Cosa fa tutto il giorno un associato di McKinsey e perché lo fa

Costa, lavoro, consulenza

In tutto il mondo in questo istante decine e decine di studenti e professionisti stanno riguardando il loro curriculum prima di inviarlo a una società di consulenza aziendale. Molti altri stanno preparando i “casi” per gli ultimi colloqui. Le società di consulenza sono tra le prime dieci aziende più ambite per gli studenti di business, sono invece tra le prime venti scelte per chi studia ingegneria. In pochissimi vengono selezionati, ma decine di migliaia in tutto il mondo provano le selezioni ogni anno.

Ma come si vive davvero in consulenza? Cosa fa un associato di McKinsey, Bain o BCG tutto il giorno? Quali sono le sue paure, le sue speranze? Difficile trovare una risposta a queste domande in rete o altrove. Me non più è un romanzo di formazione il cui protagonista è Jacopo, un giovane consulente aziendale che seguiamo per ventiquattro ore di lavoro matto e disperatissimo. Ma tra le pieghe di questa giornata si infilano gli episodi di una sera in cui, anni prima, Jacopo ha dovuto prendere la prima scelta determinante della sua vita: dedicarsi alla musica oppure studiare in una prestigiosa università.

Costa, consulenze

Me non più (Pequod) è il primo romanzo di Massimiliano Costa dedicato al mondo della consulenza e al suo incontro con la vita dei millennial. In questo articolo l’autore racconta il nucleo problematico da cui è scaturito il romanzo

“Fuck.”
Rantolò. Spense la sveglia e buttò l’iPhone sul comodino. Si lasciò cadere supino, il debole corpo schiantato dalla forza di gravita. Le braccia aperte, il busto scoperto, gli occhi sbarrati sul soffitto. Immobile, sentiva svanire dalla pelle il tepore del sonno e dalla testa i sogni di quella notte interrotta.

“Dai dai dai dai” s’incitò con un filo di voce.

Aveva già posticipato la sveglia due volte e non poteva concedersi il lusso di altri cinque minuti. I piedi, buttati fuori dalle coperte per primi, caddero sul pavimento di marmo ghiacciato con l’inaccuratezza di un quarto di manzo. Un brivido freddo risalì lungo la schiena prima di posarsi alla base del collo. Di colpo fu in lui sveglia la coscienza di un nuovo giorno in cui andare.

Riprese di soprassalto il cellulare.

“Ma come cazzo è possibile?” disse ad alta voce, guardando lo schermo che elencava ventitre mail non lette.

All’ambientazione in consulenza si affianca una riflessione: cosa porta davvero gli studenti di tutto il mondo a sperare di essere scelti da queste società? Tra gli altri elementi più ovvi si possono citare soldi, carriera, prestigio. Ma le ragioni sono più profonde.

Come c’è chi sogna di fare il dottore, il pompiere, lo scienziato, c’è anche chi sogna di diventare Mr. Wolf di Pulp Fiction. Ma nella maggior parte dei casi scegliere di lavorare in consulenza equivale a non scegliere in che settore lavorare, a non coltivare attivamente un sogno, una passione o una strada. Nel dubbio l’incertezza, come dice il filosofo. E coloro i quali dopo una laurea non sanno a cosa votarsi possono ancora sperare di rifugiarsi tra fila di chi non sceglie. Poi al massimo si può sempre cambiare, giusto? Assolutamente, ma non è così facile, non almeno senza andare controcorrente e rifiutare gli incentivi aziendali creati proprio per far sì che cambiare carriera abbia un costo sempre crescente: il miraggio di un master, di una promozione, di un’auto aziendale, di un bonus al 100%. C’è sempre più di un buon motivo per non lasciare quest’anno.

E intanto si lavora al ritmo di settanta, ottanta ore a settimana, sempre fuori casa, per la maggior parte del tempo a fare e rifare documenti in PowerPoint e qualche modello Excel. Spesso ci si sente più vicini ad uno schiavo che a qualcuno “creating change that matters”. Ed essendo assegnati a diversi progetti si scivola inevitabilmente verso un settore (per esempio banche, assicurazioni, grande distribuzione) senza aver davvero mai deciso che quello fosse più adatto. E così, la scelta che non si è mai voluta fare, viene fatta passivamente.

Il paradosso è questo. In un mondo in cui le opportunità sono davvero tantissime e in cui la libertà personale è ai massimi storici, cosa scegliere di fare, cosa studiare? E come sceglierlo? Come nella scelta dello yogurt o dell’acqua minerale siamo magneticamente attratti verso i brand più conosciuti, così nella scelta della nostra vita rischiamo di essere paralizzati dall’abbondanza di opzioni, di corsi, di futuri possibili divenendo facile preda delle scelte più ovvie, quelle suggerite dalla società.

