Sono un editor letterario, e falegname — uso la stessa logica manuale per entrambi

Nella vita faccio l’editor. Passo le mie giornate tra i libri, li leggo, li scelgo, li correggo, accompagno i loro autori nel percorso dal manoscritto alla stampa, e molto altro che ruota intorno alla parola scritta. Tutte cose che non implicano alcuna forza fisica, alcuna manualità. Un lavoro per lo più sedentario, a contatto con il genio artistico, nel quale mi identifico e mi identificano: sono “un uomo di lettere”, si sarebbe detto una volta.

Nel tempo libero, però, appena posso svesto i panni dell’editor e mi infilo una vecchia felpa, salgo nella soffitta di casa e mi dedico a lavori di falegnameria. Costruisco mobili, scarpiere, sgabelli, soprattutto sedie. L’ho fatto spesso anche durante questa surreale quarantena, per scappare dall’angoscia dei bollettini medici e della caccia all’untore.

Ogni volta sparisco per ore e, quando ricompaio, ho le dita impiastricciate di colla, qualche nuovo taglio sui polpastrelli, schegge di legno e segatura nella barba. Mi sento stanco, sudato, sporco… ma felice. Quando lo racconto, c’è sempre qualcuno che commenta: «Fai bene, stacchi un po’ la testa!».

Al principio anche io la pensavo così. Mi ritaglio un tempo diverso, mi dicevo, stacco la testa. Mi isolo nel mio laboratorio improvvisato, lontano da tutto, al riparo dagli aspiranti scrittori, dagli agenti letterari, dagli obiettivi di budget da centrare entro la fine dell’anno. Non che fossi troppo distante dalla verità, perché certamente di sollievo ne ho ricavato molto, ma su una cosa sbagliavo alla grande: che per piantare un chiodo o giuntare due tavole di abete bastassero un po’ di tecnica e di muscoli – peraltro non esattamente le mie doti migliori – e si potesse evitare di pensare.

Prendi una sedia, per esempio, una di quelle semplici, da osteria: quattro gambe, una seduta, uno schienale. Facile, no? Beh, mica tanto. Prova a costruirne una senza averne preventivamente studiate un certo numero, senza aver schizzato un progetto sulla carta millimetrata. La prima volta si spezzeranno le gambe, la seconda soqquadrerà appena ti ci siedi sopra, la terza ti renderai conto che è tremendamente scomoda.

Una miriade di piccoli e grandi problemi ti si presenteranno davanti: dalla scelta del legno (l’abete è facile da lavorare ma troppo morbido, il faggio è resistente ma anche duro come la pietra, il rovere è elegante quanto costoso) a quella degli strumenti adatti (ma meglio un seghetto alternativo o una sega a nastro? Un pialletto o della carta vetrata? Gli utensili elettrici o quelli manuali?), dalla distribuzione del peso all’ordine di assemblaggio dei vari pezzi, dalla difficoltà di eseguire lavorazioni complesse (la curvatura o i tagli non lineari, per esempio) alla necessità di nascondere viti e chiodi che sono brutti a vedersi e rischiano di strappare i vestiti. E così via, ostacolo dopo ostacolo, errore dopo errore.

Non a caso le mie prime realizzazioni erano grossolane, scadenti, sembravano belle soltanto su Instagram. Affrontavo tutto via via che mi capitava, accumulando ogni giorno nuove astuzie, nuovi accorgimenti. E la qualità migliorava, certo, un po’ alla volta, ma non abbastanza. Poi ho imparato la cosa più importante: a pensare in anticipo i miei gesti, ad anticipare la sequenza di montaggio, a considerare ogni minimo dettaglio nell’interezza del progetto.

A puntare sulla disciplina mentale che precede la messa in opera. Non che a quel punto io abbia cominciato a sfornare capolavori, ma le gambe delle sedie hanno smesso di spezzarsi, le superfici sono diventate più gradevoli al tatto, i modelli non sfigurano in salotto.

