Buon vivere, buon morire: trovare una cura di comunità per la necropolitica

Rimuovere il pensiero della morte è un meccanismo di difesa tra i più viscerali della psiche umana.

Comprensibilmente, rappresentarci il momento della fine, nostra o altrui, ci terrorizza. Nell’occidente contemporaneo, poi, dove la vita si è allungata e guerre e devastazioni sono a lungo parse più lontane di quanto fossero, la nostra relazione con la morte si è fatta più mediata, e la nostra capacità di elaborazione rituale forse meno adeguata di sempre.

Razionalmente, certo, prendiamo atto della realtà del morire, ne abbiamo preso atto in questi mesi. Ma emotivamente ci anestetizziamo, stabiliamo un distacco psicologico sufficiente alla nostra sopravvivenza. Alzi la mano chi, durante la quarantena, non si è sentito addosso il desiderio prepotente di cacciarsi via la pandemia dagli occhi e dalla testa, e di riempirseli con gli aspetti più sensuali del vivere. In Gran Bretagna, dove vivo da otto anni, sono settimane che il dibattito pubblico si concentra sul dettaglio degli interventi governativi, sulla politica economica del lockdown, sull’allentamento o meno delle misure di sicurezza.

Paradossalmente, l’esperienza stessa della morte è restata sullo sfondo.

Eppure per questa rimozione, per questa mancata elaborazione, si rischia di pagare un prezzo salatissimo. Tanto per cominciare, il nostro più che comprensibile meccanismo psicologico di difesa, l’umanissima tentazione a cacciare la testa sotto la sabbia come gli struzzi, nutre e sostiene un sistema, complesso e strisciante, di ingiustizie, gerarchie e disuguaglianze globali.

L’esperienza stessa della morte è restata sullo sfondo, per questa rimozione si rischia di pagare un prezzo salatissimo

Neppure le morti sono tutte uguali.

In Non al denaro non all’amore né al cielo, De André metteva in bocca ad un chimico solitario, morto isolato com’era vissuto, una domanda di un lirismo straziante: Voi che uscite all’amore/ Che cedete all’aprile/Cosa c’è di diverso nel vostro morire? Risposta: tutta la differenza del mondo.

Morire con intorno gli affetti, l’abbraccio e la cura della comunità, è un diritto naturale e un bisogno sacrosanto, sedimentato nei riti e nelle narrazioni di ogni tempo e geografia. Un diritto e un bisogno negati, oggi, a centinaia di migliaia di persone, perlopiù anziane, perlopiù economicamente e socialmente fragili, che si spengono in guardie COVID 19 senza conforto di visite.

Altrettanto vulnerabili sono alcune delle categorie maggiormente esposte al contagio, in forzata attività durante la quarantena e ora protagoniste dei piani di riapertura nelle ‘fasi 2’ di mezzo mondo: le lavoratrici e i lavoratori essenziali delle fabbriche, dell’agricoltura, nei settori delle consegne e delle costruzioni, nell’industria delle pulizie e della cura a domicilio.

Il filosofo camerunense Achille Mbembe chiama necro-politica sia il potere (sociale, istituzionale ed economico) di mettere a repentaglio la vita di un’intera classe o popolazione, sia chi lo detiene, e il coacervo di discorsi e di credenze che lo sorreggono. Mbembe ha in mente soprattutto colonizzazioni, guerre, biocidi – complicate catene di sfruttamento che, per garantire ad un popolo o ad una élite sopravvivenza e benessere, gettano l’incolumità di altri sul piatto della bilancia. Ma le sue riflessioni si adattano perfettamente anche agli eventi correnti: non tanto alla pandemia in sé, quanto a come, in risposta alla pandemia, le società si organizzano. O, se vogliamo, al combinato di mesi di coronavirus e secoli di ingiustizie sociali.

Alla base del concetto di necro-politica c’è, infatti, proprio la graduale, collettiva anestetizzazione alla morte

Alla base del concetto di necro-politica c’è, infatti, proprio la graduale, collettiva anestetizzazione alla morte. Dall’anestetizzazione alla de-umanizzazione, grande protagonista delle ineffabili tragedie della storia, il passo è tutto sommato breve. Se la morte non ci riguarda, la vita inizia a farsi meno che umana, meno che degna. Sacrificabile.

