Diversamente pusher, raccontare i battitori liberi dello spaccio

La Rodhákino era una piccola pesca greca dal gusto non facile, perché non piattamente dolce. La polpa era solida e al contempo succosa, da affondarci i denti con gusto, mentre la pelle, di un bianco sporco sfumato sul rosa, era sottile e leggermente coperta da una peluria che disperdeva nell’aria il suo aroma unico.

Celebrata come “il seno di Afrodite”, questa pesca non esiste più, se non nelle memorie di Nadia Seremetakis – antropologa greca, newyorkese di adozione – che ne ricostruisce la scomparsa e analizza le sovrapposizioni tra il trauma micro-sensoriale dell’eclissi di un’esperienza (non solo) culinaria e le ragioni macro-sociali che lo hanno causano.

L’antropologa non ha dubbi nel puntare il dito verso (quella che fu) la Comunità economica europea, colpevole di essersi fatta portatrice delle pressioni normalizzanti del mercato, impiegando il proprio armamentario normativo per imporre ai contadini greci (ai birrai tedeschi, ai caseifici francesi e così via) quali specialità locali coltivare ed esportare.

Il potenziale economico di altre varietà di pesche (meno aspre e più facili da coltivare a ciclo continuo) ha avuto la meglio sulla peculiarità della Rodhákino, determinando quella che l’autrice descrive come una standardizzazione dei sapori e creando una faglia nelle memorie sensoriali sue e dei suoi cari.

La scelta di iniziare con una ‘banale’ pesca per parlare di un libro su spacciatori freelance e sostanze stupefacenti è dovuta alla capacità dell’analisi di Seremetakis di introdurre uno dei primi insegnamenti di Diversamente pusher. Sebbene a partire dagli anni ’90, dopo “l’olocausto causato dell’eroina”, il mercato della droga si sia diversificato grazie all’introduzione di nuove sostanze (MDMA, ketamina, speed, NPS), a questo incremento dell’offerta è corrisposto una progressiva standardizzazione delle possibilità psicoattive, dovuto alla diminuzione della qualità e della varietà per ciascuna sostanza.

Il libano rosso, libano giallo, le pasticche di mescalina, l’anfetamina pura come dentifricio e la ketamina luccicosa

Fanno così capolino tra le pagine del libro “il libano rosso, libano giallo”, le pasticche di mescalina, l’anfetamina pura “come dentifricio” e la ketamina “luccicosa”; ricordi nostalgici come quelli dell’antropologa greca che mettono in scena una ricchezza di possibili esperienze, non solo psicotrope ma anche di gusto (nell’accezione più ampia di questo termine, dal livello sensoriale fatto di odori, sapori e via dicendo fino a quello sociologico tra imitazione e distinzione), di cui oggigiorno è possibile fantasticare soltanto scorrendo le immagini ad alta risoluzione postate nei mercati darknet.

Proprio come per la Rodhákino l’eliminazione di queste “eccellenze artigianali” ha avuto un movente internazionale, ossia quei trattati e raccomandazioni che dal secondo dopoguerra in avanti hanno provocato a più riprese un inasprimento della normativa vigente, in favore di un proibizionismo coatto.

Per la legge del 1954 (un periodo in cui erano pochissimi i consumatori di sostanze stupefacenti in Italia) e l’ossessione statunitense nei confronti della marijuana consiglio Marihuana: Uno scandalo internazionale di Guido Blumir, mentre sull’infatuazione di Bettino Craxi per la zero tolerance e la disastrosa Iervolino-Vassalli del 1990 si rimanda al volume collettaneo Lotta alla droga. I danni collaterali curato da Franco Corleone e Alessandro Margara.

Possiamo però fare un passaggio ulteriore in merito alle strategie di controllo e alle relative pressioni normalizzanti, spostando – primo – il focus dalle droghe in sé a quei discorsi che sfidano apertamente le interpretazioni egemoniche in materia psicoattiva, e muovendoci – secondo – dall’ordine orwelliano della war on drugs a quello huxleyiano contemporaneo in cui il libro di Pablito el Drito è stato pubblicato.

Questo testo non è stato vessato per il proprio contenuto come non è stato censurato perché dà voce ai ‘venditori di morte’, ma il suo destino – sperando di sbagliarmi – è quello di essere relegato al rango di letteratura minore, rumore di sfondo, privo di quella legittimità necessaria per ricevere l’attenzione dei media generalisti (ad eccezione, bisogna dirlo, de Il Manifesto).

Eppure, non si può certo affermare che i temi trattati in Diversamente Pusher non siano rilevanti o che non vengano sollevate questioni spesso sottaciute, di cui è doveroso iniziare a discutere apertamente e pubblicamente, almeno tra coloro stanchi del semplicismo portato all’eccesso con cui in Italia sono trattate le sostanze stupefacenti. Anche per questa ragione cheFare mi ha dato la possibilità di condividere con voi alcuni spunti, su un libro importante all’interno della (sofferente) letteratura droghifera italiana.

