La Fase 3 è quella dei fantasmi, la creatività prevarrà sulla rabbia?

20, 45, 73, 89, 200’000, e alti 1000. È la logica numerica che esprime la situazione di emergenza: leggere la realtà con numeri, formule e modelli. Il numero generalmente misura un dato. E il dato per essere tale deve risultare semplice, comprensibile, privo di interpretazione, ha bisogno solo di essere raccolto. Il dato è il numero di contagi, il numero di disoccupati con IVA, dipendenti statali. Il dato ad oggi si deve confrontare con l’incorporeità del numero dei lavoratori a nero, degli immigrati non regolarizzati.

Eppure sorprende per quanto tempo le giornate di questi ultimi fossero scandite più di chiunque altro lavoratore da numeri: i braccianti del caporalato venivano pagati 3,50 per ogni cassetta di pomodoro riempita.

La piramide della conoscenza insegna che un dato è l’elemento base che può diventare informazione a cui si attribuisce generalmente un valore. Allora i numeri e i dati raccolti in informazione diventano racconti, poiché acquistano attributi che consentano interpretazioni del dato. Alla punta della piramide si colloca la conoscenza che finalmente ha saputo tradurre e orientare i numeri in ragionamenti. Allora ci si rende conto che regolarizzare quei numeri di braccianti ed immigrati è una scelta di civiltà e per questo di lotta contro la malavita: diventa conoscenza, capacità interpretativa nella lettura di un’informazione.

Gli italiani hanno scandito la propria vita in scaglioni di Fasi: 1,2,3. Per ogni fase ha coinciso il livello di questa piramide, che in quanto raffigurazione di un discorso tende a semplificare situazioni irriducibili. La Fase 3 dovrebbe essere allora la fase della conoscenza. Eppure molti numeri sono sfuggiti nel costante monitoraggio di flussi, di positivi, di negativi.

Insieme alle città fantasma, che adesso pian piano sembrano tornare a brulicare con i propri addetti ai lavori e cittadini, ci sono i fantasmi.

I fantasmi non sono solo i lavoratori non contrattualizzati, ma sono quelle figure non create direttamente da azioni governative ma dal mancato riconoscimento delle istituzioni governative del loro valore.

È chiaro ormai quante difficoltà porti con se l’articolo 5 della Costituzione Italiana, dove lo Stato e le Regioni spartiscono poteri, riconoscendosi entrambi come autorità politiche economiche e sociali. Nell’incertezza e nei dubbi di questa suddivisione di potere nascono i fantasmi e gli invisibili, che sfuggono alle direttive politiche. Sono tutti quei movimenti, quelle creazione che esulano dal controllo, eppure producono servizi sociali.

I fantasmi sono quelle forze vettoriali che direzionano ma non spingono, ascoltano ma tendono a non essere referenziali. Si chiamano operatori culturali: artisti, organizzatori, distributori, produttori, curatori del paesaggio.

Dal 10 marzo il paese si è capsularizzato nello spazio virtuale nella spasmodica ricerca di contatti reali. Chi si è occupato di avere cura di questo sbandamento, cambio di rotta sono quei fantasmi che in TV non si vedono molto ma ci sono. I fantasmi sono gli operatori culturali che benché l’incorporeità rappresentativa del loro status, hanno cercato di stare, di essere presenti nello svuotamento degli spazi quanto di senso comune, riappropriandosi di un lusso, ormai: la lentezza. Non si tratta di quella lentezza che fa da locandina ai barbari brand territoriali firmata Slow Tourism, che era ormai un target per ricchi. I treni, gli alberghi, le case, i servizi più costosi erano diventati quelli più esclusivamente silenziosi e isolati. E qui emerge con forza un cambiamento.

La lentezza che costava, oggi costa nuove verità, nuovi fantasmi

La lentezza che costava, oggi costa nuove verità, nuovi fantasmi. Questi ultimi hanno avuto la forza e il coraggio in questo momento di violento cambiamento di rotta di accompagnare chi era più perso, chi era come loro, trasparente, chi aveva il coraggio di affrontare la sospensione. Si tratta di tutte quelle comunità artistiche e culturali che nella gratuità intesa come capacità di voler dare e trasformare la realtà ha cercato di far compagnia, non con referenziali rappresentazioni artistiche.

