Le persone, gli spazi e il senso della città. Intervista a Federica Verona

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Da 5 anni cheFare cura un programma di incontri sulla trasformazione culturale al festival mantovano FattiCult (Fattidicultura). Quest’anno – dopo un incontro sui mestieri della cultura con un centinaio di ragazzi delle scuole superiori – abbiamo riunito attorno ad un tavolo tre figure eterogenee per riflettere sul rapporto tra spazi, rigenerazione urbana e cultura: l’architetto e attivista milanese Federica Verona, l’urbanista e film-maker berlinese Lorenzo Tripodi e l’artista nomade Riccardo Arena. Perché questa scelta? Negli ultimi anni il dibattito sul senso politico, sociale e culturale della rigenerazione urbana si è fatto sempre più esteso ed approfondito. Secondo noi di cheFare è urgente iniziare a guardare ai grandi processi di trasformazione urbana anche con occhi diversi da quelli dell’urbanistica, della sociologia e dell’economia. Per questo ci siamo rivolti a tre sguardi diversi e trasversali che si interrogano sul senso dei luoghi e su come questo cambia al mutare della città.

Questa è la prima di una serie di brevi interviste in cui esploriamo alcuni degli aspetti toccati nei loro interventi. Federica Verona da 15 anni interroga Milano tra progettazione e ricerca negli ambiti dell’housing sociale, dell’homelessness e del rapporto città/periferie; proprio in questi giorni si tiene Super, il festival “lento” delle periferie a Milano.


La tua esperienza integra pratiche di critica urbanistica, progettazione per il sociale e attivismo urbano. Quali sono i tratti comuni del tuo percorso?

Quello che a me interessa profondamente in ciò che faccio, e che poi di conseguenza diventa un tratto comune in ogni lavoro, sono le persone. Mi interessa indagarne l’umanità, osservarne le normalità straordinarie, provare a tirare fuori dal capitale umano delle risorse, delle bellezze non comuni. Mi interessa osservare il modo in cui usano lo spazio, se ne appropriano, lo modificano, lo inventano. Per questo in particolare mi incuriosisce il mondo dell’homelessness, dell’abitare difficile e la dimensione della vita nei quartieri periferici. Sono architetto di formazione ma non progetto le case, faccio la project manager, la coordinatrice, cerco di guardare alla progettazione come un sistema complesso fatto di molti e articolati ruoli. Tenerli insieme e farli parlare è il mio lavoro.

Credi che ci sia un filo comune che ci dice qualcosa su come stanno cambiando le professioni che indagano il senso della città?

Credo che questo sia un momento interessante per mettere in discussione il ruolo di un’unica professionalità nei progetti. Una casa non la fa solo l’architetto ma la fanno i costruttori, gli operai, gli avvocati, gli uffici comunali, gli abitanti… C’è una complessità enorme nei lavori di oggi e sempre di più, se si pensa la città, c’è bisogno di figure con competenze diverse.
Penso anche che – e l’esperienza di Super il festival delle periferie me lo ha insegnato bene – lavorare con gli altri permetta di mettersi in discussione, demolire certezze, ricominciare a pensare sempre senza smettere mai. Super, se lo avessi fatto da sola, non sarebbe quel che è oggi e riunire un gruppo, scegliendo persone che prima non avevano mai lavorato insieme, ha arricchito in maniera fondamentale il progetto e lo scambio. Quando poi abbiamo lavorato con le 160 realtà del territorio che abbiamo incontrato durante i 23 tour, abbiamo imparato molto, mettendo in discussione le nostre competenze, le nostre formazioni confrontandole con il territorio.
E’ anche vero però che, più in generale, se da un lato c’è la consapevolezza che sia importante, oggi, mettere più competenze in campo, dall’altro si rischia la frammentazione perché per costruirsi dei ruoli nelle nuove professionalità c’è bisogno di tempo e il rischio è che in molti ci si occupi delle stesse cose senza collaborare, mettendosi in competizione. Su questo c’è molto lavoro da fare ancora.

E’ veramente possibile progettare il senso degli spazi? O far si che gli spazi diventino luoghi?

E’ molto più importante costruire il senso man mano, con chi quegli spazi li usa. Uno spazio diventa luogo quando le comunità se lo prendono. E’ difficile progettare un luogo immaginandolo vivo. Non basta una sala comune carina perché gli abitanti la usino al di fuori delle assemblee di condominio, non basta progettare una piazza perché le comunità la utilizzino. Il senso degli spazi scaturisce dalle necessità di chi li abita. Se quei luoghi, a volte anche casualmente, rispondo per alcune caratteristiche a delle urgenze, allora saranno vissuti. Certo la qualità della progettazione è importante, ma se non ci sono percorsi di identificazione del bisogno nel pre-progettazione, allora diventa difficile vedere quei luoghi utilizzati al pieno del loro potenziale.
Le comunità reinventano luoghi, reinventano regole per utilizzare quei luoghi. Imparare da questo, piuttosto che imporre soluzioni dall’alto, è davvero interessante.


Foto di Andrea Basile