Un design per la cura e la prossimità, in dialogo con Giulia Mezzalama

L’esperienza della pandemia pone, tra gli altri, tre aspetti fondamentali potenzialmente in grado di trasformare pregiudizi, prospettive e pratiche relativi alla salute mentale. Il primo è la condizione di isolamento che da esperienza di pochi diventa esperienza di massa, portando così tantissime persone a sperimentare ciò che per molti è una condizione permanente e ponendo forse le basi per quella empatia necessaria per comprendere e includere la condizione altrui. Il secondo sono le esperienze di prossimità e mutuo aiuto che si sono sviluppate dal basso e che hanno permesso di ripensare l’esperienza urbana fino a poter considerare la vicinanza come un aspetto di cura condiviso. Il terzo elemento è l’amplificarsi del dibattito legato proprio al concetto di cura, facendolo emergere, grazie alla convergenza con altri temi tra cui le tematiche ecologiche e femministe, quale elemento fondante della relazione tra persone e ambiente. 

Affrontiamo questi aspetti in conversazione con Giulia Mezzalama direttrice dell’associazione MinD Mad in Design


L’associazione MinD Mad in Design presenta domani 21 ottobre alle 18.30 presso il Circolo del Design di Torino “Futuro Prossimo”, evento che apre il dialogo sul rapporto tra salute mentale e innovazione sociale a partire dalla prossimità, intesa come dimensione urbana – tangibile e intangibile – capace di favorire nuove pratiche di inclusione e riabilitazione. 

L’evento prende spunto dalla pubblicazione del volume “Futuro Prossimo, Salute Mentale, Design e Città” che racconta un’esperienza di co-progettazione realizzata a Torino lo scorso luglio durante il workshop “Di prossimità e vicinanza” a cui hanno preso parte lavorando insieme studenti universitari e utenti dei servizi di salute mentale.

La pubblicazione, curata da Giulia Mezzalama e Germana De Michelis, offre l’occasione per approfondire spunti e riflessioni sull’idea di città che cura con Ezio Manzini, autore del volume Abitare la Prossimità. Idee per la città dei 15 minuti e Peppe dell’Acqua, Direttore della Collana 180 – Archivio critico della salute mentale che saranno moderati da Federica Vittori di cheFare.


Ciao Giulia, cos’è MinD, come nasce e cosa fa?

MinD nasce formalmente nel 2019 come associazione di promozione sociale, ma il gruppo di lavoro che la compone opera in maniera informale già dal 2014 con l’idea di creare una sinergia tra design e salute mentale, al nostro interno sono infatti presenti queste competenze. Attraverso i workshop che progettiamo e realizziamo proviamo a sperimentare come le tecniche di co-design e della co-produzione possano diventare uno strumento utile ai fini della riabilitazione in senso stretto. 

Chi prende parte ai workshop?

I workshop nascono dal coinvolgimento di studenti universitari, operatori socio-sanitari e utenti seguiti dai servizi di salute mentali, tutti vengono coinvolti contemporaneamente in attività basate sulla progettazione partecipata. 

In particolare la decisione di lavorare con gli studenti universitari nasce dall’esigenza di fare un lavoro che coinvolgesse le giovani generazioni con l’intento di provare ad abbattere muri di pregiudizi ancora molto presenti quando si parla di salute mentale. 

Quali temi affrontate?

I temi che ci muovono sono a nostro avviso cruciali nell’ambito del dibattito sulla salute mentale; hanno a che fare in prima istanza con la residenzialità psichiatrica ovvero con i luoghi fisici quali ad esempio le comunità alloggio o gli SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), ovvero i reparti psichiatrici ospedalieri. Ci rendiamo conto che questi luoghi sono spesso privi di progettualità e bellezza. Questo evidenzia uno scollamento ancora forte tra i luoghi della psichiatria e i luoghi cosiddetti “normali”, ovvero i luoghi in cui si svolge la quotidianità di chi non ha a che fare con i servizi in questione. Questa differenza ci racconta a che punto siamo e ci parla ancora dei retaggi e dei pregiudizi presenti quando si parla di salute mentale: in qualche modo una persona che abita quei luoghi non è considerata degna di un posto bello. Forse è ancora radicata l’idea di un paziente che non ha reali prospettive, che rimane in condizioni di sostanziale isolamento per sempre perchè non ha un futuro che lo attende. Al contrario i dati ci dicono che gli utenti seguiti dai servizi mentali sono persone di tutte le età, anche giovani, con una buona istruzione e spesso con una buona base economica, una realtà molto lontana da quella degli stereotipi associati all’idea di paziente. 

