Non siamo in lotta, ci stiamo curando: oltre la retorica della guerra al Coronavirus

Qualche anno fa ho lavorato alla ricerca di materiali storici per un documentario. Ho passato molte ore in biblioteca, in emeroteca, in parecchi archivi, anche. In emeroteca stavo seduta davanti a un lettore di microfilm e davanti mi scorrevano le riproduzioni di pagine e pagine di giornali, tenevo gli occhi agganciati ai titoli.

Mi capita, da allora, di provare a pensare a una mia ipotetica collega, fra trenta, quaranta o cinquant’anni, che si trovi davanti a un monitor a leggere i titoli di oggi. Che ritratto formeranno, una volta uniti insieme come i famosi puntini della Settimana enigmistica, del nostro tempo?

Probabilmente, se come me la mia futura collega si distrarrà un poco, percorrendo le prime pagine soprappensiero in cerca delle sole parole chiave che le interesseranno, quando scorrerà l’annata 2020 avrà la sensazione di sorvolare un’età di guerra. E invece starà guardando le testimonianze di una pandemia.

Il fatto è che, anche oggi che siamo del tutto immersi nella malattia – o meglio, nella coscienza della malattia – i titoli dei giornali, ma pure gli articoli stessi, non si sognano nemmeno lontanamente di lesinare sulle metafore belliche. Il lessico guerresco straborda dappertutto, sopravanzando quello medico, addomesticandolo a una retorica della lotta che, per quanto un po’ ridicola, sembra avere una sua efficacia. Il coprifuoco, la guerra al contagio; la stessa sigla del COVID-19, che sembra il nome di un’astronave aliena, nemica, che voglia collidere con il nostro pacifico pianeta. L’invasione del virus, l’attacco. La lotta.

Lotta al virus: medici di famiglia in trincea, leggo su la Nazione.
Su Repubblica: Asintomatici prima frontiera nella lotta al virus.
I vecchi italiani hanno voglia di vivere, tra sessualità e lotta al virus – forse il mio preferito, sul Riformista.
Merkel, riporta il Corriere, annuncia “quattro mesi di lotta”.
La Gazzetta di Mantova: Siamo alla seconda guerra. E nessuno sa quanto durerà.
Per Umbriadomani, tra Tanti contagi e nuove paure, sarà una guerra di trincea.

E questi sono solo i risultati di una ricerca superficiale, gli strilli che arrivano per primi. D’altro canto, quest’impiego roboante della metafora bellica per parlare di malattia non è certo una novità. È in effetti uno di quei casi in cui la retorica riesce a offrire una lettura della realtà incidentalmente efficace: è innegabile che di fronte al virus siamo tutti in effetti ‘minacciati’, ‘sotto attacco’, e che quindi in una certa misura siano necessarie, a livello sociale, clinico e pure politico, delle strategie mirate per rispondere a questa minaccia a cui nessuno è davvero immune, e che prende di mira il corpo sociale tanto quanto bersaglia i corpi singoli, i corpi degli individui.

D’altro canto, però, cascare davvero – letteralmente – nella rete retorica della metafora, in questo caso può essere rischioso; e non tanto (o meglio, non solo) perché vorrebbe dire accettare di essere in guerra quando in realtà non lo siamo, ed essere in guerra non è cosa da prendere alla leggera; ma soprattutto perché significherebbe perdere un’occasione utile a riformulare un discorso importante, sul corpo e la sua cura.

Il lessico guerresco straborda dappertutto, sopravanzando quello medico, addomesticandolo a una retorica della lotta che, per quanto un po’ ridicola, sembra avere una sua efficacia.

Per bizzarra eterogenesi dei fini, a offrirci questa occasione è proprio la pandemia che ci terrorizza con un terrore arcaico, immagazzinato nella nostra memoria genetica da secoli e secoli di malattie contagiose che inaspettatamente sono tornate a manifestarsi quando, non senza tracotanza, ci eravamo illusi di aver efficacemente nascosto – rimosso, forse, addirittura? – gli aspetti più imbarazzanti, vergognosi, angosciosi che riguardano la vita biologica, la vita del corpo.

Gli scarti di un gigantesco metabolismo capitalista – vecchiaia, povertà, malattia, morte: fuori tutti dal campo visivo. In rispetto a una sensibilità da non offendere, li abbiamo spostati ai margini della visione, come quei ‘contenuti indesiderati’ che bisogna volontariamente accettare di guardare.

Io per prima, ipocondriaca senza speranze che non tollera la vista del sangue, sono ben consapevole del mio atteggiamento ai limiti della nevrosi, ma anche del fatto di vivere in una società che mi ha concesso il privilegio – siamo sicuri, mi chiedo a volte, che davvero si tratti di privilegio? Non somiglia piuttosto all’educazione di Buddha, protetto nel suo palazzo, per tutta la giovinezza, dalle brutture della miseria e della biologia, che, al momento della scoperta, lo sconvolgeranno con il loro orrore? – di coltivarlo indisturbata per molti anni.

Anni passati a coprirmi gli occhi quando in un film si vede una siringa. Ma, appunto: sembrava, soltanto. Perché poi sono arrivate le immagini girate nei reparti di terapia intensiva, i camion pieni di morti a Bergamo. Tanto tenace la protezione dei paraocchi a cui crescendo la fortuna mi aveva avvezzata, che mi sembravano quasi irreali – come fossero parte di un allestimento contemporaneo dei Promessi sposi.

Noi siamo corpo, siamo il nostro corpo che è, anche, la nostra mente: e di quello che siamo dovremmo, potremmo, cogliere l’occasione di questo brutto periodo per imparare a prenderci cura, con attenzione, con sollecitudine.