Dice Barry Schwartz: “Something as dramatic as our identity has now become a matter of choice. We don’t inherit an identity; we get to invent it. And we get to reinvent ourselves as often as we like. And that means that every day, when you wake up in the morning, you have to decide what kind of person you want to be.” (qualcosa di decisivo come la nostra identità è diventato una questione di scelta. Non ereditiamo un’identità, la inventiamo. E reinventiamo noi stessi tutte le volte che vogliamo. E questo significa che ogni giorno, quando al mattino ti alzi, devi decidere quale persona vuoi essere)  Diventa quindi più facile rifugiarsi dietro il blasone, dietro una facoltà scelta a caso, dietro un’azienda prestigiosa che non sembra determinare in maniera pesante il nostro futuro, ma solo posticiparlo.

L’abbondanza di scelte paralizza chi deve scegliere. Questo paradosso emerge spesso quando si sceglie che università fare. Si tratta di una delle scelte più determinanti per un giovane. Una scelta complessa che richiede capacità di astrazione e di introspezione. Una scelta tanto più insidiosa in quanto tra le prime di lungo periodo che una persona è chiamata a compiere.

Eppure, in molti casi, la scuola pone l’enfasi sul programma da finire e la maturità da preparare piuttosto che favorire occasioni per un ampio percorso di orientamento. Invece di organizzare incontri con professionisti, sessioni di scoperta della propria personalità, visite in università, invece di lavorare al futuro si lavora spesso a ottimizzare un voto di maturità sostanzialmente inutile.

Fino a qualche mese prima Jaco non si era posto nessuna domanda su cosa avrebbe voluto diventare. Sembrava un dilemma sepolto nell’infanzia. Studiava e avrebbe continuato a studiare. Pensava di potersi iscrivere a Lettere o Filosofia, magari affiancando un corso di perfezionamento musicale. Da un lato Alvaro, pur tra diversi borbotti, era riuscito a digerire tale prospettiva sperando per il figlio un futuro da rilassato professore universitario. Dall’altro Jaco aveva cominciato ben presto a ripudiare l’idea di una laurea umanistica che, per il poco che aveva captato e il molto che aveva dovuto immaginarsi, equivaleva a sottoscrivere aule fatiscenti e strabordanti, drappelli di colleghi fuori corso e meno sbocchi lavorativi del più mediocre dei musicisti. Un esempio di tale scarsa considerazione erano le rare, per non dire rarissime, occasioni in cui i professori del liceo affrontavano il tema dell’università. Per quanto regnasse l’entropia del fai da te e fai in fretta, emergeva chiaro un messaggio: valeva qualcosa chi voleva studiare ingegneria o medicina e si stava già industriando per gli esami d’ingresso. Qualche punto veniva assegnato a economia, solo se alla Bocconi, o eventualmente giurisprudenza. Per gli altri non rimaneva che uno sguardo di stupita curiosità. E Jacopo odiava quello sguardo, quei dubbi, il suo dubbio. Odiava essere sotto una pressione che non gli avevano insegnato a gestire e che pareva l’unico a provare. Non aveva il tempo di scegliere, di informarsi a sufficienza, di capirsi.

Uno studio nel Regno Unito ha rilevato che il 28% dei giovani rimpiange già dal primo anno di aver scelto un certo corso di studi universitario. Il 41% avrebbe voluto ponderare meglio cosa studiare. Si potrebbe obiettare che non è possibile conoscere se stessi e il proprio futuro a 19 anni e nemmeno a 24. Ma allora perché scegliere immediatamente? Non sarebbe meglio cercare di capire qualcosa del mondo per poi compiere in maniera più saggia una scelta importante?

E dopo aver scelto in maniera poco approfondita l’università, dopo aver prediletto il corso che desideravano i genitori, dopo essere stati guidati da un blasone, forse diventerà ancora più facile nascondersi nuovamente dietro un’altra scelta non fatta, dietro un altro prestigio, dietro i desideri di altri, e finire così a fare un lavoro vuoto di senso per magari tre, cinque, dieci anni.

Me non più è un libro sulla scelta, sulla crisi di una scelta nella ricerca di senso, difficile sì, ma non più rinviabile. È un romanzo in cui la consulenza è la semplice allegoria estrema di uno scenario urbano spersonalizzante a cui fa da contraltare la musica, il bucolico, il cuore. Un libro sulla resistenza individuale tra ambizione personale e società nella speranza di diventare se stessi. Dum differtur, vita transcurrit: mentre posticipiamo, la vita passa.