Anche alla luce di queste informazioni bisogna pensare un ridisegno delle strategie riabilitative e quindi anche dei luoghi di cura. Per questo i primi workshop nascono per riprogettare i luoghi della salute mentale.

Come sono organizzati i workshop?

I temi che affrontiamo sono anche un po’ un pretesto per sperimentare un processo partecipativo di co-progettazione. Da questi processi nascono idee inedite che consentono alle persone coinvolte di ripensare sia le strategie riabilitative che i luoghi.

Puoi fare un esempio di come avete lavorato sulla relazione tra luogo e strategia riabilitativa?

Questo aspetto è stato al centro di un progetto nato nel 2019 e sviluppato quest’anno, il progetto si chiama ARIA Architettura e Riabilitazione. Questo progetto nasce in collaborazione con la ASL TO5 di Torino che ci chiede di ripensare il reparto psichiatrico dell’ospedale Santa Croce di Moncalieri. A fronte di questa istanza, noi coinvolgiamo Fondazione per l’Architettura di Torino e siamo partiti dal proporre un percorso di formazione multidisciplinare per architetti e operatori socio-sanitari centrato sull’umanizzazione dei luoghi di cura, in grado di affrontare diversi aspetti, tra questi la condivisione di esempi virtuosi già realizzati. Alla fine del corso di formazione è iniziata una fase di progettazione partecipata che ha visto cinque team lavorare insieme. Ogni team è composto da architetti, operatori e pazienti con esperienza di reparto. Siamo così arrivati a formulare delle proposte che sono state vagliate da una giuria. Per l’idea vincitrice si è passati dalla fase di concept a quella di progettazione, i lavori inizieranno tra poco.

©agostinetto.chiara

Qual è in particolare il contributo del design nel ripensare i luoghi della cura?

Il design ci insegna che il ruolo dell’utente è fondamentale in quanto portatore di esperienza e che pertanto va incluso nei processi di progettazione, non solo nella fase di ascolto ma in tutto l’iter progettuale, perché possa considerarsi attore attivo anche in quei momenti di rinegoziazione che un percorso progettuale prevede. Coinvolgere gli utenti nel percorso progettuale era quindi per noi fondamentale non solo per individuare istanze e bisogni ma anche per elaborare proposte in grado di includere quel punto di vista.

Riguardo al ripensare la relazione tra luoghi e strategie riabilitative si tratta di creare una dimensione in cui ci possa essere una vera relazione, uno scambio di competenze reale tra tutti, altrimenti pensare di attuare una trasformazione su un luogo senza pensare anche ad una trasformazione delle relazioni che si sviluppano in quel posto, siano relazioni di cura o di presa in carico, è fallimentare. Abbiamo visto tanti esempi di luoghi che sono stati “abbelliti” senza che questo abbia generato reali trasformazioni. 

Il workshop che avete realizzato a luglio, prende le mosse da un aspetto emerso durante i mesi di pandemia, il fatto che a livello di massa si sia fatta esperienza di una condizione che per alcuni è la norma: isolamento e separazione. Quanto questa esperienza collettiva a tuo avviso è una possibilità per ripensare i luoghi e per lavorare su quei pregiudizi che citavi all’inizio?

