Risposte politiche allo sfruttamento dei braccianti. Cosa fare e cosa non fare

Pubblichiamo un’anticipazione estratta dal saggio La Spoon River dei braccianti di Antonello Mangano (Meltemi editore) in libreria dal 21 aprile. Ringraziamo l’editore.

Il grave sfruttamento in agricoltura è spaventoso sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Riguarderebbe infatti circa centosessantamila persone. Si tratta di una stima del Ministero del Lavoro, datata 2018, l’unica ufficiale.

In realtà non ci sono numeri certi, considerando l’altissimo tasso d’irregolarità: esistono lavoratori senza documenti e senza contratti oppure lavoro grigio, ovvero un numero di giornate pagate inferiore rispetto a quelle effettivamente lavorate.

Anche il numero dei morti nelle campagne è difficile da calcolare. Prendiamo come esempio il 2015. Secondo l’Inail, in agricoltura in quel periodo sono morte soltanto tredici persone. Eppure quell’anno si è registrata una vera ecatombe. Dove sono finiti Ioan Puscasu, Paola Clemente e poi Stefan, Mohamed, Zakaria, Vasile, Arcangelo?

Non li troviamo sotto la voce agricoltura, ma tra i 336 deceduti senza categoria e inseriti nel sommerso. Del resto, i rapporti dell’Ispettorato del lavoro dicono che – nel settore primario – il 50% delle imprese ispezionate risulta irregolare.

Ma allora quanta gente muore nei campi? Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro, solo nel 2015 sono stati 518. In agricoltura si registrerebbe il 37% del totale degli incidenti mortali. La differenza rispetto ai dati ufficiali la spiega Carlo Soricelli, anima dell’Osservatorio, un metalmeccanico bolognese in pensione che da dieci anni conta tutti gli infortuni mortali, spulciando ogni giorno la stampa: “L’Inail considera solo i propri assicurati, escludendo partite Iva, arti- giani, liberi professionisti che hanno altre assicurazioni”.

L’Osservatorio inserisce nelle sue statistiche anche tutti gli incidenti “in itinere”, cioè andando o tornando dal luogo di lavoro. Ma una cosa è certa. Muoiono soprattutto gli italiani. Nella fascia del sommerso – sempre relativa al 2015 – i dati Inail parlano di 272 italiani deceduti su 336 (l’81%). Al secondo posto i romeni (27 casi). Terzi, a grande distanza, gli indiani (9). Anche l’Osservatorio conferma che la stragrande maggioranza dei morti è italiana.

Detto questo, arriviamo alla consueta domanda. “Va bene, è spaventoso quello che accade nelle campagne italiane. Così si produce il cibo che acquistiamo e mangiamo tutti i giorni. Ma allora dove possiamo fare la spesa per non favorire lo sfruttamento?”.

Si tratta di una questione corretta ma che parte da un presupposto sbagliato. Infatti propone una risposta individuale a un problema politico di ordine generale.

L’idea del consumo critico come soluzione al grave sfruttamento ha almeno trent’anni. Il “consumerismo” è una versione responsabile del liberismo: da soli, di fronte a un bancone del supermarket, abbiamo un grande potere; votiamo facendo la spesa; la nostra scelta produce il cambiamento…

In determinate circostanze, i consumatori organizzati possono svolgere un ruolo positivo. Ma la loro azione rimarrà marginale se non iniziamo a ragionare in termini politici. Per fare un esempio, una buona legge cambia le cose subito, molto più del lavoro lento e sotterraneo di migliaia di persone.

Inoltre, da soli non decidiamo nulla perché le nostre scelte individuali sono condizionate. Non basta “prendere coscienza”. Occorre disponibilità finanziaria e di tempo. Occorre una libertà effettiva, sostanziale.

A questo si aggiunge un tema fondamentale: la separazione tra consumatore e lavoratore.

Il grande capolavoro del capitalismo contemporaneo non è la contrapposizione tra i lavoratori, né quella tra migranti e autoctoni (un modo di dominio antico ma sempre funzionante) ma quella – nuova – tra l’essere umano e sé stesso. Così l’uomo consumatore è in competizione e si scontra con l’uomo lavoratore. Anche se si tratta della stessa persona.

Per esempio, ci arrabbiamo, giustamente, se non ci fanno il contratto a tempo indeterminato ma ci consoliamo con un volo a 9,99 euro. Vogliamo un’assunzione come dipendenti ma compriamo pelati di pomodoro da 60 centesimi.

