Le logiche della demografia e quelle dell’appartenenza

Qualche giorno fa, su The Lancet è comparso uno studio molto interessante riguardante la distribuzione globale dei tassi di fertilità. Analizzando i dati, si evince che negli ultimi 70 anni il tasso medio di fecondità mondiale si è contratto del 50% (da 4,7 a 2,4 figli per donna), mentre la popolazione globale è quasi triplicata (da 2,6 a 7,7 miliardi) e, a quanto pare, continuerà ad aumentare.

È la prima ricerca del suo genere ad utilizzare metodi trasparenti e replicabili – quindi verificabili -, incrociandoli con indicatori standard dei tassi di mortalità. In passato sono stati fatti altri tentativi, tutti molto opinabili. Ciò la rende un prezioso contributo per analizzare la situazione attuale partendo da alcune evidenze certe, misurabili e non da pregiudizi o sterile propaganda.

Ciò che salta subito all’occhio, guardando tabelle e grafici, è un dato molto semplice: la fertilità non è equamente distribuita.
Dei 195 paesi presi in esame, 91 paesi hanno tassi di natalità molto inferiori ai livelli necessari a garantire il ricambio generazionale (stimati in una media di circa 2,1 figli per donna).

Viceversa, esistono molti paesi – tra cui l’India, il Niger e quasi tutti i paesi dell’Africa saheliana e subsahariana – i cui tassi di fertilità sono molto al di sopra della media.  Il Niger batte tutti con un tasso di fecondità altissimo: 7,1 figli per donna.

La fotografia proposta dallo studio è molto nitida: una parte del mondo pian piano si sta spopolando, mentre un’altra parte del mondo si sta popolando a livelli mai visti. Questa è soltanto una parte della questione. C’è anche dell’altro.

Se si incrociano i dati raccolti dalla ricerca presentata da The Lancet con i dati forniti dalla World Bank relativamente alla distribuzione globale del reddito pro-capite, è possibile rilevare una correlazione molto alta tra bassi redditi pro-capite e alti valori del tasso di fertilità.

La World Bank ha anche reso pubblici dati molti importanti sul Consumo Individuale Attivo (AIC), un indicatore del benessere materiale delle famiglie che viene relazionato ad altre metriche mediante un’unità di misura standard, PPS (Purchasing Power Standards, ossia: il potere di acquisto): potete vederli qui.

Come prevedibile, i paesi dove i redditi pro-capite sono considerati di fascia bassa/medio bassa, oltre a essere interessati da elevati tassi di fertilità, sono anche quelli in cui potere d’acquisto e consumi mostrano livelli molto bassi.

E ciò spesso è indipendente sia dalle risorse presenti all’interno del Paese e dai tassi di occupazione. Molti di quei paesi, infatti, sono ricchi di risorse e presentano livelli medi di occupazione piuttosto alti, solo che le risorse non sono equamente redistribuite e il lavoro viene retribuito molto poco, ai limiti del reddito di sussistenza.

Se riportassimo tutti questi dati all’interno di una mappa, oltre a trovare quanto abbiamo detto sopra (ossia zone destinate a spopolarsi e zone destinati a sovrappopolarsi), vedremmo anche che le zone destinate a spopolarsi sono caratterizzate da una qualità di vita (in termini di reddito, consumi e potere d’acquisto) nettamente maggiore rispetto alle zone destinate a sovrappopolarsi.

Detto in termini più brutali: ci sono zone dove anche solo sopravvivere è molto complesso e zone dove la qualità media della vita è accettabile, al netto delle diseguaglianze globali di reddito (quel famoso 1% che monopolizza la gran parte della ricchezza mondiale). In questa sede non discutiamo della forbice tra i redditi, ma della loro localizzazione geografica.

L’andamento globale dei tassi di fertilità indica che la situazione sopra descritta è destinata a peggiorare e a diventare sempre più critica.  Il numero delle persone che sarà messa nelle condizioni di provare il tutto per tutto per migliorare la propria qualità di vita (o, più banalmente, sopravvivere) crescerà in maniera vertiginosa.