I mesi di pandemia ci hanno portato a progettare quest’ultimo workshop proprio a partire dall’osservazione a cui facevi riferimento. Gli utenti sapevano che altri stavano sperimentando la loro condizione di isolamento e talvolta di marginalità e ci si è chiesti se si stessero generando i presupposti per una maggiore empatia nel comprendere la condizione dell’altro. Questo perché non solo siamo stati tutti isolati in senso fisico ma anche fortemente condizionati dai pregiudizi nei confronti del prossimo. Banalmente ci siamo chiesti, e lo facciamo ancora, come relazionarci con la persona che abbiamo di fronte, che faccio lo tocco? Sarà malato? Mi avvicino? E poi nel dubbio comunque stiamo lontani… Ed è proprio questa la natura del pregiudizio: trovarti davanti a qualcosa che è diverso da te, che non conosci, che non codifichi e nel dubbio tieni a distanza. Ed è ancora questo uno degli ostacoli maggiori quando si parla di salute mentale perché la malattia fa ancora molta paura.

Avete chiamato il workshop “di prossimità e vicinanza”, parole che anche in questo caso indicano prospettive inedite maturante durante questo periodo pandemico?

Si, durante la pandemia abbiamo potuto osservare la nascita di dinamiche di prossimità davvero sorprendenti, pensiamo alle iniziative nate in alcuni condomini, all’aiuto che è stato dato alle persone che non potevano fare la spesa; la solidarietà di prossimità ha davvero avvicinato le persone, dal basso sono nate in maniera spontanea molte modalità di mutuo aiuto.

Queste esperienze ci hanno portato a maturare delle riflessioni: la prima è usare appositamente l’elemento della vicinanza nei workshop proprio per abbattere i pregiudizi di cui parlavamo. In generale sentiamo che uno dei compiti che abbiamo è anche far conoscere la realtà della psichiatria che non è solo composta da persone potenzialmente violente o con comportamenti incontrollati o aggressivi, quella è una parte, ma la realtà è molto più complessa.

La seconda considerazione è che le dinamiche di prossimità che abbiamo osservato forse potevano essere riprese nelle pratiche e nelle riflessioni sulle strategie riabilitative. Sta volta non mi riferisco alle strategie riabilitative tipiche dei luoghi della psichiatria, ma su come facilitare la presa in carico delle persone fragili da parte delle città. Il luogo di cura non inteso come il reparto o l’appartamento ma in maniera estesa comprendendo gli spazi urbani.

Come avete lavorato su questi elementi di vicinanza e prossimità?

Abbiamo cercato di facilitare dinamiche di prossimità e vicinanza, fisica e relazionale, in grado di avvicinare mondi diversi, anche perché non esiste solo la paura e la diffidenza della società verso il malato ma anche quella del paziente verso la società perché ha paura di essere discriminato, stigmatizzato e tende a rimanere nella propria zona di confort. È importante quindi lavorare su due fronti e far uscire l’utente permettendogli di vivere esperienze in luoghi aperti della città. In concreto questo workshop nasce dalla forte volontà di lavorare in presenza, ed è nato pensando a due aree cittadine: i quartieri Aurora e Barriera, un’area sulla quale abbiamo coinvolto circa cento persone. Volevamo lavorare in luoghi che avessero una forte osmosi con la città, questo era fondamentale anche perché lo avevamo già sperimentato con altri progetti.

Seguendo il filo del tuo racconto siamo passati da una riflessione sui luoghi tipici della cura, luoghi dedicati, e siamo passati alla città come insieme di relazioni in grado di tendere verso un orizzonte di cura. È possibile tracciare delle caratteristiche della “città che cura” o della “città che si prende cura”? 

Questo elemento della “città che cura” si traduce nel ventunesimo secolo in una città che deve contribuire a creare dei contesti in cui le persone possano essere protagoniste, attive e in grado di attivare relazioni, che possano manifestare liberamente bisogni e desideri e trovare terreno fertile per metterli in sinergia con bisogni e desideri di altri. Peraltro questo è anche il concetto alla base dell’idea di “recovery”, l’idea di un paziente che è centrale nel proprio processo di guarigione e quindi attivo, anche in presenza di sintomi psichiatrici. 

