente operativo, ovvero la fase del raggiungere (le modalità per entrare in contatto con i pubblici) e la fase del coinvolgere (azioni di coinvolgimento fondate su relazioni e reciprocità).

l’Audience Engagement consiste nelle fasi più operative dell’AD: raggiungere e coinvolgere

È dunque un concetto che nella nostra interpretazione esprime qualcosa di puntuale, di natura tecnica, che si può concretizzare in processi, azioni e comportamenti organizzativi che possono includere una grande varietà di strumenti e approcci: attività e dispositivi di mediazione; coinvolgimento attivo attraverso laboratori, attività educative, strumenti digitali, approcci interculturali; partecipazione del pubblico alla progettazione delle attività e alla creazione di contenuti espressivi, artistici e creativi (co-creazione, co-progettazione, e tutti i gradi di co-qualcosa che si possono immaginare).

Esprime forse però, allo stesso tempo, anche una temperie culturale, uno sfondo su cui ci muoviamo e che ci spinge sempre più ad ingaggiarci con qualcosa – sulla scorta di una progressiva centralità dei destinatari nel discorso pubblico, ma anche della crescente competizione di un mercato che ha per imperativo quello di coinvolgere e legare a sé gli acquirenti, trasformando il consumo in esperienze e i clienti in supporter (dal marketing relazionale a quello esperienziale), alimentando un senso di appartenenza profondo e viscerale (marketing tribale).

Audience Empowerment

L’ultima frontiera di quelli che non ne possono più di sentire parlare di “development” (che con quel termine “sviluppo” di sapore post-coloniale, evoca il grande demiurgo che gentilmente sviluppa i meno fortunati) e di “engagement” (che sa un po’ di ingegnere della dipendenza da gamification che progetta diabolici meccanismi per farti passare il tempo in cose che mai avresti scelto di fare), l’ultima frontiera, dicevamo, è l’“empowerment”.

L’empowerment si può definire come un meccanismo attraverso il quale persone, organizzazioni e comunità acquisiscono la titolarità di ciò che li riguarda (Rappaport, 1987). Si riferisce alla capacità degli individui, gruppi e comunità di accedere a, e di esercitare, il proprio potere individuale o collettivo, la propria influenza, e di impiegare queste forze nel confronto con altri individui, istituzioni o società (Punie, 2011).

Applicato all’audience, l’idea di empowerment comporta non solo di metterla in condizione di interpretare, ma anche di essere considerata come valido interprete (Conner, 2017) e trova il suo contraltare, sul piano delle politiche, nel concetto di democrazia culturale (in contrapposizione alla democratizzazione della cultura).

Cosa significa dare il potere alle persone?

Come accennato in apertura, questi tentativi definitori rendono conto di a che punto si trovi oggi la riflessione sul tema della partecipazione culturale. Tuttavia le domande che un ragionamento sull’audience engagement (da un punto di vista culturale) può sollecitare sono molto più interessanti delle definizioni, come Nube di parole ben sa. Cosa significa dare il potere alle persone?

Ma soprattutto il potere “viene concesso” (e quindi può anche essere tolto) o si tratta di “appropriazione”? Che fine fa la curatela? Dove sono i contenuti in mezzo a tutti questi processi? Cosa vale la pena finanziare con fondi pubblici? Chi ha il potere di definire cosa è cultura, cosa vale la pena di conservare e restituire come immagine di noi come collettività? O di usarla come mezzo per mettere in discussione tutte queste cose? È giusto adottare ogni strategia possibile per adeguare i contenuti ai nuovi schemi cognitivi generati dal digitale (inclusi i tempi di attenzione di un criceto e la memoria di un pesce rosso)?

La cultura, quella con la C, deve sempre essere di tutti, che la vogliano o meno?

La cultura deve resistere a questi meccanismi o assecondarli o farsi guidare? E anche se fossimo bravi, e avessimo tutti ben chiaro che l’audience engagement è solo un mezzo, che il fine ultimo è l’audience empowerment, e che per arrivarci, contro ogni consuetudine e resistenza culturale e organizzativa, è necessario inserirlo in una strategia di audience development, anche ammesso tutto questo, saremo mai capaci di farlo? Non tanto come singole organizzazioni (qualcuno lo fa già), ma come sistema?

La cultura, quella con la C, deve sempre essere di tutti, che la vogliano o meno? Siamo disposti a pagare il prezzo di rinunciare al controllo sull’interpretazione dei contenuti che dichiariamo di voler mettere in circolo? Siamo capaci anche solo di immaginare cosa potrà essere la cultura come sistema tra cinquant’anni? Sono le istituzioni pronte a perdere il controllo sulla definizione di ciò che è Cultura?

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Immagine di copertina: ph. Alicia Steels