Rosetta. L’identità come relazione

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“Si deve distinguere incessantemente il problema dell’ospitalità in senso stretto dai problemi dell’immigrazione, dai controlli dei flussi migratori: non è la stessa dimensione, sebbene le due siano inseparabili.” Mentre, infatti, l’ospitalità possiede, e deve conservare, un carattere “incondizionale”, l’invenzione politica ha il compito di trovare la legislazione migliore o, se non altro, la migliore possibile. Tenendo sempre presente che non esiste un “criterio preventivo” né una “norma preliminare”, ma che si deve sempre inventare in una situazione concreta, “affinché l’ospitalità sia rispettata nella migliore maniera possibile”.


Il 30 marzo Rosetta arriva al Beltrade per parlare di migrazioni, degli immaginari e dei progetti che generano e portano con sé. Alle 18:30 il filosofo Umberto Curi, il regista Suranga Deshapriya Katugampala, lo studioso di design Ezio Manzini e l’artista Adrian Paci risponderanno alle domande di Valeria Verdolini, a seguire aperitivo con dj set a cura di Matteo Saltalamacchia. Alle 21:30 verrà proiettato per la prima volta il film “Per un figlio”, di Suranga Deshapriya Katugampala.


Altro è, insomma, l’ospitalità, in se stessa irriducibile ai condizionamenti della politica e perfino dell’etica. Altra cosa sono, invece, le politiche specifiche mediante le quali si possono affrontare le questioni storicamente determinate connesse con il fenomeno dell’immigrazione. Con l’avvertenza fondamentale che questa imprescindibile distinzione non può far dimenticare l’indissolubile connessione che pure sussiste fra le due dimensioni. Se è vero, dunque, che la politica e il diritto non possono essere semplicemente “dedotte” dalle regole “incondizionali” dell’ospitalità, è altrettanto vero che esse non possono contraddirla, invocando semplicemente il vincolo delle “condizioni”.

Paurosamente carente sull’uno e sull’altro terreno è l’attuale dibattito politico-culturale riguardante i temi del rapporto con quell’“altro” che è lo straniero. Si decide intorno a questa figura, si varano provvedimenti normativi che pretendono di essere scolpiti nel marmo e che invece sono al più scritti sulla sabbia, senza essersi presi la briga di chiarire preliminarmente quale sia il significato dei termini di volta in volta impiegati per definire i destinatari di queste norme.

Extracomunitari, migranti, immigrati, clandestini, stranieri – neppure nella scelta dei termini da impiegare si può cogliere quel rigore e quella consapevolezza che, viceversa, dovrebbero essere massimamente perseguiti, nel momento in cui ci si assuma il delicato onere della legiferazione. La mancanza di qualsiasi chiarezza dal punto di vista concettuale si riflette inevitabilmente nella miseria dell’orizzonte culturale cui le diverse norme si ispirano. Giungendo al paradosso di misure legislative sempre più dettagliate e restrittive, riferite a una figura definita in maniera sempre meno chiara e sempre meno univoca.

Denominatore comune alle modalità solo apparentemente differenti, con le quali la tematica generale dello straniero viene abitualmente affrontata soprattutto in Europa, è la paura. Rivolta originariamente verso coloro la cui diversità appariva già dal colore della pelle, e successivamente dislocata verso i provenienti da un altro continente, poi verso i transfughi da paesi appena al di là del mare, e infine verso i superstiti di quella immane tragedia storica che è stato il comunismo. Paura come sintomo inconfondibile della pregiudiziale indisponibilità a istituire un rapporto, come riflesso di una insicurezza invincibile, come testimonianza dell’incapacità di riconoscere un dato fondamentale, e cioè il fatto che la relazione con l’altro costituisce la condizione senza la quale non è possibile il riconoscimento e l’affermazione della propria identità.

Di questa paura occorre prendersi cura – non limitandosi semplicemente a censurarne le manifestazioni né, ancor meno, ad alimentarla al solo scopo di trarne profitto in termini politici. Quella paura indica che, per quanto confusamente, si è colto un punto decisivo, nel senso che questo altro che mi si pone di fronte, ove esprima una reale alterità e non sia solo una proiezione sbiadita della mia identità, mi obbliga a rimettermi in discussione, mi chiama a un confronto cui non posso sottrarmi. Se appropriatamente “curata”, e non strumentalmente utilizzata, quella paura può diventare un elemento essenziale nella costruzione di una relazione di ospitalità, in quanto rende chiara fin dall’inizio la natura intrinsecamente ambivalente di quella relazione.

Ciò perché l’hostis – originariamente, insieme ospite e nemico – non è mai portatore di una totale estraneità, né è espressione di una dissomiglianza talmente radicale da poter essere considerata del tutto indipendente dalla nostra identità. Al contrario, egli è piuttosto il polo di un rapporto, l’altro termine di un binomio dal quale non posso prescindere. Nessuna compiuta identità può essere definita, nel senso preciso di ciò che possiede chiari confini, senza un nesso vitale con ciò che, essendo altro e diverso, concorre in maniera decisiva a stabilire l’identità specifica di ciascuno. Dell’hostis non possiamo fare a meno – non possiamo “scegliere” se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo perché la fa essere, ma anche perché la fa – potenzialmente – non essere; non solo perché la determina positivamente, ma anche perché la minaccia dall’interno.

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Pubblichiamo un estratto da Straniero di Umberto Curi

Se si ignora questo, e tutto ciò che in esso è implicato dal punto di vista storico-culturale, si resta privi di quella consapevolezza elementare senza la quale ogni atto o comportamento risulterà inevitabilmente arbitrario, quali che siano le “intenzioni” che ne sono a fondamento.

Nelle antiche carte geografiche, “Hic sunt leones” (qui ci sono i leoni) era la denominazione con la quale venivano indicate le terre ignote o poco esplorate dell’Africa e dell’Asia, ancora avvolte dal mistero. Quella scritta, sopravvissuta fino a che l’esplorazione dell’Africa non fu portata a compimento, segnalava che il territorio, benché sconosciuto, conteneva una minaccia.

Ma l’attrazione per le risorse e i tesori presenti in quelle zone del mondo indusse a non piegarsi alla paura, intraprendendo i viaggi che avrebbero condotto alla conoscenza dell’ignoto, e dunque alla cancellazione dalle carte di quell’iscrizione. Si scoprì così che i doni connessi allo svelamento del mistero, ancorché indissolubili dalla minaccia, erano talmente preziosi da risultare irrinunciabili.