Solo allora ho cominciato anche a sperimentare, a non aver paura di commettere errori. A comprendere che la falegnameria – o meglio, qualunque tipo di artigianato – non è una formula matematica, non rispetta necessariamente un metodo, anzi prevede sempre un margine di imprecisione. Si tratta piuttosto di ridurlo, di calibrarlo, di nasconderlo – o, perché no, di valorizzarlo. E in questa imperfezione ho imparato infine a riconoscere me stesso, la mia personalità, in ciò che le mie mani fanno.

Tutto questo è stato per me solo una vaga, incerta intuizione fino a quando ho letto La lezione del legno di Arthur Lochmann, uno studioso francese che per dieci anni, anziché restare in università, ha lavorato nei cantieri edili ricavandone un insegnamento filosofico: la necessità, per non farsi schiacciare dalla frenesia astratta dei nostri stili di vita, di un ancoraggio nella realtà materiale (espresso meglio, forse, dal titolo originale, letteralmente La vita solida, contrapposta alla “società liquida” di Bauman).

Attenzione: Lochmann racconta prevalentemente di carpenteria, ovvero di tetti e altre strutture portanti, non di cose che chiunque può fabbricare nella propria cantina, come capita a me. Nondimeno, il libro è illuminante – anche per i non iniziati – nel disarticolare con semplicità l’atavica opposizione binaria tra lavoro artigianale e lavoro intellettuale.

Che senso ha considerare il gesto manuale una questione solo fisica, non presieduta da una logica? Com’è possibile che più una persona incrementa la propria cultura, più si sente inadatta a sostituire una lampadina bruciata o a montare una mensola? Non dovremmo, piuttosto, sviluppare un “pensiero materiale”, ovvero un’interazione costante tra i sensi, le idee e l’azione?

È così che ho preso coscienza che quando indosso i panni del falegname non stacco affatto la testa e, in maniera ancor più sorprendente, non smetto di usare gli strumenti dell’editor. In un caso e nell’altro, si tratta di mettere un ordine umano nella bellezza bruta della materia, sia essa legno o scrittura.

Si tratta di adeguarsi di volta in volta a situazioni diverse, che ti costringono a immaginare soluzioni uniche, ad adattare i processi abituali. Di dimenticare se stessi dietro il risultato dell’opera, più importante di qualunque smania di protagonismo. Di coltivare il gusto per il lavoro ben eseguito, l’impulso a svolgerlo al meglio delle proprie possibilità. Di alimentare la voglia di fare bene via via che si capisce come si fanno le cose, in un processo di apprendimento infinito. Di sentirsi responsabili della qualità, traendone ora orgoglio ora frustrazione. Di pensare l’oggetto – che sia un romanzo o un comodino, perdonatemi la forzatura – come una concatenazione complessa di scelte e di operazioni, da calcolare ciascuna in funzione di tutte le altre. Infine, di concepire il lavoro artigianale come un’interpretazione individuale, un binomio di tecnica ed espressione, il cui senso più pieno sta nell’amore verso il mestiere in sé.

Da qualche tempo, quando vado fuori città e noto un ceppo di legno abbandonato lungo un sentiero, non vedo il ceppo di legno, né l’albero intero che era in precedenza. Vedo le forme che sono intrappolate nella materia, in attesa di essere liberate: tavole da segare, da limare, da modellare secondo necessità. Se è marcio, inutilizzabile, in quel ceppo vedo un’occasione sprecata e me ne rammarico. Pazienza, ne troverò un altro, penso.

Adesso però lo so: è lo stesso sguardo che da sempre rivolgo a ogni manoscritto che mi venga proposto. Lo leggo per capire di che pasta è fatto, se al di là degli inevitabili errori, delle lacune, delle imprecisioni, c’è “qualcosa” che gli si agita dentro, che chiede di uscire allo scoperto. Lo tocco, lo annuso, lo soppeso. Non guardo il testo imperfetto che è in quel momento; cerco il libro che può diventare. E se lo trovo e decido di aiutare l’autore – di mettere la mia tecnica al suo servizio – a dare concretezza alla sua ispirazione, vedo anche ciò che ci aspetta da allora in avanti: fatica, olio di gomito, martellate, limature, schegge conficcate nella pelle.