Leggi ‘Pesare le vite’, le riflessioni sull’economia e sul vivente di Achille Mbembe

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Lavoro Culturale.

Che sia il risultato di un atto intenzionale o che sia del tutto casuale, il Covid-19 ha confermato una serie di intuizioni che in molti avevano ripetuto nell’ultimo mezzo secolo, spesso senza essere ascoltati.

La prima riguarda lo statuto e la posizione della specie umana. In effetti, non siamo gli unici abitanti della Terra, né ci troviamo al di sopra degli altri esseri. Siamo attraversati orizzontalmente da interazioni fondamentali con microbi, virus, forze vegetali, minerali e organiche. Meglio ancora, siamo in parte composti da questi altri esseri. Essi ci decompongono e ci ricostituiscono. Ci fanno e ci disfano, a partire dal nostro corpo, dai nostri habitat e dai nostri modi di esistere.

Così facendo, non solo rivelano in quale misura la struttura e il contenuto delle civiltà umane poggi su fondamenta complesse ed eminentemente fragili. È la vita stessa, nella sua anarchia e in tutte le sue forme, a essere vulnerabile, a cominciare dai corpi che la ospitano, dal respiro che la diffonde e da tutte le forme di nutrimento senza i quali finisce per appassire. Questa vulnerabilità di principio è la caratteristica della specie umana. Ma essa è anche condivisa, in diversa misura, da tutti coloro che popolano questo pianeta e che una serie di poteri minacciano di rendere, se non inabitabile, almeno inospitale per buona parte di essi.