Possiamo usare il Tai Chi per disinnescare la guerra culturale sui social?

Qualche settimana fa ho avuto l’occasione di leggere un saggio pubblicato nel settembre del 2018 su wwwtf, una raccolta Medium che dichiara di raccogliere “stories about logging on (and off)”, selezionate dagli editori della piattaforma. Il saggio di intitola The Memetic Tribes Of Culture Wars 2.0, è firmato da Peter Limberg e Conor Barnes ed è un articolato tentativo di tracciare il panorama, ricostruire la storia, mappare i partecipanti e proporre una base di trattativa per mettere fine alle guerre culturali che imperversano attualmente sul web.

Pur non essendo esente da critiche – che qui non tratterò in modo approfondito, dato che non hanno strettamente a che fare con l’obiettivo di questo articolo – ho trovato che il saggio costituisse un ottimo riferimento da prendere per approfondire alcune riflessioni sul modo in cui è strutturato attualmente il nostro rapporto con la rete e le altre persone che la abitano.

Particolarmente convincente è la parte del saggio che i due autori dedicano alla ricostruzione delle sei crisi, ovvero delle condizioni che hanno origine dall’ambiente oppositivo in cui proliferano le tribù memetiche. Quest’ultime sono definite come soggetti collettivi multitudinari, irritabili, privi di scrupoli, ottimisti e pronti a dividere il mondo in alleati e nemici. Soggetti impegnati in una guerra darwinianana a somma zero per definire la narrativa dominante della noosfera, la sfera che definisce i confini del pensiero umano.

La prima delle sei crisi è la crisi del significato, un fenomeno collegato alla secolarizzazione della società. Questo processo ha indebolito l’autorità religiosa e, con essa, l’impalcatura di significato che garantiva alla società. Nella crisi di senso che stiamo attraversando, le tribù memetiche si offrono come sostituti in competizione costante tra di loro per soddisfare il desiderio e il bisogno di senso che attraversa la società e i suoi componenti.

Quella della realtà è la seconda crisi individuata dagli autori. I nostri dispositivi di riconoscimento dei fatti e narrazione della realtà, dicono gli autori, appaiono frammentati in una miriade di punti di vista che sono la diretta conseguenza della proliferazione e dell’abbassamento delle barriere all’ingresso nella produzione mediale. L’avvento di internet come tessuto connettivo globale ha avuto come effetto quello di elevare lsa condizione postmoderna come nostro principale stato di esistenza. In questo panorama, caratterizzato da interpretazioni diverse e in conflitto tra loro, è la nozione stessa di realtà come spazio di esperienza condiviso ad andare in crisi.

La terza crisi è una crisi di appartenenza, esito diretto dell’atomizzazione sociale che tende a farci percepire sempre di più come individui che non fanno parte di un insieme più grande in grado di ricomporci. Le tribù memetiche, coi loro codici e pratiche condivise, rappresentano una risposta al bisogno di appartenenza.

La globalizzazione introduce la quarta crisi, la crisi di prossimità. Anche in questo caso si tratta di una crisi che è conseguenza del modo in cui si è sviluppato il panorama dei media in cui siamo immersi. L’annullamento delle distanze spaziali, reso possibile dalla comunicazione digitale istantanea, genera una costante esposizione delle nostre sfere private. Queste oggi sono apertamente disponibili, con tutte le loro “bruttezze”, a chiunque ci stia intorno senza alcuno steccato, senza spazi di mediazione possibile.

La nostra condizione di esistenza nel regime di visibilità della rete, una condizione di trasparenza e illuminazione totale, trasforma ogni gesto che compiamo al suo interno in una performance teatrale. Ogni singola performance esclude tutte le altre che le vengono eseguite accanto e finisce perciò per farci assumere ogni giorno di più delle posture belliche nei confronti delle persone che ci circondano.

Strettamente legata alla quarta crisi è la quinta, la crisi di sobrietà. Questa è legata alla quantità di stimoli a cui siamo sottoposti. Internet e i social in particolare si basano su meccanismi sensomotori di stimolo e risposta. L’esposizione della nostra sfera privata si collega così a meccaniche quantificabili di ricompensa immediata. Queste stimolano un coinvolgimento compulsivo che alimenta il dispositivo e ci lega a esso, esponendoci ai più diversi apparati di cattura della nostra attenzione.

L’ultima delle crisi è una crisi dal carattere bellico. Nasce dalla militarizzazione progressiva di ogni aspetto della nostra vita.