Anche questo tema non si risolve con il consumo critico. È giunto il tempo di ragionare su risposte politiche a problemi politici. Risposte che derivano da un lungo e costante lavoro di associazioni, sindacati, ricercatori, reti di produttori e acquirenti. Un lavoro che dura da anni e che qui è stato soltanto raggruppato.

Cose da fare

1. Salario minimo

Secondo una diffusa teoria molti “piccoli produttori” sarebbero costretti a sfruttare i braccianti perché, a loro volta, schiacciati dai soggetti forti della filiera. La grande distribuzione organizzata (Gdo) impone prezzi sempre più bassi e quindi gli agricoltori devono rivalersi sui soggetti più deboli per sopravvivere. una specie di “cannibalismo sociale”, giustificato come una necessità ineluttabile.

I supermercati hanno ormai un peso enorme sulla filiera, secondo una stima smercerebbero il 70% del cibo italiano. Non sempre è stato così, fino a pochi decenni fa era l’industria a dettare legge e la distribuzione doveva adeguarsi. Oggi i rapporti di forza sono invertiti, ma le condizioni dei braccianti sono rimaste uguali. All’epoca di Jerry Masslo i supermarket non avevano certo il peso di oggi, eppure anche allora c’erano lavoratori emarginati, sfruttati e uccisi.

Questo non significa che la Gdo sia innocente. Come soggetto forte della filiera dovrebbe essere responsabile di tutte le storture ed essere obbligata attivamente a porvi rimedio.

Il nodo centrale è però un altro. Secondo alcuni, lo sfruttamento dei braccianti si risolve costringendo la Gdo a pagare una giusta remunerazione ai produttori. In realtà sono due problemi separati. Se l’agricoltore avesse più soldi, automaticamente pagherebbe giusti salari? Questa è la teoria liberista del trickle-down, lo sgocciolamento dall’alto verso il basso. Occorre arricchire i ricchi in maniera che i soldi sgoccioleranno fino ai poveri. Teorie degne di Ronald Reagan. La realtà è molto diversa. È molto probabile che le gocce si fermeranno prima di arrivare al “pavimento”. Meglio dunque prestare attenzione al livello più basso. Per esempio con un salario minimo orario sotto il quale non si possa scendere. La filiera non reggerà? Si cambierà la filiera, non la vita delle persone.

2. Divieto di ogni forma di caporalato, comprese le forme oggi legali

Il subappalto a cooperative spurie o “senza terra” è una delle forme più ricorrenti di caporalato mascherato. Nelle vendemmie è una pratica consueta.

Come abbiamo visto nel caso di Paola Clemente, alcune agenzie interinali potrebbero dare copertura legale a forme estreme di sfruttamento. In questo modo le aziende si tutelano in caso di controlli e scaricano le responsabilità.

Al contrario, dovrebbe essere affermata la responsabilità in solido in tutta la filiera. Subappaltare significa affidare a terzi attività che non si è in grado di svolgere. Non può significare scaricare costi, obblighi e responsabilità sui livelli più deboli.

3. Riforma dell’indennità di disoccupazione

Capita spesso che il welfare previsto per i braccianti finisca a chi non va mai nei campi. Bisogna cancellare truffe e abusi e assegnare l’indennità di disoccupazione a chi lavora realmente, anche se si tratta di un migrante. Inoltre, bisogna combattere il lavoro grigio con una riforma delle giornate lavorate. L’attuale sistema permette invece di “aprire un ingaggio” e di aggiungere a posteriori le giornate solo in caso di controlli.

4. Liste di prenotazione e collocamento pubblico

Le liste di prenotazione possono affermare la centralità del collocamento pubblico in agricoltura, sostituendo le strutture private che sfociano nel caporalato. Ovviamente il sistema deve essere agile e rispettoso dell’attività agricola.

5. Pac condizionata a criteri etici

Significa “Politica Agricola Comune”. È il più grande programma al mondo di sostegno all’agricoltura. Rappresenta la prima voce del bilancio dell’unione. Eppure i fondi europei sono concessi senza alcun controllo sui salari corrisposti e sulle condizioni di lavoro, abitative e di sicurezza.