Diversamente pusher – I battitori liberi dello spaccio si raccontano è un’opera corale sapientemente diretta da Pablito el Drito, il quale raccoglie e orchestra 12 racconti – quelle che in sociologia sono chiamate storie di vita – di altrettanti venditori di sostanze stupefacenti, accomunati dall’aver scelto una strategia commerciale specifica: non affidarsi alla grande distribuzione della criminalità organizzata, fondata sulla massimizzazione del profitto (e della violenza) a discapito della qualità del prodotto e della relazione con il cliente, ma spinti da motivazioni etico-controculturali sviluppare le proprie reti alternativi, di acquisto diretto da produttori e fornitori.

Il libro (fortunatamente) non è né un saggio di consumo etico al tempo del narcocapitalismo né un trattato di microeconomia delle reti alternative del narcotraffico, ma prende la forma di una storia orale sulla sperimentazione, l’uso e l’abuso, la vendita e il controllo di droghe nell’Italia degli ultimi 40 anni, dalle prime canne della generazione post-contestazione alle NPS comprate sul web.

Una traiettoria storica in cui non sono mutate solo le sostanze ma anche gli spazi della vendita e del consumo, in quello che ha tutta l’aria di essere uno sfaldamento delle possibilità di contatto diretto e di trasmissioni dei saperi faccia a faccia, perché stando alle parole di questi battitori liberi dello spaccio non sembrano essere subentrati nuovi contesti collettivi ai parchetti di periferia e ai rave, ma è sempre più pressante una chiusura nel privato, alla netflix & chill.

Una questione significativa da rimarcare è come questa storia sia raccontata da un punto di vista specifico, quello di pusher atipici che hanno attraversato e si sono formati all’interno delle diverse subculture giovanili dell’ultima fetta del Novecento. Oltre ad essere presentate le tre fasi tipiche di questa ‘carriera deviante’ (battezzate da Philip Lalander: imparare il gioco, essere in gioco e lasciare il gioco), emerge anche come lo smazzo per loro non abbia assunto semplicemente la funzione di sostentamento o facile guadagno, ma sia diventata l’occasione per attuare una qualche forma di ricerca personale, tra chi ha girato l’Italia o l’Europa e chi ha viaggiato nei k-hole, tra chi voleva “uscire dalla propria educazione e dai propri schemi mentali” e chi ha messo in scena la propria personale epopea da “eroe romantico” fuorilegge.

Percorsi presentati senza fronzoli e, soprattutto, non edulcorati, dato che dopo l’esaltazione iniziale non sono omessi gli esiti più drammatici sia dell’infogno, con le sue conseguenze fisiche e psicologiche, sia della vendita di quantitativi sempre più ingenti di stupefacenti, con le intimidazioni dei clan, gli arresti e i periodi in carcere, fino ad arrivare al dolore provocato ai propri cari: “la cosa che mi ha spaventato di più è stato vedere come stava reagendo mia madre. Era a pezzi.”

Il lavoro di un attivista e storico delle controculture come Pablito deve essere accolto con favore perché può diventare una fonte di spunti e riflessioni critiche

Per la prospettiva e le persone interpellate, questo testo si inserisce in maniera originale all’interno della letteratura italiana in materia. I cosiddetti alcohol and other drug studies hanno da sempre goduto di poca salute nel nostro paese, per l’atavica scarsità di fondi destinati alla ricerca, ma anche per una certa ritrosia nell’approcciare questo mondo complesso e multiforme andando oltre i due paradigmi dominanti, vale a dire quello medico e legale.

Pertanto, il lavoro di un attivista e storico delle controculture come Pablito deve essere accolto con favore perché può diventare una fonte di spunti e riflessioni critiche. Focalizzandoci sulle pubblicazioni specifiche sul traffico di stupefacenti e le economie locali della droga, Diversamente pusher conferma i risultati di altre ricerche, come la divisione del mercato segnalata da Monica Massari tra un settore organizzato e chiuso perché coperto dalle mafie, relativo a sostanze ad alto rendimento economico (eroina e cocaina), e un altro disorganizzato e informale di sostanze di nicchia (MDMA, ketamina) in cui si muovono i pusher free-lance; mentre, invece, passano inosservati alcuni importanti cambiamenti in corso, come la normalizzazione dei pusher, un’attività compiuta sempre più da soggetti ‘normali’ senza esperienze criminali alle spalle o pretese controculturali (si guardi il report della ricerca di Letizia Paoli e colleghi) o l’affacciarsi sulla scena di nuove organizzazioni criminali d’importazione (si rimanda ad uno dei primi studi in materia, quello dei Vincenzo Ruggero sul marijuana business degli albanesi o al più recente I dannati della metropoli di Andrea Staid).

In ogni caso, non può essere sottostimata l’unicità e la rilevanza di Diversamente pusher, perché per la prima volta è data voce agli spacciatori che ci mostrano questo mondo dal loro punto di vista.