Più partecipiamo al gioco performativo dei social, più diventiamo attori dei conflitti culturali in corso

Questa ha origine nella dimensione invisibile e onnipresente che la guerra assume quando accede allo spazio cibernetico come campo che individua tutto ciò che accade al di fuori dei nostri sensi. All’interno di questo campo di forze, la mente delle persone diventa un’arma che può essere orientata verso obiettivi strategici attraverso operazioni di guerra informativa. Operazioni che consistono soprattutto nella diffusione di materiale memetico, che sfrutta le crisi di senso e di realtà per influenzare quest’ultima attraverso un l’inoculazione di un caos controllato.

Sono queste, per Limberg e Barnes, le condizioni da cui scaturiscono le guerre culturali e, tirando le fila della loro esposizione, appare chiaro come il nostro coinvolgimento in esse sia direttamente proporzionale alla quantità di tempo che investiamo nell’interagire attivamente su Facebook.

Più partecipiamo al gioco performativo dei social, più diventiamo attori dei conflitti culturali in corso. Essere consapevoli di quali sono le nostre condizioni di esistenza all’interno del dispositivo dovrebbe toglierci qualsiasi alibi o falso moralismo.

Il momento in cui decidiamo di entrare nel cono di illuminazione che ci rende visibili agli altri come soggetto dall’identità digitalmente costruita, quello è il momento in cui costruiamo la gogna all’interno di cui esponiamo noi stessi e che, al tempo stesso, ci permette di cominciare a competere per l’attenzione e i segnali con cui gli altri partecipanti alla rappresentazione certificano il successo o il fallimento della nostra opera.

È evidente a chiunque vi abbia preso parte, che questo è un meccanismo estenuante, capace di dragare fino all’esaurimento le nostre risorse fisiche e mentale. Ciononostante, se decidiamo di prendere parte al gioco, non ci è concesso lamentarci delle sue regole. Non si può venire messi alla gogna, quando la gogna è la condizione volontaria di partecipazione.

Si può, invece, scegliere di non partecipare, di fare un passo indietro e ritirarsi dal campo di battaglia. “Stare sui social oggi è una necessità non solo personale, ma anche professionale” è la scusa più comune che viene opposta a questo argomento. Ma provate a chiedere a uno qualsiasi dei vostri amici che ha scelto di chiudere il proprio profilo Facebook o di ridurre drasticamente la sua partecipazione al conflitto culturale in corso.

Sono convinto che vi risponderà che la sua vita personale e professionale non ha subito alcun contraccolpo e che la sensazione d’impellenza, l’urgenza che un tempo avevano per lui le schermaglie digitali si sono fatte ben presto inconsistenti e vaghe come il ricordo di un sogno che vi tremola davanti agli occhi nel dormiveglia, prima di venire dimenticato.

Oppure si può ricorrere al tai chi. L’intuizione è di Antonio, uno dei miei contatti social, e la riprendo perché trovo che in questo caso sia straordinariamente produttiva. “Il Tai Chi” dice Antonio “è molte cose. È una forma di ginnastica e di meditazione, ma è soprattutto un’arte marziale. Se cercate di colpire un maestro di Tai Chi, succede una cosa molto semplice. Succede che lui non c’è. Cioè, naturalmente è lì davanti a voi, lo vedete, a pochi centimetri da voi. Non può sfuggirvi. Eppure se cercate di colpirlo vi ritrovate a cadere dolorosamente nel vuoto. È come combattere con l’acqua. Anzi, è come essere vittime dei vostri stessi colpi.

Perché più forza metterete, più sarete voi a farvi male. Fino a rompervi le ossa. A differenza di altre arti marziali, il Tai Chi non insegna ad aggredire. È una pratica ideata da pacifici monaci che perseguivano la luce e che, per pura sopravvivenza, hanno affinato delle tecniche per difendersi dalle aggressioni. L’aggressione era sbagliata, per loro. Era il buio, il male, la negatività. Per questo, chi ha inventato e perfezionato nei secoli questa disciplina è riuscito a rendere una forma di “luce” anche la lotta. Perché, se si pratica il Tai Chi, a farsi male è sempre chi aggredisce. Più è disonesto l’aggressore, più cade senza dignità. Più è violento, più si fa male.”

Ecco, il Tai Chi mi pare offra un buon insegnamento a chi si pone il problema di come ritirarsi dal campo di battaglia su cui infuriano le guerre culturali, senza per questo arrendersi alla violenza dell’aggressore. Non opporglisi con uguale violenza, ma sottrarsi alla sua provocazione, essere fluidi come acqua e averne, allo stesso tempo, la medesima forza. Pazienza se il vostro avversario, vedendovi schivare sempre il suo colpo, penserà che siete dei vili, dei vigliacchi che rifuggono la lotta. La competizione per il dominio è esattamente l’atteggiamento che volete lasciarvi alle spalle. Farlo è tutt’altro che facile. Richiede disciplina della mente e controllo del corpo. Ma se accettata, la fatica può valere la pena. Io, purtroppo, non ci sono ancora riuscito…

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