Nomade è bello. La museologia e la sfida delle migrazioni

Il tema migrazioni e migranti è pervasivo e soffocante. Strumentalizzato in ogni discorso politico prevale – anche quantitativamente- su ogni altro, senza che lo si veda rappresentato come elemento di un insieme, di una rete di cambiamenti che non riguardano affatto solo il “migrante”, inteso come una monade a sé stante con caratteristiche di volta in volta più stereotipate, fino al riconoscerlo tout court nella parola “clandestino”.

Una prima domanda che dovrebbe affacciarsi, per cominciare, è: una volta migranti, si è migranti per sempre? Il tuo spostamento fisico inghiotte te e la tua vita, i tuoi figli, la tua professionalità, definisce il tuo modo di accostarti al mondo per generazioni nei secoli dei secoli?

Parlando di confini, una domanda successiva dovrebbe porsi in senso tassonomico: “migrante” è solo qualcuno che si sposta, da un paese ad un altro, superando i limiti nazionali, in condizioni di necessità, rischio, bisogno?
Il superamento di confini e categorie è, in questi tempi intrisi di complessità, appannaggio non solo di chi arriva in questo paese, o in altri, su una barca.

Mi ci ha fatto pensare Aboubakar Soumahoro, in un recente Rosetta: è la prima voce che sento capace di leggere il quotidiano senza confini aprioristici; ha fatto un discorso tagliente, accostando la questione dei diritti mancati dei lavoratori -immigrati- delle campagne pugliesi con quelli di chi, iper qualificato, vive con 600 euro al mese, con qualche “lavoretto accademico” o culturale; l’ho sentito fare riferimento ai diritti delle donne, e sostenere che, lungi dall’essere migliorati, la loro pochezza ha finito per allargarsi trasformando in poveri i diritti anche di altri, indipendentemente dal genere.

Direi che ha parlato di “migrati professionali”, mi pare, senza garanzie, avvezzi al cambiamento, rassegnati a condizioni capestro, inerti nella reattività di chi non sa riconoscersi come categoria.

Il medesimo occhio con orizzonte allargato e senso di unica “comunità culturale” guida il lavoro di Anna Chiara Cimoli, uscito a luglio per Clueb: “Approdi. Musei delle migrazioni in Europa”. Significativamente, come un fil rouge nei suoi lavori, Anna Cimoli raccoglie voci, dà loro spazio e orecchi. Un prerequisito, in tutta evidenza, per occuparsi di alcuni temi dovrebbe proprio essere questo: la curiosità nell’ascolto di esperienze altre e l’attitudine a raccoglierle per offrire la possibilità di accesso a punti di vista molto diversi.

Leggere Approdi è compiere un viaggio (che sia un caso?), attraverso un interrogarsi principalmente sul senso dell’istituzione museale, sul suo ruolo e mandato e sulla capacità di raccogliere e dare carne agli stimoli dell’oggi. I casi citati, specifici, sono molti, e certo il volume costituisce un punto di riferimento per chi, da oggi in avanti, si occupi di musei delle migrazioni o di esperienze da proporre a riguardo in istituzioni “tradizionalmente” dedicate ad altro oggetto.

Mentre nel libro si racconta l’abitudine adottata dai pescatori di Mazara del Vallo per segnalarsi vicendevolmente sulle mappe dove possa essere pericoloso gettare le reti, perchè luogo di naufragio, mi sono venute in mente le parole di Christophe Niemann che del suo disegnare dice che si tratta solo di “delineare i vuoti” così che questi escano dal foglio come forme.

Non ho potuto non pensare – e qui si tratta di “patrimonio migrante”?- a quello che, secondo me, è il museo dell’assenza, una monumento alla lacuna, il Museo dell’Acropoli di Atene nella sua recente struggente veste (naturalmente citato nel volume) che incornicia lo spazio che sarebbe dei marmi esposti invece al British Museum .

I marmi di Elgin conducono a Hitchens e alla sua appassionata ricerca nella comprensione del contemporaneo, così come è di Carrère la voce che racconta la Jungle di Calais.

Musei? No, scrittori che affrontano il racconto del passato e del presente senza rifugiarsi in un già definito, senza mettersi al riparo -per dirlo con una locuzione della Cimoli – “dalla cacofonia della contemporaneità”.

