Rigenerazione urbana e processi partecipativi. Intervista a Lorenzo Tripodi

Da 5 anni cheFare cura un programma di incontri sulla trasformazione culturale al festival mantovano FattiCult (Fattidicultura). Quest’anno – dopo un incontro sui mestieri della cultura con un centinaio di ragazzi delle scuole superiori – abbiamo riunito attorno a un tavolo tre figure eterogenee per riflettere sul rapporto tra spazi, rigenerazione urbana e cultura: l’architetto e attivista milanese Federica Verona, l’urbanista e film-maker berlinese Lorenzo Tripodi e l’artista nomade Riccardo Arena. Perché questa scelta? Negli ultimi anni il dibattito sul senso politico, sociale e culturale della rigenerazione urbana si è fatto sempre più esteso ed approfondito. Secondo noi di cheFare è urgente iniziare a guardare ai grandi processi di trasformazione urbana anche con occhi diversi da quelli dell’urbanistica, della sociologia e dell’economia. Per questo ci siamo rivolti a tre sguardi diversi e trasversali che si interrogano sul senso dei luoghi e su come questo cambia al mutare della città.

Questa è la seconda di una serie di brevi interviste (qui la prima a Federica Verona) in cui esploriamo alcuni degli aspetti toccati nei loro interventi. Lorenzo Tripodi da decenni ricerca la città con strumenti molto diversi. Si muove tra gli ambiti della ricerca urbanistica “pura”, dell’attivismo per la giustizia spaziale – attraverso il lavoro del collettivo Ogino:knauss – e dell’indagine artistica tramite le immagini.

tripodi, ogino

Foto di Manuela Conti/oginoknauss

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una nuova ondata di interesse per la rigenerazione urbana ed i processi partecipativi; forse non è un caso che stia succedendo dopo lo scoppio della bolla finanziaria-immobiliare del 2008. Si tratta però di un percorso che viene da lontano; nel tuo lavoro di ricerca e di progettazione hai avuto modo di confrontarsi con diverse fasi, contesti e letture del rapporto tra processi partecipativi, pianificazione e città. Come leggi il momento in cui ci troviamo adesso?

Nella tua domanda si articolano tre elementi estremamente rilevanti, ciascuno dei quali con una una sua dimensione autonoma: la rigenerazione degli spazi (urbani), la pratica/discorso della partecipazione, e la dimensione finanziaria, nello specifico la finanziarizzazione del patrimonio immobiliare. Potrebbero essere analizzati separatamente, ma l’aspetto che a me personalmente interessa di più è proprio quello che li connette, che li attraversa e li rende parte dello stesso processo.

È un paradigma essenziale della tarda modernità, ovvero il ruolo essenziale della produzione di immagine – inteso come complesso tecno-politico che assume un ruolo dominante nella trasformazione spaziale cosi come in quella sociale. Nel corso degli ultimi anni questa dominanza ha acquisito una valenza sempre maggiore, agendo come catalizzatore e omologatore di processi. Ecco che rigenerare gli spazi diventa sempre di più rigenerare l’immagine di uno spazio, per far si che attraendo capitali, stakeholders e idee la trasformazione spaziale possa avvenire in concreto (e spesso senza che questa concreta trasformazione sia necessariamente l’obbiettivo perseguito o conclusivo, spesso bastando la rinnovata immagine e relativa mobilizzazione di capitali, simbolici o finanziari, ai propositi di chi la promuove).

Ecco che fare partecipazione diventa promozione di processi urbani, diventa piattaforma, acquisisce dinamiche da social media, con tutti i rischi di cooptazione e le contraddizioni inerenti ai nuovi modelli di estrazione di valore da pratiche co-produttive nominalmente open e free. Ed ecco che gli spazi urbani sono fondamentalmente progettati, trasformati, e gestiti in virtù del loro potenziale valore come assets finanziari piuttosto che come beni comuni e diritti universali, e che tale capacita di estrarre valore diventa totalmente dipendente dalla capacità di controllare l’immagine, la comunicazione, l’attribuzione di significato ai luoghi. Nel mio lavoro ho definito questa convergenza “Urbanismo Cinematico”, riferendomi alla teoria di Beller del “Cinematic Mode of Production” alla radice delle economie urbane emergenti, ma anche al concetto di  Paul Virilio di “logistica della percezione”, e naturalmente alla idea di Società dello Spettacolo di Guy Debord.

Quindi, per venire alla tua domanda, io leggo questo come il momento di pieno compimento della città cinematica, un momento  in cui la convergenza del processo di produzione spaziale e quello di immagine sono totalmente fusi e confusi, in cui le tecnologie della comunicazione instaurano una condizione di totale e pervasiva interconnessione, in cui si determina a livello antropologico una maniera totalmente nuova di relazionarsi allo spazio urbano.