Le webinar sono diventate dei parlamenti digitali, dove chiunque poteva accedere gratuitamente a delle lezioni, a delle riflessioni che prima travolti dalla velocità non potevano essere contemplati. Sembra che questa forma ed esigenza di mettersi da parte abbia dato la possibilità di esprimersi a nuovi soggetti, vecchi fantasmi. Voglio elencare qui, alcuni esempi di chi si è preso cura delle comunità, che detiene la voce dell’immaginazione, unico mezzo per esercitare ancora proprio il proprio diritto di inalienabilità e di emancipazione dal contingente: Theatron 2.0, il Poadcast dell’attrice Letizia Bravi “Storie di quarantena”, Produzioni dal Basso con il progetto Attiviamo Energie Positive, Associazioni Profili, Talkwithdance e Artifragili, Arti in libertà,

La settima arte e la Scuola di Scrittura Belleville. Sono solo una parte di un lunghissimo elenco, anche questi numeri, di chi ha curato il peso dell’assenza, del silenzio che incontrava il rumore delle sirene, del borbottio del caffè già pronto e della reclusione delle nostre possibilità.

Cosa hanno in comune tutte quelle realtà associative e non che si occupano di curare le ferite della comunità? La politica della bellezza.

Ciò che orienta la scelta tra ciò che è giusto e sbagliato è una voce che proviene da un ethos di gruppo, costituito da immagini: corollari di leggende e scene orientano sensi di giustizia e ingiustizia. La forza dell’immaginario che orienta le nostre scelte sono incorporee, sono racconti atavici, storie di coraggio e di bellezza. Il sé individuale non è sufficiente per essere forte, poiché pian piano i ricordi diventano solitario rimuginare.

Avevamo bisogno di eroi perché diventassero ethos di collettività, di un’anima comunitaria. E Bansky allora ha deciso di buttare nel cestino Batman e Superman, offrendo ali nel suo disegno ad un’infermiera inglese, un mito antropomorfico.

Gli invisibili hanno cercato di stimolare l’immaginazione non interiorizzata ma tesa alla collettività, che offriva molti più spunti di immaginazioni, e soprattutto la sua espressione tangibile più vicina: la città. Nell’antica Grecia erano gli eroi che fondavano la città, oggi è la comunità a fondarla, ma senza la tensione utopica, non sarebbe mai esistita.

I bambini che corrono per strada sfilando si attaccano all’unico riferimento fisico: le piazze e le strade. La cura dell’uomo e dei cittadini ritorna nel rapporto tra lo spazio e la società ma con una volontà aggiunta, invisibile e fondamentale: immaginare bellezza per curare la solitudine scoperta nella società interconnessa

I bambini che corrono per strada sfilando si attaccano all’unico riferimento fisico: le piazze e le strade

Servono strumenti, competenze, capitale ma ammettere che quello che conosciamo è solo la realtà che immaginiamo. Gli eroi muoiono cosi come anche questo virus, ma gli ideali che hanno cercato di darci forza devono continuare a vivere.
James Hillman nella sua “Politica della bellezza” elegge quest’ultima come unico grande valore a cui una società sana può aspirare in questa fredda anestetizzazione del sensibile, del tattile, del vulnerabile che non rispetta la natura delle cose, negando i suoi miracoli.

Questa società è caduta nel panico dell’immancabile controllo, espressione del falso trionfo del cognitivismo razionale, che ha garantito solo la sopravvivenza del Paese, ma non la sua linfa vitale. Non è un racconto del 68 questo, ma molto più antico e forse per questo più attuale. Hilman lega Freud agli spazi della comunità. Per l’esattezza sostiene che la terapia psicoanalitica deve distanziarsi dalla terapia del sé, che rischia una nuova spettacolarizzazione del se. L’impegno comunitario deve incanalare quella libido, da cui dipende il piacere umano, attraverso impegni e sentimenti sociali che possano attuarla, intensificarla e manifestarla nella relazione esterna. Abituare la comunità all’immaginazione della bellezza è uno strumento politico e sociale che rafforza i valori comunitari nel benessere dell’individuo e dunque della collettività. Questo non può essere previsto da alcuna legge, ma canalizzato nella cura costante di questo esercizio.