6. Etichetta narrante

I prodotti devono avere un’etichetta “narrante” che indichi almeno la composizione del prezzo, gli indici di congruità, i passaggi della filiera. Non ha senso parlare di scelta del consumatore in assenza di informazioni minime sul prodotto.

7. Corsie alternative alla Gdo

Le imprese agricole lamentano giustamente lo strapotere della grande distribuzione, che riesce a imporre prezzi al ribasso. Ma non vanno oltre il lamento e contemporaneamente si rifanno comprimendo il costo del lavoro. una buona soluzione potrebbe essere creare o valorizzare sbocchi alternativi per i produttori agricoli ripristinando la corsia diretta OP (Organizzazioni dei Produttori)-mercati generali-mercati rionali. Oltre a rendere effettivo il divieto di vendita sottocosto, previsto solo sulla carta.

8. Indice di congruità

L’indice di congruità incrocia la quantità di prodotto di un’azienda con i contributi pagati ai lavoratori. È un controllo relativamente semplice, ormai si può effettuare anche per via informatica. Pur non essendo del tutto risolutivo, può ridurre gli abusi più gravi.

9. Mano pubblica etica

La domanda pubblica può orientare le produzioni premiando eticità, rispetto ambientale e qualità. Mense scolastiche e universitarie, enti pubblici e ospedali dovrebbero basare i propri acquisti su questi principi. Allo stesso tempo, buoni pasto e buoni spesa non dovrebbero essere spendibili soltanto nei supermercati, ma in tutti gli altri punti di distribuzione, GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) compresi. Il cibo etico deve diventare normale, non una nicchia per pochi.

10. Accoglienza diffusa e mediazione abitativa

I ghetti sono visti come il problema, anziché come la spia del problema. L’approccio umanitario – emergenziale – securitario è quello prevalente. Sono poche le esperienze di mediazione abitativa, orientate a ripopolare i borghi rurali o forme di accoglienza diffusa come gli ostelli dei braccianti. Eppure dovrebbero essere la via principale per sostituire del tutto tendopoli e campi container.

11. Politica aperta di rilascio dei documenti

Il lavoratore sfruttato è quello più ricattabile. Paradossalmente, è proprio lo Stato a rendere deboli i braccianti. La politica dei dinieghi sui permessi di soggiorno crea enormi bacini di manodopera marginalizzata, sfruttabile e vulnerabile. Rilasciare documenti per tutti i migranti presenti sul territorio è il primo passo per invertire la rotta.

Cose da non fare

1. Il lavoro di qualità

“L’iniziativa economica privata […] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

La Costituzione della Repubblica è molto chiara in tema di responsabilità sociale delle imprese. Il rispetto dei diritti è dovuto, non è un’opzione da premiare. Quest’ultimo è invece il senso della “Rete del lavoro agricolo di qualità”. Secondo tale iniziativa, promossa dallo Stato, gli agricoltori possono iscriversi a un albo “etico”, se non hanno ricevuto condanne penali o sanzioni amministrative. Il vantaggio, secondo il Ministero, è che “i controlli e le ispezioni” saranno rivolti “principalmente a quelle imprese agricole non aderenti alla rete stessa”.

“La Rete del lavoro agricolo di qualità” si legge sul sito dell’Inps, serve a “selezionare imprese agricole […] che si distinguono per il rispetto delle norme in materia di lavoro, legislazione sociale, imposte sui redditi e sul valore aggiunto”.

Finora è stato un vero fallimento. Secondo l’Istat in Italia esistono 415.000 imprese agricole, l’84% delle quali formato da ditte individuali. A metà 2022 gli aderenti erano 5.310. Sono numeri in costante cambiamento, ma possiamo parlare di una percentuale di adesione del 1,18%.

Considerando che l’iniziativa è partita nel 2014, il tempo è sufficiente per una valutazione dell’esperimento. Stando ai numeri attuali, dovremmo concludere che il 98% delle imprese agricole è formato da delinquenti e sfruttatori? Non è ovviamente così.

È proprio il presupposto a essere sbagliato. È uno stravolgimento del diritto e della nostra civiltà. Pagare un giusto salario è una precondizione, non un traguardo. In questo modo si legittima chi sfrutta, che così ottiene diritto di cittadinanza, perché semplicemente non fa parte del “lavoro di qualità”. Inoltre, in assenza di soluzioni strutturali, si ricorre spesso alla retorica degli “imprenditori illuminati”, degli ”esempi positivi” e delle ”buone pratiche”. In questo modo le eccezioni positive servono a coprire tutti gli altri.