Ho chiamato questa nuova condizione “Urbiquità tecnologica” in un articolo in via di pubblicazione, riferendomi alla capacita, acquisita tramite i dispositivi personali che tutti portiamo in tasca, di accedere da situazione remote a tutto ciò che un tempo era ragione per la città di esistere come entità spaziale discreta, ma allo stesso tempo, alla capacita del dispositivo tecnologico globale di accedere al nostro corpo come risorsa, tracciare e monetizzare ogni nostro gesto. Il nostro modo di sentire città è sempre più filtrato attraverso informazioni aggregate tramite crowdsourcing e processate dalle corporation della Sylicon Valley.

Lo spazio, nella definizione di Rob Kitchin, diventa “spazio/codice”. Questo determina una esperienza della città a portata di pollice, in cui ci orientiamo, scegliamo dove andare, come consumare ma anche come interpretare e valutare il territorio attraverso la mediazione di Google Maps, Yelp, Trip Advisor etc.

Scegliamo in nostri percorsi meno attraverso il tradizionale senso dei luoghi e più attraverso likes, stelle, e flags apposte a rappresentazioni territoriali esperite come continuum planetario. In questo contesto rigenerare territori si risolve strategicamente nell’implementare la loro sfera simbolica, aumentarla di contenuti semantici e dati; la partecipazione si misura in termini di crowdsourcing, secondo la logica della attention economy, e della presunta democratizzazione indotta dalle sharing platforms, e allo stesso modo se ne misura il valore, in termine di produzione di attenzione, di dati, di interazioni mediate. Siamo scivolati in questa condizione con una naturalezza straordinaria, ma ancora non abbiamo realizzato cosa questa condizione sottende in termini di infrastrutture soggiacenti, di relazioni di potere oscure, e dettaglio non secondario, di dispendio energetico per mantenere il sistema in forma.

tripodi, ogino

Foto di Manuela Conti/oginoknauss

Una parte del tuo lavoro analizza da molti anni le trasformazioni urbane utilizzando la lente privilegiata della visione. Quali sono gli strumenti che utilizzi? Quali sono gli elementi principali che vedi emergere nella città contemporanea da questo punto di vista?

In questo scenario, sempre di più l’urgenza è quella di smontare la visione, e il predominio dell’immagine per capirne i processi formativi e gli equilibri di potere che producono l’immagine. Come ho scritto altrove, la città cinematica ha trasformato i muri – una volta l’elemento fondamentale di una urbanistica del contenimento, della difesa e della gestione dei flussi materiali – in schermi:  dispositivi improntati alla logistica della percezione, superfici semantiche dedicate alla distribuzione di immagini, membrane attive che regolano flussi di dati e rappresentazioni fluide. Cosa c’e dietro, l’impalcatura, l’hardware, i protocolli di controllo ed estrazione di valore, chi possiede, chi decide, chi sfrutta questo complesso planetario; tutto questo rimane spesso invisibile ed ignoto ai più, arcano da decodificare, e quasi impossibile da disinnescare. Il lavoro che faccio si concentra quindi soprattutto su questa pratica di smontaggio, di decodifica degli assemblaggi che costituiscono la complessità della natura urbana in cui siamo immersi.

Forse il progetto più significativo è quello degli Exercises in Urban Reconnaissance, una vera e propria scatola di attrezzi metodologica per districare la complessità di aspetti che determinano l’identità urbana; è una metodologia di ricognizione, termine che richiama sia la pratica militare – conoscere il territorio come precondizione alla sua conquista o controllo – sia la necessita di ri-conoscere forme e forze che sono soggiacenti, opacizzate, che tendono a sfuggire ad una percezione superficiale anche se sono di fatto note e presenti a livello inconscio.

È una metodologia di base che abbiamo sviluppato come collettivo ogino:knauss nel corso di un ventennio di derive tra territori e immaginari, e che costituisce la base per interventi e progetti di vario tipo, ad esempio ReCentering Periphery. Anche quest’ultimo è un progetto di lungo corso, una esplorazione ai margini dei territori urbani prodotti dall’ideologia modernista e delle forme di resistenza e di riappropriazione che nascono nelle comunità locali ai margini.

La nuova fase del progetto l’abbiamo chiamata Urbiquity 2018 proprio per dirottare l’attenzione sulla condizione di iperconnessione di cui sopra, per capire come i territori della periferia vengono ad essere influenzati, ridefiniti da questa nuova capacita connettiva, dai flussi di immagini, dai social media. E anche prendere atto che questa nuova visibilità e connettività niente ha mutato in termini di redistribuzione delle risorse, giustizia sociale e autodeterminazione, anzi la polarizzazione tra centri e periferie paradossalmente ne risulta accentuata.

Infine, uno degli aspetti che trovo essenziali per comprendere la città contemporanea, in aperta sfida al mio ruolo nominale di artista visivo, è che il predominio della visione, ed in particolare dell’immagine mediata, ha bisogno di essere messo in discussione, sfidato anche attraverso altri sensi, quindi capacità di ascolto, rapporto tattile e olfattivo, sapori. Il senso della città va compreso attraverso la pluralità dei sensi, ma anche la pluralità dei punti di vista, per capire la natura dello spazio urbano come regno della differenza e del diritto alla differenza, che è la mia interpretazione personale del concetto molto evocato ai nostri giorni di Right to the City.


Immagine di copertina: photo by Christian Bartsch