Gli inquieti guardasala, da Safe and Sound di Aldo Giannotti al MaMbo di Bologna

Seduto su un treno regionale, un paio di giorni dopo la visita alla mostra di Aldo Giannotti al museo MAMbo di Bologna, scopro su Instagram la foto di una pagina de L’ultimo approdo, libro di Hisham Matar. Vale la pena trascrivere un passaggio, non solo perché in quelle righe viene ricomposta la traccia di un ragionamento che ciascuno di noi avrà fatto qualche volta passeggiando in un museo, ma perché ciò che Matar scrive, con grande calma e precisione, potrebbe essere un esergo ideale alla mostra di Giannotti. Il titolo del capitolo è Le custodi del museo: 

«Le sale della pinacoteca erano perlopiù vuote […] L’unica presenza stabile erano i custodi del museo. Erano quasi tutte donne e sembravano condividere qualcosa di sostanziale, come se fossero parte dello stesso stato mentale, unite dallo stesso filo emotivo. Può darsi che sia la loro solitudine a farle sembrare così, o forse tutti i custodi dei musei, a prescindere da quanto siano frequentate le sale, sentono di essere soli, in piedi o seduti, di solito su una soglia, passando le loro giornate lavorative a osservare sale che si svuotano costantemente, dove la gente arriva e quasi subito prosegue per vedere qualcos’altro, o per andare a pranzo, o semplicemente per riprendere la propria vita. Non si ha del resto l’impressione che queste figure, in tutti i musei del mondo, condividano lo stesso segreto rammarico, come se fossero state deluse da tutti noi?».

Aldo Giannotti vive e lavora a Vienna da quasi vent’anni. Safe and sound, curata da Lorenzo Balbi, è la sua prima mostra antologica in un’istituzione italiana (fino al 5 settembre). Alle pareti del MAMbo sono appese le foto che documentano alcuni progetti realizzati in passato: la volta nel 2008 in cui Giannotti e un secondo artista, Stefano Giuriati, girarono tra Belgio, Italia e Germania in uniforme da carabiniere, guidando una vecchia Giulietta dei carabinieri; lo scatto in cui la mamma dell’artista è appesa a testa ingiù e mostra un cartello con scritto «WOW», cioè un «MOM» capovolto; la semplice pedana bianca di Italian square, montata in diverse occasioni, sulla quale alcuni italiani residenti a Vienna o altrove sono stati invitati a salire per conversare, incontrarsi, mangiare, bere un bicchiere e ripetere quei riti sociali tradizionalmente attribuiti all’agorà e allo spazio pubblico delle città italiane. Giannotti trasforma chi gli sta di fronte in un interlocutore. Per esempio, nella conversazione con

Lorenzo Balbi che apre il catalogo, è Giannotti a fare le domande al curatore: «Which artists would you choose as influences and references for my work?». Torniamo ai custodi museali di cui scrive Hisham Matar. Giannotti entra nelle ampie sale del MAMbo, candide come il deserto africano di El Beyda o le dune di Porto Pino in Sardegna. Dopo aver movimentato lo spazio con nuove soluzioni, dopo aver costruito le rampe di una nuova scala in metallo tra primo e secondo piano, immagina di poter coinvolgere nella mostra chi tra quelle pareti vive e trascorre parte del proprio tempo: i guardasala. Tra l’artista e i guardasala nasce un dialogo, un rapporto, che si concretizza nella stesura di un manualetto illustrato, The museum score. In quel manuale da sfogliare, tra vignette e frasi stampate in corpo venti come card di Facebook, i guardasala possono scegliere tra un repertorio di possibili azioni e gesti da compiere e poi di locuzioni e formule utili a interagire con i visitatori. Per esempio la frase «Le dispiacerebbe prendere il mio posto per cinque minuti?», con la quale il guardasala si allontana, magari in bagno o a fare una telefonata, e viene temporaneamente sostituito da un visitatore. 

I guardasala, grazie a una riacquistata libertà di movimento ed espressione, entrano a far parte del progetto espositivo e si liberano da quella «solitudine» e da quel «segreto rammarico» di cui parla Matar. Può capitare di trovare un guardasala seduto a gambe larghe per terra, di sentirlo cantare o di vederlo rovesciare la seggiolina di plastica sulla quale di solito siede per ore. Non scompare quel tratto enigmatico che si coglie anche nelle foto che ritraggono i guardasala del Castello di Rivoli, con le uniformi disegnate da Alessandro Michele di Gucci, ma in questo secondo caso i guardasala sembrano individui svuotati, usati, passivi, mentre la divisa verde salvia e lo shooting di Gucci evocano le foto scattate nei corridoi manicomiali di un tempo. 