2. Il calderone delle agromafie

Contraffazione alimentare, sofisticazioni, usura, importazioni dall’estero e ovviamente caporalato. È il calderone delle agro- mafie, un’“ideologia” promossa in particolare da Coldiretti.

Di cosa si tratta? Varie forme di illegalità profondamente diverse tra loro vengono messe insieme per separare il marcio dall’economia sana. Così il male è sempre esterno: dal prodotto cinese spacciato per italiano al caporale sudanese che sfrutta i connazionali. Gli agricoltori italiani rimangono estranei al problema. La conseguenza è ovvia: compra italiano, mangia italiano. Come se le nostre campagne non fossero quelle dove sono morti Mamadou, Ioan, Jerry, Becky e tutti gli altri.

Inserendo il caporalato nel calderone delle agromafie, evitando di parlare del grave sfruttamento generalizzato, si cancellano le responsabilità dei produttori che approfittano dello stato di bisogno di tanti braccianti. Il caporalato è rappresentato così come una rete di bande mafiose che inquinano il mercato. Nella realtà, è il mercato stesso a richiedere i caporali. Infine, se il tema è la legalità, quello giudiziario diventa il solo strumento da usare.

3. Adottare uno sguardo paternalista

“Sei fantasmi, sei clandestini che stavano rientrando a casa, o meglio nei miseri alloggi di fortuna dove riuscivano a chiudere gli occhi e a mangiare qualcosa tra un massacrante turno di lavoro e quello successivo”. È l’attacco di un articolo di cronaca del “Corriere del Veneto”. Parla dell’incidente stradale in cui moriranno quattro migranti.

Ovviamente toni simili non sarebbero concepibili per i lavoratori italiani. A partire dal termine “clandestini” che segna una prima distanza tra “noi” e “loro”. Non si tratta di un caso isolato, anzi. Il lavoro migrante è sempre etnicizzato. È un’altra cosa rispetto al lavoro italiano. Si tratta di un atteggiamento consolatorio: certe cose possono accadere a loro, non certo a noi che siamo nati qui.

Come se non bastasse, spesso le condizioni di lavoro di chi scrive questi articoli non sono migliori dei migranti che commisera. Ma questo non è sufficiente a uscire da una visione paternalista. Loro sono i “poverini”. Il paradigma “miserabilista” dell’immigrazione non coglie altro che povertà materiale e inferiorità.

Ma i migranti non sono un problema a sé, sono semplicemente la fascia più debole e ricattabile del mercato del lavoro. Se domani sparissero, non sparirebbe certo lo sfruttamento in Italia. Sarebbero sostituiti dalle fasce più ricattabili della popolazione locale.

4. Ignorare la diversità tra migranti

Quando si parla di migranti è abitudine comune parlare di una massa indistinta. Lo fanno i razzisti e gli antirazzisti. Quasi nessuno distingue tra situazioni completamente diverse. Lo stesso accade per i braccianti. Ma gli stranieri nelle campagne italiane non sono tutti uguali. Paradossalmente, quelli chiamati “invisibili” sono gli unici di cui si sa qualcosa. Le vittime della Bossi-Fini e le braccianti romene, solo per fare qualche esempio, vivono in un perenne cono d’ombra.

Proviamo a capirne di più. I circuiti con cui i migranti arrivano in Italia e finiscono per lavorare nei campi sono almeno quattro:

1) braccianti stagionali comunitari dell’Est Europa;

2) lavoratori non comunitari che arrivano con i flussi stagionali;

3) migranti subsahariani che sono passati dalla richiesta d’asilo;

4) lavoratori – in genere asiatici – arrivati con un contratto di lavoro nell’ambito della legge Bossi-Fini.

Il primo caso è dunque quello dell’Est Europa. In grandissima parte si tratta di bulgari e romeni, con una componente femminile molto forte. Partono con auto, furgoncini o pullman di linea. Tra i romeni che arrivano in Italia ci sono enormi differenze. Tra i casi estremi, abbiamo persone in con- dizioni di estrema fragilità: analfabeti delle zone al confine con la Moldavia; persone di origine Rom emarginate già in patria; donne con situazioni familiari difficili; famiglie in condizioni di estrema povertà provenienti dalla provincia di Botoani. Formalmente sono libere di andare e venire. Ma proprio l’estrema fragilità della loro condizione le rende ricattabili.