Di rado come in questo ultimo anno i musei sono stati terreno di confronto non tradizionalmente museologico (tutti ricordiamo la polemica contro il Museo Egizio di Torino conclusasi con l conversazione fra Giorgia Meloni e il direttore Cristian Greco davanti al museo, a favore di telecamere).

Si ragiona insomma sul ruolo politico e sul potenziale attivismo del museo: si percorrono nel volume le prese di posizione del MoMa sul Muslim Ban di Trump quando ha esposto opere di artisti banditi o per converso, il Davis Museum, in Massachussets ha scelto di disallestire le opere di tutti gli artisti immigrati, passando per l’apertura -molto discussa- del Louvre di Abu Dhabi.

Come dice Claudio Rosati (in una introduzione che è una summa della “nuovissima museologia” che la Cimoli testimonia): “tutto il museo è oggi scosso con maggiore o minore intensità da un fantasma ricorrente: la domanda sul senso della sua azione”.

In realtà, essendo per un caso fortuito testimone di un’esperienza che riguarda uno dei progetti europei più interessanti sul tema, MeLA, Museum in the Age of Migrations, posso confermare che la difficile riflessione a riguardo mette velocemente in crisi il museo che ne viene toccato. Lavoravo per il Museo Diocesano di Milano, coinvolto -pur blandamente- nel progetto, dato che poteva essere davvero un terreno ricco e naturalmente predisposto per un lavoro di interpretazione in chiave interculturale del proprio patrimonio; ricordo come una delle esperienze per me più interessanti dal punto di vista culturale e più coinvolgenti da un punto di vista emotivo, la sperimentazione legata alla lettura delle iconografie di soggetti sacri post-tridentini realizzata con un gruppo di persone afferenti a culture religiose diverse. Il museo esibì un istantaneo disagio nei confronti del progetto e si chiuse su sé stesso a riccio, decidendo di non percorrere appieno la strada del mettersi in gioco.

La grande domanda che percorre il viaggio di Approdi è: come un museo si prende carico del tema immigrazione?
Uno degli schemi più rilevanti fra quelli analizzati consiste nel raccontare l’emigrazione, rammentando ai visitatori che “l’altro, siamo stati noi”, in qualche momento, in qualche posto, in qualche epoca, come nella mostra “Emigration and Immigration” curata all’Immigrantmuseet di Farum in Danimarca; “nel percorso espositivo – ci viene raccontato – il pubblico scopre quanti elementi accomunino i migranti, al di là del preciso momento storico”. L’empatia, insomma.

Persino nella scelta dei casi il lavoro della Cimoli è molto aperto: non c’è distinzione di “peso” fra esperienze a vocazione territoriale quali il Museum Emigracji di Gdynia e e la dimensione parigina del Musèe national de l’histoire de l’immigration, 10 anni compiuti nel 2017, nato con un approccio radicalmente partecipativo fra innumerevoli ripensamenti, sgambetti e rinunce.

Il volume è con evidenza l’esito di un lavorio di anni, di viaggi, di ascolto, di metodo, di inizi e di continue negoziazioni fra il significato e l’oggi, che si cambiano vicendevolmente. Anna Cimoli non si è messa comoda, restituendoci anche i percorsi di ricerca che si sono nel tempo rivelati poco fertili e rivelando i vuoti ancora tutti da fare (la rappresentazione delle popolazioni Rom ad esempio).

Raccontarsi attraverso un manufatto, con “scelte, dubbi, contraddizioni, continue negoziazioni” è certo il lavoro del museo, e “la scelta di che cosa esporre e come farlo è frutto di un processo di decantazione che procede per prove ed errori”.

La “Nuovissima Museologia” riguarda non solo i musei dell’immigrazione, ma tutti, superando la retorica della Bellezza come elemento sufficiente e la retorica del Cimelio come innocua. Nomade è bello, insomma. Il suo opposto stanziale, se inteso nella dimensione intellettuale, è molto vicino a irrilevante.


Il libro sarà presentato Venerdì 28 settembre al Museo della Scienza

Immagine di copertina: ph. Luis Salazar