Ho chiesto ad alcuni dei guardasala del MAMbo se era possibile fare una chiacchierata, così ne ho approfittato per chiedergli di raccontare chi sono, qual è la loro storia professionale, il loro rapporto con l’arte e qual è stata l’esperienza vissuta con Safe and sound.    

Ivich. Sono nata a Rotterdam, ho una laurea in Studi Europei, conseguita alla Facoltà di Lettere dell’Università di Amsterdam. Nel 1998 mi sono trasferita a Bologna, ospite di un’amica. In poco tempo ho trovato un lavoro come traduttrice. Poi, dopo un breve periodo di tirocinio nel settore della consulenza, ho iniziato a lavorare come assistente di ricerca economica e sociale sul lavoro, per conto di un istituto della Regione Emilia-Romagna. Negli anni successivi sono stata assistente di direzione nel settore della ricerca agricola. Entrambi gli istituti subirono una riorganizzazione e a quel punto decisi di frequentare un corso regionale per operatore turistico, dopodichè, nel 2007, ho iniziato a lavorare al MAMbo. Una cooperativa cercava persone laureate e con le mie caratteristiche. Avevo appena finito di frequentare il corso. Eravamo una bella squadra.

Da circa sei anni svolgo la mansione di guardasala. Controllo i biglietti, custodisco gli spazi espositivi e le opere d’arte, accolgo i visitatori, fornisco informazioni sul percorso espositivo, sulle opere, sui servizi e sulle attività del museo. È un ruolo che non richiede particolari competenze, se non la conoscenza delle lingue e la capacità di prestare attenzione alle persone. È un lavoro piuttosto statico, passivo e noioso. Non è facile passare il tempo. Le giornate sembrano non finire mai, specie quando ci sono pochi visitatori. Quando riesco a essere d’aiuto, quando mi chiedono informazioni, per me è un sollievo. Mi mancano la socialità, l’azione, l’interazione con il pubblico, il lavoro in squadra.

Nell’inverno del 2020 la direzione mi ha chiesto di partecipare al progetto di un nuovo artista, cioè Giannotti. Aldo cercava un guardasala disponibile per un’intervista. La direzione aveva pensato a me, dato che lavoro al MAMbo fin dall’apertura. È stato un onore. Ho ricevuto le domande. Mi sono sembrate molto particolari e ho capito che si trattava di un progetto speciale. 

Ora sono una performer e svolgo un ruolo attivo nella mostra. Essere coinvolta è una bellissima opportunità. Come performer si diventa protagonisti dell’esposizione. Siamo essenziali al funzionamento della mostra. Ne siamo parte integrante. I visitatori vivono la mostra anche grazie alla nostra presenza. È bello poter suscitare delle emozioni, creare un contatto grazie alla forza dello sguardo, ai movimenti e alla parola. Le persone restano sorprese, divertite, a volte intimorite.

Giacomo. Ho 33 anni e sono cresciuto nella provincia marchigiana. Ho preso la triennale in Lettere Moderne a Urbino. In seguito mi sono trasferito a Bologna, dove vivo da 5 anni. Oltre ad aver svolto vari lavori, ho frequentato un paio di corsi nel settore HR e un biennio di sceneggiatura per fumetto presso The Sign Academy di Firenze. Per un po’ ho diviso la mia vita tra Bologna e Firenze: stressante, ma molto stimolante. Ho collaborato con collettivi e piccole case editrici di fumetto, poi la pandemia ha cambiato tutto. Attualmente lavoro come Addetto ai Servizi Museali per la mostra di Giannotti al MAMbo.  