Un mondo del tutto sconosciuto è quello dei flussi stagionali, che riguarda lavoratori non comunitari. I governi ne riducono il numero, mentre le organizzazioni datoriali ne lamentano l’insufficienza. Nell’agricoltura “industrializzata” del Nord Italia, sono un canale importante di reclutamento, anche se non privo di contraddizioni.

Per accedere al permesso di lavoro temporaneo occorre cliccare per primi sul portale del Ministero dell’Interno e sperare nella sorte. In secondo luogo, in zone come l’Emilia e il Veneto c’è carenza di manodopera, in altre come il saluzzese un eccesso.

Infine, arrivare in modo legale non protegge dallo sfruttamento. Tra pianura padana e Nord Est sono frequenti i casi di lavoro grigio e giornate non segnate.

Le vittime della Bossi-Fini vivono una situazione analoga. Sono lavoratori che prima di partire firmano un contratto di lavoro a distanza. A volte magrebini, più spesso indiani punjabi, bangladesi, pakistani. Dietro il contratto si nasconde una truffa con molti attori sia in Italia che all’estero: agenzie specializzate, aziende compiacenti, funzionari corrotti.

Per i migranti c’è il vantaggio di un viaggio poco rischioso, spesso in nave o in aereo. Ma il denaro pagato per comprare il contratto e il visto sarà ripagato con anni di lavoro schiavile. È la situazione tipica dei punjabi della provincia di Latina.

Questo sfruttamento va avanti da decenni ed è favorito dalle stesse leggi italiane, nell’indifferenza della politica che avrebbe tutti gli strumenti per intervenire.

L’ultimo canale è quello maggiormente visibile, tanto che siamo indotti a credere che sia l’unico. Riguarda lavoratori generalmente subsahariani, sbarcati nel Sud Italia, ai quali è riservata la lunga trafila burocratica della richiesta d’asilo, di un diniego molto probabile, di una serie di ricorsi e attese.

Un limbo che dura fino a quattro anni e che quasi sempre trascina in un ghetto. I ghetti sono pieni, da tempo, di diniegati. Solo nel 2017, cinquantacinquemila richieste rifiutate hanno letteralmente creato un serbatoio di manodopera fortemente ricattabile da reperire nei centri d’accoglienza o negli insediamenti informali.

5. Restare dentro un ghetto mentale

“Pensando alla vicenda di caporalato scoperchiata dalla procura di Padova ci si aspetta uno scantinato fatiscente e invece ci si trova davanti a una vecchia villetta anni Sessanta nella campagna di Trebaseleghe”.

Il cronista del “Corriere Veneto” sta seguendo il caso di Grafica Veneta, la tipografia accusata di sfruttare manodopera pakistana. Non nasconde il suo stupore. Come tutti, è abituato ad associare “la nuova schiavitù” al degrado dei ghetti meridionali, non certo alle casette del padovano.

Il ghetto, prima che un luogo fisico, è una barriera mentale. una serie di associazioni meccaniche che ci portano a immaginare la questione circoscritta ai campi di pomodoro del Sud, a schiavi e schiavisti con la pelle nera imperlata di sudore, a un mondo arcaico da riportare alla civiltà con una solida attività ispettiva e repressiva.

In realtà il grave sfruttamento non riguarda soltanto l’agricoltura. Ci sono inchieste per caporalato nel food delivery, nei cantieri navali, nella logistica, nella grande distribuzione. Si lavora a cottimo nelle rifiniture dell’automotive di lusso, c’è sfruttamento nella distribuzione del libro e nelle tipografie. Queste vicende riguardano ogni angolo d’Italia: dal Trentino al Veneto, dal triangolo della logistica Milano-Novara- Piacenza fino alle valli del bergamasco.

Ed è appena il caso di ricordare Paola Clemente per spiegare che la questione non va affrontata dividendo italiani e stranieri, ma sfruttati e sfruttatori.

Questo non significa che tutte le situazioni siano uguali. Chi vive in un ghetto sperimenta condizioni indegne dell’es- sere umano. una condizione costruita attraverso tre negazioni. Il visto che permetterebbe di arrivare in Europa per vie legali; il permesso di soggiorno che garantisce l’accesso ai diritti; un salario degno che aprirebbe le porte a un’abitazione normale.