Questa evidenza ne implica subito un’altra: i flussi migratori sono un fenomeno strutturale. Il loro trend è crescente, non decrescente. Nessuna evidenza scientifica ci suggerisce che diminuiranno, anzi, dai dati finora raccolti, è molto più probabile un loro rapido ingigantirsi, con buona pace di chi (al governo o no) si ostina a trattarli mediante politiche di chiara matrice emergenziale, se non proprio xenofoba.

Tentare di raggiungere facili consensi, dipingendo queste migrazioni come “invasioni”, è sintomo di una visione politica incapace di leggere analiticamente la fase attuale.  Le migrazioni non possono essere governate presidiando le vie d’accesso, militarizzando confini e frontiere, detenendo chiunque aspiri a una qualità di vita migliore, condannando a morte certa i migranti più deboli.

Non possono esserlo per semplici ragioni numeriche: parliamo di decine di milioni di persone, che presto diventeranno centinaia di milioni. Pensare di gestire centinaia di milioni di persone come un’emergenza è semplicemente folle.

I loro destini, tra l’altro, si incroceranno a quelli di quanti per ragioni lavorative, affettive, politiche vivono in un paese diverso da quello in cui sono nati. Parliamo di chi parte dal proprio paese d’origine per cercare fortuna altrove in maniera legale (i nostri giovani disoccupati che lavorano come lavapiatti in Australia, i nostri “cervelli in fuga”, gli ingegneri, gli operai, i tecnici che trovano maggiori opportunità lavorative all’estero, etc.). Anche loro possono essere considerati migranti.

Pur se le opportunità sono molto differenti, le condizioni dei migranti legali e dei migranti illegali per certi versi sono molto simili: esperiscono tutti una temporanea restrizione dei propri diritti in ragione del fatto di essere nati altrove. Alcuni possono sperare di ambire agli stessi diritti degli autoctoni, per altri questa possibilità è preclusa o estremamente rara. Di fatto però tutti godono di minori diritti rispetto agli autoctoni.

La ragione è semplice: siamo abituati a pensare la stanzialità come la norma. Le nostre strutture giuridiche, legislative, esecutive sono plasmate da questa abitudine.

Lo stesso concetto di nazione è a tutt’oggi ancorato all’appartenenza per nascita a un dato territorio geografico. È un retaggio storico, legato alle dinamiche demografiche e di mobilità del passato.  Lo accettiamo come una consuetudine, eppure il mondo è profondamente cambiato.

Gli Stati nazione sono sempre più territori di transito, attraversati da flussi migratori enormi. Al loro interno, gli stanziali convivono con i migranti e in alcuni casi sono una minoranza. Anche qui, è utile guardare i dati.

Secondo l’ultimo rapporto della International Organization for Migration, alla data attuale le persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate sono circa 257 milioni. Significa il 3,6 per cento della popolazione mondiale: una persona ogni trenta ha cambiato Paese. Nel 1990 erano circa 153 milioni di persone, pari a circa il 2,9% della popolazione mondiale (meno di una persona ogni quaranta), mentre nel 2000 erano 173 milioni e nel 2015 erano saliti a 240 milioni.

A questo numero va aggiunto quello delle persone che migrano all’interno di uno stesso Stato, stimate nel 2009 in 740 milioni. In totale, significa quasi un miliardo di migranti.

Cosa succederà quando queste persone raddoppieranno o triplicheranno? Sarà realmente possibile adattare al loro movimento politiche pensate per popolazioni caratterizzate da bassa mobilità? Probabilmente no.

Prevedibilmente, i contenitori politici con cui siamo abituati a concepire la nostra appartenenza a un territorio geografico (gli Stati nazione, le regioni, le città, le frontiere) presto saranno spazzati via da nuovi contenitori più aderenti alla realtà.

Nasceranno meccanismi per dare maggiore peso politico alla mobilità (al movimento, al flusso) e non più alla nascita, come avviene oggi. Migranti e autoctoni avranno diritti meno sbilanciati di quelli odierni. Ciò inevitabilmente comporterà delle tensioni più o meno cruente.

Ci sarà chi speculerà su tali tensioni, inutile farsi illusioni.  Ma i numeri sembrano dare ragione a chi tenterà di governare questo processo nel senso di una trasformazione profonda del concetto stesso di appartenenza. Ci aspettano anni interessanti.


Immagine di copertina: ph. Tom Parsons da Unsplash