E tutti, infatti, di corsa a leggersi Tucidide sulla peste di Atene, Camus, Manzoni. Tutti a cercare nella letteratura il conforto da un contagio che in quel modo, forse, sembrava meno reale, meno violento: la peste come metafora della violenza che si propaga, ci pare forse meno tremenda della peste come puro contagio.

E, poi, a permettermi, a permetterci, di continuare a mantenere se non proprio un velo, almeno un filtro d’irrealtà: l’utile metafora bellica, spalmata dappertutto. Non che ci sia niente di male, in fondo, a consolarsi con la letteratura o con le metafore: sennonché, quello che sempre più spesso penso è che così, oltre a ribaltare la drammatizzazione che dovrebbe proteggerci – non è peggio, dopotutto, più insensata e più spietata, una guerra, di una malattia? – perdiamo un’occasione dolorosa, ma preziosa.

In un saggio bellissimo per la chiarezza umanistica con cui si impegna a liberare il corpo dalle metafore “punitive o sentimentali” costruite intorno alla malattia, Susan Sontag, con la sua logica luminosa, demolisce l’immagine metaforica che si è impadronita del discorso sul cancro prima, e poi sull’Aids, presentandole sempre e solo come attacchi, invasioni del corpo, a cui rispondere con la lotta, con lo stato di emergenza, e con la guerra. L’idea di scrivere Malattia come metafora (1977), le venne, racconta nel saggio, quando si scoprì affetta da un cancro e ciò che la “irritò particolarmente, fu il constatare quanto la reputazione di questa malattia aumentasse la sofferenza di quelli che ne sono colpiti”.

Le sue parole, oggi, mi costringono a riflettere. Come quelle di Nanni Moretti, che qualche tempo fa, a proposito di un titolo di giornale che strillava la sua “lotta contro la malattia”, con eleganza ha sforbiciato via la retorica, e semplificando la questione ha fatto emergere la parola che in questo mare di metafore tendiamo a dimenticare, e a cui dovremmo invece aggrapparci saldamente per poter provare a parlare in modo libero, laico, illuminista, del corpo: “Io non stavo lottando contro niente. Mi stavo semplicemente curando.”

La parola che ci serve oggi, credo, è proprio questa, ‘cura’: ci serve tornare all’idea del curarsi, che significa tutto il contrario della lotta, o dell’assistere passivamente a una guerra: e ha a che fare invece con una sollecitudine attiva, con un impegno affettuoso e costante. Curarsi, lasciarsi curare, prendersi cura di sé e degli altri, potrebbero essere gli insegnamenti di questo periodo in cui non siamo in guerra, ma sentiamo, sì, l’urgenza di ripensare in altri termini al nostro corpo ‘rimosso’. Ricordandoci, magari, che il ginnasio prima di essere una scuola era una palestra: e che questo tempo potrebbe essere un buon tempo da abitare, corpo e mente insieme, per perfezionarsi, per accrescere la consapevolezza della propria umanità.

Cosa c’è di potenzialmente pericoloso, o meglio: di fuorviante, nell’idea della malattia come una guerra? Prima di tutto, l’idea che la vittoria o la sconfitta dipendano in qualche misura dal valore, dall’ardimento, dalla forza con cui si combatte. L’idea che guarire non sia l’esito di un combinarsi fortunato fra scienza, cura, e risposta del corpo, ma un atto di eroismo, ha come contraltare l’opposta assunzione che soccombere – “arrendersi” – alla malattia sia invece una sconfitta (“ha perso la sua battaglia”, “dopo una lunga lotta è stato vinto da…”, e altre agghiaccianti perifrasi per raccontare morti che seguono malattie, non sono solo di cattivo gusto, ma, prese alla lettera, vere e proprie aberrazioni). E che, quindi, la malattia sia uno stato di cui vergognarsi, qualcosa da nascondere agli occhi del mondo, anche solo per non essere chiamati a rendere conto della propria debolezza in caso di sconfitta.

Questo stigma pesa in maniera evidente sulle malattie mentali, ma non solo: penso a Febbre di Bazzi, che racconta l’HIV in un mondo distante decenni da quello di Sontag, ma in cui lo spettro della malattia incombe ancora come una lettera scarlatta. E nel contesto attuale, di un virus altamente contagioso, quest’idea della malattia come qualcosa di cui vergognarsi ha la doppia conseguenza sia di fomentare l’aggressiva caccia all’untore, che di incentivare le persone a tentare, per quanto possibile, di evitare di testarsi per il virus, o di divulgare la loro condizione, per risparmiarsi l’isolamento che deriva, sul piano metaforico ma anche su quello più immediatamente pratico (e, cosa grave, su quello sociale) dall’essere positivi al virus.

Da una parte, quindi, l’assurda, superstiziosa colpevolizzazione del malato. Dall’altro, l’idea di una sorta di estraneità del corpo: concepirlo come un territorio sotto attacco, infatti, significa indirettamente abbracciare l’antico pregiudizio che il corpo sia solo un involucro, un sacco di carne, una spoglia, ma che non sia, direttamente, ‘noi’. E invece, noi siamo corpo, siamo il nostro corpo che è, anche, la nostra mente: e di quello che siamo dovremmo, potremmo, cogliere l’occasione di questo brutto periodo per imparare a prenderci cura, con attenzione, con sollecitudine. Ricordandoci che il COVID non è una leva militare obbligatoria, ma potrebbe essere il ginnasio in cui ci educhiamo a rispettare i nostri corpi senza imbavagliarli di metafore.