Al contrario, queste negazioni spingono sempre più verso la marginalità. Anche senza arrivare all’estremo di una baraccopoli, la marginalizzazione porta verso abitazioni di periferia, segregazione, nessun contatto con gli italiani al di fuori dei rapporti di lavoro. Così i migranti restano imprigionati dentro un’identità precaria, divisa tra un’origine ormai lontana e un approdo che ancora non si è materializzato.

Tutto questo è perfettamente funzionale alla filiera di un paese dell’Europa del Sud. Abbiamo quindi lavoratori inferiorizzati, razzializzati, separati da una problematica di tipo sindacale e inseriti in un quadro securitario-umanitario, a base di vertici in prefettura, tendopoli militarizzate, inter- venti di Protezione civile e Ong. Anche i ghetti appaiono funzionali, perché sono condizioni abitative informali e quindi adatte a manodopera ultra-flessibile, che arriva e sparisce giusto il tempo della raccolta. Ecco quindi la brutalità dello sfruttamento selvaggio accanto alla logistica sofisticata della grande distribuzione nazionale e internazionale.

A livello ideologico, non è casuale l’alternanza tra commiserazione (“Poverini in che condizioni vivono”) e il disprezzo (“Ma non potevano rimanere al proprio paese?”.). un’oscillazione che non coglie il vero problema – il sistema dello sfruttamento – e che fornisce una rappresentazione limitata e stereotipata.

A questo va aggiunto il complesso rapporto tra l’Italia e il razzismo. Si parla di razzismo sistemico per indicare una discriminazione permanente, che ha anche un volto istituzionale. Due esempi sono i limiti nell’accesso al permesso di soggiorno e quello alla cittadinanza italiana.

Il razzismo sistemico è generalmente negato, perché “gli italiani sono brave persone” e ”non sono razziste”. Così, sui giornali e nei talk show, uomini bianchi e ricchi chiudono la questione affermando che il tema riguarda la maleducazione di poche mele marce e che le vittime devono resistere e non curarsene. Oppure si scagliano contro la fantomatica cancel culture e contro la “dittatura del politicamente corretto” per concludere con l’immancabile “ormai non si può dire più niente”. In un paese, peraltro, dove politici di primo piano hanno parlato di spari sui gommoni dei profughi.

Un tema fondamentale non è solo l’oggetto di cui si parla ma il soggetto che parla:

“Chi parla  di immigrazione (ma più in generale anche di razzismo, cultura, attualità o religioni) è prevalentemente bianco. Le trasmissioni che ospitano discussioni sul tema sono in prevalenza occupate da politici o giornalisti, perlopiù uomini, che trattano di questioni che non li riguardano in prima persona”, scrive Oiza Q. Obasuyi.

Solo per fare qualche esempio, il razzismo sistemico si manifesta attraverso:

– la generalizzazione: “loro sono abituati a vivere in quelle condizioni”, “loro non sono abituati a ribellarsi”;

– la responsabilità collettiva, per cui per esempio se un tunisino spaccia sono chiamati in causa tutti i suoi connazionali; – l’accettazione di leggi discriminatorie e del diritto speciale: “prima gli italiani”, “se commettono un reato tornano

a casa loro”;
– l’ammirazione verso figure come quelle del white savior:

esempio tipico, la volontaria bianca che abbraccia il ragazzino nero appena sbarcato;

– l’idea per cui le persone di origine straniera e con la pelle nera non sono e non possono essere italiane.

Ma il razzismo è soprattutto uno strumento di gestione aziendale e sottomissione della forza lavoro. Lo provano le numerose indagini della magistratura sul grave sfruttamento. La condizione di ricattabilità permette alle aziende di risparmiare sui salari. La vulnerabilità – permessi di soggiorno in scadenza, documenti negati – è possibile perché si tratta di “loro”, persone inferiorizzate che devono conquistare i loro diritti giorno dopo giorno.

Le campagne, tuttavia, non sono luoghi isolati dove vivono “schiavi” senza consapevolezza. Basti pensare a quello che accade dopo la morte di Gassama Gora, investito in bici lungo le buie strade di Rosarno. Durante una protesta, gli altri braccianti neri innalzano cartelli con scritto “Black lives matters”. Ormai, anche il più sperduto campo di arance del Sud Italia è connesso alle lotte globali.