La mia storia di guardasala semplicemente non esiste. Questo è il mio primo incarico, anche se non si tratta propriamente di un ruolo da guardasala, ma più da performer. Però ho avuto occasione di osservare il lavoro dei guardasala presso la collezione permanente del MAMbo. Ecco, mi sembra un mestiere difficile, diverso dalla vita del magazziniere che si spacca la schiena o dal ricercatore che studia dodici ore al giorno; qui la difficoltà sta nel tempo che non passa. Quando sei costretto a controllare un luogo, senza poter interagire, i minuti diventano ore. Non so come si possa riuscire a fare a lungo questo mestiere, ma immagino che ci sia bisogno di un grande equilibrio psicologico. Non credo che il privilegio di lavorare in un museo possa compensare la noia, anche perché non hai un ruolo attivo e concreto di guida o mediatore, ma si tratta di scambiare giusto poche informazioni. Penso sia indispensabile instaurare un rapporto positivo con i propri colleghi ed essere propositivi e disposti a prendersi maggiori responsabilità, in modo da poter diversificare il lavoro.

Per quanto riguarda la mostra di Aldo… Inizialmente ero un po’ titubante rispetto a un esperimento che mi poneva fuori dalla mia zona di comfort, visto che di fatto si trattava di mettersi in gioco e di calarsi nei panni di un personaggio e interpretarlo, cosa che non mi è mai capitato di fare e verso la quale non ho nemmeno un’attitudine naturale. Però poi ho pensato che avrebbe potuto essere un’esperienza molto formativa, anche grazie al contatto con le altre figure professionali coinvolte. 

Mi ci è voluto un po’ per capire la mostra di Aldo. Da principio non sono rimasto particolarmente colpito. Ho iniziato a cambiare idea ascoltando le impressioni e le interpretazioni dei colleghi e anche osservando le reazioni entusiaste dei visitatori. C’è una piccola stanza, la mia preferita, in cui viene proiettato su una parete un video che mostra una folla di fronte a uno spettacolo pirotecnico a Valencia. In quella stanza c’è un’atmosfera incredibile: le pareti sono ricoperte da materiale insonorizzato nero, il pavimento da uno strato morbido di moquette. Nei momenti tranquilli mi piazzo lì, mi godo l’intimità della stanza e osservo ogni singola persona, o coppia o gruppi di persone che assistono allo spettacolo dei fuochi; mi piace guardare le reazioni, le interazioni, immaginare che cosa si stanno dicendo. C’è anche una diatriba con una collega su un possibile romance tra due adolescenti: lei sostiene che lui non è interessato alle attenzioni della ragazza, ma secondo me fa solo il prezioso.       

Il mio rapporto con musei, gallerie e spazi dedicati all’arte è quello del curioso e del fruitore occasionale. Amo tanto i musei archeologici quanto l’arte contemporanea che riesce a spiazzarmi.
Le mie passioni più grandi sono invece legate al libro, al fumetto e all’audiovisivo. Un artista che amo particolarmente è Gipi, per il fatto che alterna acquarelli meravigliosi a uno stile di disegno volutamente brutto, per come dà voce ai personaggi, per i suoi tormenti e anche per l’onestà dimostrata in alcune interviste, quando dice di sentirsi ormai un borghese.

Clio. Sono nata a Bologna e ho studiato Nouveau Cirque e tecniche della drammaturgia contemporanea. Lavoro in teatro come attrice e acrobata, insegno acrobatica aerea, scrivo, leggo, dipingo. Ho sempre odiato presentarmi. Credo che la conoscenza sia migliore quando è agita ed esperita, altrimenti mi sento in imbarazzo e non riesco a descrivere chi sono, senza giudicarmi troppo o troppo poco. Inoltre, mi sono sempre chiesta il motivo per il quale tendiamo a definirci attraverso la nostra professione, a scapito di altro. Sul mio conto posso dire che sono curiosa, che mi piace osservare e poi entrare in contatto con gli altri. M’interessano l’espressività corporea e la comunicazione non verbale. Sono affascinata dalla psicologia e dalle profondità interiori, buie e luminose. Penso che l’essere umano sia un animale strano, affascinante, quanto cattivo e alle volte incomprensibile.

Sono arrivata al MAMbo come volontaria. Avevo il desiderio di mettermi a servizio di un luogo che ho sempre considerato uno spazio di pace, riflessione, condivisione e cultura. Prima di questa esperienza mi sono sempre detta, tra me e me: «se fossi una guardasala studierei le opere del Museo, mi avvicinerei ai visitatori per dare informazioni e cercherei di conoscere il loro punto di vista». Da visitatrice, quando ho ricevuto questa attenzione l’ho molto apprezzata, quando non l’ho ricevuta mi è mancata. Credo che per molti sia un lavoro monotono. A volte i guardasala sono visibilmente annoiati, ma credo pure che la differenza la facciano sempre le persone e mai quello che ci si trova a fare.