Un approccio che all’estero può contare su studi etnografici tanto rilevanti da essere diventati delle vere e proprie pietre miliari, come Cercando rispetto: drug economy e cultura di strada di Phillippe Bourgois – in cui la vita di piccoli venditori originari di Puerto-Rico è lo spunto per una riflessione gramsciana sul potenziale politico della street culture e i suoi limiti – o Sexed Work: Gender, Race and Resistance in a Brooklyn Drug Market di Lisa Maher – in cui è ribaltato il miserabilismo che vittimizza le donne all’interno del mercato della droga, aprendo gli occhi sulle loro scelte e motivazioni in contesti caratterizzati da povertà strutturale e molteplici forme di discriminazione – ma che nel nostro paese non ha ancora contributi tanto significativi.

Sebbene l’opera di montaggio compiuta da Pablito abbia un forte potere evocativo e informativo, sembra però volersi limitare a descrivere la realtà, rimanendo sullo sfondo, come se questa storia si fosse costruita da sé. Dietro questa frase di nascondono due critiche: la prima più di natura stilistica/metodologica è la difficoltà nel capire dove finiscono le parole dei pusher e dove inizia il racconto dell’autore. Non si vuole certo accusare Pablito di strumentalizzazioni, ma piuttosto segnalare come il discorso risulti troppo raffinato, non nel senso comune del termine, ma come la farina, eccessivamente lavorata.

Mancano, infatti, quelle idiosincrasie personali (nelle parole impiegate, nello sviluppo delle argomentazioni o nelle posizioni assunte) che avrebbero restituito maggiore personalità ad ognuno dei suoi interlocutori, come dimostrano altre oral history, ad esempio Addicts Who Survived: An Oral History of Narcotic Use in America before 1965 di Courtwright e colleghi. La seconda, relativa al contenuto, concerne quelle questioni accennate dai battitori liberi che avrebbero meritato molto più spazio.

Mi riferisco sia agli attacchi rivolti a SerT (“il SerT rovina tanti”) e centri sociali (colpevoli di un “atteggiamento ambiguo” perché favorevoli all’antiproibizionismo, senza però “sporcarsi le mani per far circolare cose buone”, non provenienti dal mercato della mafia), sia ai nuovi scenari aperti per il futuro, come l’impiego del darkweb all’interno di una prospettiva di riduzione del danno o l’hackeraggio per la “realizzazione fai da te delle droghe” (a cui personalmente aggiungerei la necessità di guardare a quanto trans e xeno-femminismo hanno da insegnare sulla sovversione dei sistemi di controllo delle bio-tecnologie e sul loro potenziale micropolitico).

l’immaginario e il trauma scatenato dall’eroina sono ancora impiegati da buona parte della politica come dispositivo di consenso

Temi originali, meritevoli di essere integrati nell’introduzione o in una postfazione, in cui l’autore oltre a tirare le file dell’inchiesta e presentare la sua posizione, avrebbe potuto illustrare questi punti di vista alternativi, con l’obiettivo di favorirne la circolazione.

Per concludere, sono passati molti anni ma l’immaginario e il trauma scatenato dall’eroina (o meglio: dalla risposta negligente con cui la società italiana ha affrontato il problema) sono ancora impiegati da buona parte della politica come dispositivo di consenso, scatenando e strumentalizzando i medesimi sentimenti collettivi di paura, nonostante il mondo della droga sia radicalmente mutato.

Il mercato non è più dominato dall’eroina, dato che le sostanze si sono moltiplicate e hanno effetti/conseguenze molto diversi, così come sono differenti le conoscenze in materia e le caratteristiche dei consumatori, eppure si continua a riprodurre, da un lato, un terrorismo psicologico fondato sulla vittimizzazione del consumatore e sull’azione additiva e criminogena delle droghe, mentre dall’altro si risponde ai problemi droga-correlati con un proibizionismo che oltre a non risolvere la situazione, la esaspera in maniera colpevole perché, sintetizza Maurizio Cianchella, “è piuttosto uno dei fattori di maggiore disordine, un favore alla criminalità organizzata, una concausa del fenomeno della microcriminalità”.

Se questa continua ad essere la situazione del nostro paese, è necessario insistere per abbattere la prospettiva dominante che banalizza ogni questione relativa alle sostanze stupefacenti in termini di dramma, colpa e punizione, per richiamare l’attenzione sull’eterogeneità delle droghe, dei contesti e dei consumatori. All’interno di questo spazio di complessità, un testo come

Diversamente pusher oltre a presentarci la prospettiva unica di pusher free-lance, può servire per ripensare e ricostruire la rappresentazione sociale degli spacciatori e dei consumatori-spacciatori, in modo da superare la visione reazionaria del ‘venditore di morte’ (al riguardo consiglio il report del progetto Rethinking the “Drug Dealer).

Oltre ad essere dei veri e propri esperti in materia, molti tra i battitori liberi intervistati da Pablito affermano di aver “sempre avuto una certa etica”, pertanto non stupisce come all’estero stiano aumentando (non senza difficoltà) i tentativi di coinvolgere anche i pusher in iniziative di riduzione del danno, perché possono diventare un ponte tra i servizi e quei consumatori più difficile da raggiungere (come spiegano numerosi esperti interpellati da Filter magazine).