Lo dice lo psicoterapeuta James Hillman quanto Peppino Impastato nel film dei “100 passi”la cui ricorrenza dalla morte è stata celebrata in questa fase 2 e per sempre consacrata nella memoria, per questo valore invisibile e inamovibile.

Peppino: Sai cosa penso?
Salvo : Cosa?
Peppino: Che questa pista in fondo non è brutta. Anzi
Salvo [ride]: Ma che dici?!
Peppino: Vista così, dall’alto … uno sale qua e potrebbe anche pensare che la natura vince sempre … che è ancora più forte dell’uomo. Invece non è così.. in fondo le cose, anche le peggiori, una volta fatte … poi trovano una logica, una giustificazione per il solo fatto di esistere! Fanno ‘ste case schifose, con le finestre di alluminio, i balconcini … mi segui?
Salvo: Ti sto seguendo
Peppino :… Senza intonaco, i muri di mattoni vivi … la gente ci va ad abitare, ci mette le tendine, i gerani, la biancheria appesa, la televisione … e dopo un po’ tutto fa parte del paesaggio, c’è, esiste … nessuno si ricorda più di com’era prima. Non ci vuole niente a distruggerla la bellezza …
Salvo: E allora?
Peppino: E allora forse più che la politica, la lotta di classe, la coscienza e tutte ‘ste fesserie … bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza. Insegnargli a riconoscerla. A difenderla. Capisci?
Salvo: ( perplesso) La bellezza…
Peppino: Sì, la bellezza. È importante la bellezza. Da quella scende giù tutto il resto.

Dopo la seconda guerra Mondiale la manovra Marshall investì ingenti somme per la rinascita del Sud creando la famosa Cassa del Mezzogiorno. Ancora oggi questa scelta è raccontata tra le cattedrali del deserto, quelle infrastrutture disseminate qua e là, di opere lasciate a metà per la miopia di una politica fatta solo di economia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si pensava che la risoluzione fossero i soldi, e invece mancava la base: il capitale umano. E così molti sforzi svanirono, speranze cancellate, dissensi ed emarginati sociali sfociarono in violenza.

In questa lenta ricostruzione e restauro di un Paese provato, manca ancora un quadro organico. Certo lo stato emergenziale ne impone anche i tratti frammentari, eppure leggibili in base alle lenti adottate.

La nuova cartografia oggi è rappresentata da puntini e punteruoli rossi che segnalano con percentuali il territorio, ma questi numeri sapranno trasformarsi in conoscenze e previsioni? Sapranno trasformarsi in binari che attraverseranno e dialogheranno per le tappe delle sue eterogenee stazioni?

In questa lenta ricostruzione e restauro di un Paese provato, manca ancora un quadro organico

In genere la crisi è l’occasione, perché sappiamo per certo che il domani sarà difficile e complesso. Allora dobbiamo già pensare alla lotta del pane, fuori le nostre mura casalinghe che non riescono più a contenere l’insofferenza, il dissenso popolare e la solitudine tra chi non riconosce il nucleo familiare nella domus. Allora la domus si restringe fino ad esplodere tra i comuni che dovranno farsi carico della responsabilità di queste emergenze, i suoi comitati, i suoi quartieri, i suoi locali.

In questa voglia di uscire, di riappropriarsi degli spazi bisognerà fare i conti con l’altra faccia della medaglia: la rabbia che esplode in violenza. Sarà necessario allora riequilibrare l’interesse del soggetto per la comunità, inteso come inter-essere. Essere tra di noi. La cura dell’altro allora sarà la legge mancata del decreto Conte, dalla previsione europea. Parlare oggi di bellezza può aiutare ad eludere le repressioni di libido inespresse isolate e per questo più forti ed esplosive per colpire.