©agostinetto.chiara

Un altro presupposto della città che cura è l’accettazione di una condizione di fragilità come condizione umana e pertanto una città in grado di rivolgersi a tutte le persone che la vivono. Tenere in considerazione la fragilità propria e altrui permette di partire anche da piccoli gesti e piccole azioni che però possono innescare dinamiche forti soprattutto se si ripetono nel tempo.

Oltre ai due elementi di cui abbiamo già parlato, la pandemia ha contribuito ad ampliare il dibattito e la mobilitazione sul tema della cura, incrociando temi ecologici, femministi oltre che sanitari in senso stretto. È un buon momento per chi fa il vostro lavoro?

Rispetto all’ambito della salute mentale finalmente se ne parla in una modalità più ampia, c’è un’attenzione maggiore e di recente viene posto come un tema che potenzialmente può riguardare tutti. Prima eravamo percepiti come una realtà che proponeva progetti ultra specifici di nicchia, oggi ci viene riconosciuto un ruolo un pochino più ampio che va oltre la psichiatria. Su questo in particolare ho molta fiducia nelle nuove generazioni e noto che gli studenti oggi hanno molto meno paura della diversità, quasi il desiderio di andare oltre stigmi e pregiudizi e non solo rispetto alla salute mentale, ma anche alle questioni di genere, alle disabilità, alla diversità in generale.

Sappiamo che il cambiamento culturale è un processo lento, ma osserviamo il beneficio reciproco che si genera ad esempio dall’incontro studente-utente. Spesso gli utenti sono anch’essi studenti, spesso giovani e a loro volta pieni di risorse oltre che portatori di un vissuto di grande sofferenza. Per altro i giovani durante la pandemia hanno più di altri sofferto della condizione di isolamento e marginalità e sono in grado di riconoscere questa condizione nel prossimo.

Quali sono le qualità che dovrebbero essere presenti in una relazione che cura, una relazione che si prende cura, una relazione che appunto può riguardare l’intera città? 

Crediamo che ci siano delle qualità che più di altre facilitano l’instaurarsi di buone relazioni. Tra queste, nella pubblicazione facciamo riferimento alla gentilezza, un tema complesso che rischia di essere banalizzato. Se ci pensiamo bene, instaurare una relazione di prossimità può voler dire incrociarsi, condividere un percorso, accedere allo stesso servizio di quartiere. Prima di riconoscersi in maniera stabile serve un sorriso, un saluto o un cenno. Se trasliamo questo nella relazione con l’utente vuol dire dare valore a piccole azioni in grado di instaurare grandi cambiamenti, a volte basta un piccolo gesto come racconta bene questo breve corto animato. Più in generale questo aspetto rientra in una nuova e più ampia concezione di “cura”, un elemento che richiede di non essere demandato a terzi, come se dovesse arrivare un progetto di cura ma anche di rigenerazione urbana a cambiare le cose. Possiamo riprenderci questa dimensione dal basso esprimendo quella gentilezza per noi stessi e verso il prossimo utile anche per contrastare questa società della performance e delle cose gridate. 

Come viene recepito il vostro lavoro dalle istituzioni con cui collaborate e dalla politica?

Ci sono due aspetti che rendono difficile accogliere i cambiamenti dal basso. Sicuramente ciascuno tende a rimanere sulle proprie posizioni per una generale mancanza di risorse che non permette di andare oltre il lavoro di tutti i giorni né di trovare il tempo per fare sintesi e collegare gli esperimenti che vengono fatti. L’altro punto caldo è la misurazione dei risultati, necessaria per poter testimoniare l’efficacia di alcuni processi. Una delle sfide rimane la valutazione delle esperienze per poterle definire “positive”. Un sistema più snello aiuterebbe nel sostenere il passaggio da proposta singola a pratica da poter replicare in altri contesti ed è proprio questo il passaggio intermedio necessario per arrivare poi alla politica. Nella nostra esperienza il dialogo e e le esperienze ci hanno consentito talvolta di avviare pratiche condivise, e questo ci fa ben sperare per il futuro, un FUTURO PROSSIMO.