E gli schemi mentali e semantici che quotidianamente ingurgitiamo non aiutano. Pensiamo, ad esempio, al linguaggio (di matrice squisitamente neoliberista) che ci impone di chiamare gli esseri umani ‘risorse’. Risorsa la vita, risorsa la natura, il pianeta, tutte quantificabili, monetizzabili, sostituibili. C’è da sorprendersi che una vita di donna, o quella che pulsa in un corpo di un altro colore, che si arrampica su una impalcatura di cantiere, che batte dietro alle sbarre di una cella, perdano, appunto, di valore nella valutazione collettiva?

Ora, sempre in tema di linguaggio. Non so a voi, ma a me l’idea che per anni si sia permesso che della parola vita, della sua difesa, si appropriassero reazionari e liberticidi, nemici dei diritti riproduttivi in testa, manda su tutte le furie. Riprendiamocela. Come se l’è ripresa, oltre Manica, il movimento ecologista Extinction Rebellion, e come prima ancora, negli Stati Uniti, se ne sono riappropriati le attiviste e gli attivisti di Black Lives Matter, e in America Latina le femministe, soprattutto indigene.

Rivendichiamola, e abbiniamola ad un’altra parola d’ordine: diritto ad una morte dignitosa. Anche in questa battaglia, per la buona morte come inscindibile dalla buona vita, gruppi di laiche e laici coraggiosi sono stati a lungo lasciati soli.

Armiamoci di coraggio e della volontà di affrontare anche pensieri scomodi ed incertezze angosciose

Del resto, la difficoltà dell’Italia critica e progressista a formulare un discorso coerente sul tema, talmente imprescindibile da parer quasi triviale, della vita (compresi i suoi ultimi battiti), non è casuale. Pudori e timori ancestrali a parte, la riflessione che unisce i concetti di vita, persona e dignità è centrale nella tradizione cattolica, da secoli, a casa nostra, detentrice anche del discorso pubblico sulla morte. I movimenti di genere e per i diritti civili, lottando per l’autonomia dei corpi e delle anime da ogni chiesa, da quel vocabolario prendono, legittimamente, le distanze. Lo stesso dicasi per larghe parti dei movimenti sociali e dei lavoratori, storicamente concentrati sul trinomio lavoro, capitale, sfruttamento.

Eppure, il ragionamento su vita e cura, come chiavi di volta di una prospettiva alternativa alla violenza patriarcale e capitalista, è un pilastro del pensiero femminista, e un essenziale punto di (ri-)partenza. Eppure, in alcune elaborazioni marxiste, e soprattutto (post-)operaiste, il lavoro nasce proprio dal processo di valorizzazione della vita: è, in ultima analisi, della vita altrui che si appropria chi il lavoro lo sfrutta.

Perché battersi, realmente, per la vita significa riconoscere esplicitamente l’interconnessione delle nostre esistenze, e ammettere che senza cura reciproca, collettiva, della comunità e dell’ambiente, non c’è forma di vita che resista. Quest’opera di cura, in una prospettiva ecologica, femminista ed egalitaria, può e deve abbracciare ogni momento dell’esistenza, inclusi quelli finali. E richiede lavoro costante, da valorizzare e ripartirsi equamente, ed investimenti nel senso più ampio del termine.

E allora mentre rivediamo le nostre priorità distorte, mentre il coronavirus ci spinge (si spera) ad interrogare i paradigmi dominanti nella società, armiamoci di coraggio e della volontà di affrontare anche pensieri scomodi ed incertezze angosciose. Abbiamo, oggi, l’opportunità di rivalutare sia la vita che la cura, in tutte le sue forme. Di scuse, e di sabbia per continuare ad imitare gli struzzi, invece non ne restano più.


L’autrice ringrazia Elisabetta Brighi, Chiara De Santis, Tiziano Distefano, Ilaria Giugni, Mauro Pinto ed Antonio Rotelli per gli spunti confluiti in questo pezzo.