Per la mostra di Aldo mi è stato dato un libretto, The museum score, dove potevo scegliere tra una quantità di azioni da compiere e di possibili frasi da utilizzare nel rapporto con i visitatori. Mi diverto a osservare le facce stupite dei visitatori, mi stimolano le interazioni che abbiamo con loro. La vera sfida è cercare di creare l’atmosfera giusta.

Safe and Sound offre la possibilità di porsi una domanda: cosa posso fare della mia libertà e come posso usarla nel caso avessi voglia di farlo? Non c’è un percorso stabilito. La cosa straordinaria però è l’atmosfera e il livello di attenzione e cura. Sono felice di far parte del lavoro, di qualcosa che funziona nella sua coralità.

Della mostra mi ha colpito in particolare un’opera, Things that hurt me (si tratta di una grande parete disegnata da Giannotti, Ndr). Ha risvegliato tutta una serie di ricordi personali, così mi sono ritrovata a pensare che ci sono cose che hanno ferito me ed altri allo stesso modo, che nessuna cosa che ferisce può essere considerata più o meno grave, più o meno importante. Quella cosa ferisce, punto.

Mia mamma ha sempre dipinto, mi raccontava le storie degli artisti e mi portava a guardare la natura. Mia nonna invece era un’appassionata di opera lirica, musica e teatro. Questa presenza dell’arte nelle nostre vite ha sempre fatto parte delle esperienze familiari migliori. L’amore per l’arte non si è mai affievolito, anzi sento la necessità di nutrirmene per far funzionare meglio lo spirito. Di fronte a un’opera d’arte di solito mi chiedo: che cosa sento? Mi muove qualcosa? Mi comunica qualcosa? Poi parto in turismi interiori complicatissimi, che alle volte mi fanno diventare matta. L’arte è una risorsa e una fonte d’ispirazione inesauribile. 

Tommaso. Ho 31 anni. Dopo una laurea in Lettere all’Università di Pisa sono approdato a Bologna, dove ho scelto di intraprendere un percorso di formazione attoriale alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone.

Essendo un attore, quello del guardasala è per me un mestiere nuovo. Ho fatto diversi lavori a contatto con il pubblico, dal cameriere al fattorino e alla sicurezza nei locali, ma in questo caso c’è un rapporto diverso con la dimensione temporale. Ascoltando i racconti di colleghi e colleghe con più esperienza, so che il tempo tende a passare lentamente e che c’è molto spazio per pensare e poco per interagire, dato che solitamente in un museo deve regnare il silenzio.

Di Safe and sound sono stato da subito entusiasta, dato che il tipo d’impegno richiesto chiamava in causa tutta una serie di competenze per le quali ero già formato, visto il mio percorso: l’interazione, spesso ironica ed enigmatica, con i/le visitatori/trici; la possibilità di usare il corpo come mezzo di espressione, ad esempio assumendo inusuali posizioni nello spazio della mostra; un forte accento sull’energia, ovvero sul mantenere uno stato mentale e fisico, che, insieme alle colleghe e ai colleghi, riuscisse a creare quell’atmosfera «storta», straniante ma accogliente, che è uno degli obiettivi del lavoro di Aldo, mi permetto di dire. Mi ha colpito il fatto che questo progetto parli di vicinanza e lontananza, sicurezza e libertà; è un progetto ironico, ci fa sentire tutti più piccoli e perciò uguali e uniti. Il visitatore è portato a mettersi in gioco, a partecipare, a comunicare. Ed è molto bello vedere la reazione delle persone alle nostre provocazioni: c’è voglia di comunicare e giocare.

Sono sempre stato un grande appassionato di cinema, mentre da piccolo andavo matto per i fumetti e il disegno. Negli ultimi anni mi sono avvicinato al teatro, mentre la musica c’è sempre stata. Con la storia dell’arte ho invece un rapporto conflittuale, forse anche perché mia madre è insegnante di storia dell’arte, e non posso certo definirmi competente. Se c’è però un’arte che mi accende più di tutte, questa è sicuramente l’arte comica, intesa in senso lato, quindi l’arte di far ridere, che si interseca con tutti i linguaggi possibili. Nella mia famiglia si è sempre riso tanto, e quindi fin da piccolo ho visto la risata come un modo di comunicare con gli altri. Ridendo ho imparato molte delle (poche) cose che so.