Bisognerà accudire modellare ed accogliere le insofferenze dilaganti, prima che sfocino in nuove violenze sociali. Alcune già esplose tra le ingiurie contro Silvia Romano, per cui la coscienza critica è scorticata dalla rabbia di chi non riesce a capire la realtà. Quella ingiusta per cui chi vende le armi all’Oriente e agli estremisti è proprio lo Stato di quel cittadino che ingiuria il rientro della nostra concittadina.

La bellezza e l’immaginazione dovranno bussare alla porta di chi soprattutto non vuole tornare alla normalità: un milione di italiani è affatto dalla sindrome della “capanna”. Hanno paura di affrontare la vita normale. Conferma di un passato insufficiente per il futuro. La parola che ha perso i suoi referenti nell’esigue possibilità di significati esistenti.

In molti dicono che il volontariato sarà indispensabile, inteso come organizzazione locale più vicina all’ascolto dei bisogni, ma è troppo facile credere che basterà questo. Sarà necessario ridistribuire i poteri tra locale e statale, come ha già evidenziato questa pandemia: mettere chiarezza, liberarsi dalla macina della burocrazia, snellire processi decisionali, e dare parola a chi è più vicino alle dinamiche in corso.

Le folle tra i Navigli e tra le piazze di tutta Italia già narrano di come quell’insofferenza in modo molto banale sia già scoppiata. Ma ciò che preoccupa sono i bambini e i ragazzi, quelli che non andando più a scuola perdono il proprio punto di riferimento fisico, che per l’elevato cognitivismo razionale si crede sia cosa da poco, e invece è fondamentale. Non credo si debbano costruire nuove case, ma riconoscerle istituzionalmente. L’unica speranza di eludere una violenza prossima e vicina, in un clima da prescrizione in cui si incolpano possibili untori e trasgressori, è capire dove sarà possibile ascoltare gli altri. I laboratori in cui si possa progettare con la comunità le evidenze non più tacibili. Per non chiudere la speranza nella barricata dell’odio, per chi ha voglia di relazionarsi, per chi è diverso, per chi non ha paura di cambiare.

La bellezza e l’immaginazione dovranno bussare alla porta di chi soprattutto non vuole tornare alla normalità

Dopo molti anni l’Italia ha vissuto un’esperienza comune: la lentezza temporale ha svelato l’impotenza di limiti strutturali della razionalità davanti alle leggi dalla natura. Questa esperienza può lasciare sperare cambiamenti o amnesie e rimozioni in frenetici rituali.

Avere guide nella ricostruzione della comunità per trasformare l’esperienza in orizzonte è l’unica possibilità per portare in alto le lotte di questo millennio sparsi in frammentante notizie che basterebbe unire per capire che è una svolta epocale (i tre musicisti della band Grup Yorum  che hanno perso la vita nella protesta contro il governo Erdogan )

Quale sarà l’occasione offertaci oltre 36 milioni del Mes? La prossima Fase non ha regole, per questo sarà la più difficile. Non sarà essenziale solo la questione economica, ma un atteggiamento, una voglia di collaborare oltre le parti se non per una: la volontà di ripensare una comunità, di riabitare un territorio, e lavorarvi. Aldilà di ogni partito, di ogni opinione, ci saranno urgenze grandi quanto le responsabilità che dovranno assumersi i policy-makers dei comuni.

La cultura avrà il compito fisico e morale non solo di rigenerarsi con narcisismo in progetti top down ma con il compito più arduo di ascoltare i potenziali, estrapolare valori, trovare chiavi che sappiano riaprire sensibilità disponibili ad essere presenti e a credere sul serio che potrà andare tutto bene. Rendere qualitativa la quantità. L’esito di questa missione non avrà firme, ne conti economici, ma il volto di un atteggiamento, di un modus operandi che inciderà e rappresenterà il volto della ripresa di un Paese.

Il silenzioso operato di questi fantasmi riprenderà il suo cammino aspettando una nuova sospensione per rivelarsi o un vero riconoscimento istituzionale.

L’unica certezza del domani, come afferma Gianni Rodari nel suo reportage Paese Sera è che “Non si sa ancora che cosa sarà», nel frattempo immaginiamolo.