Cosa ha da insegnarci il rapporto tra globale e locale nel campo della salute mentale

Il rapporto tra programmi globali e pratiche locali nel campo della salute mentale è un paradigma che può valere anche anche in altri settori come, ad esempio, quelli dell’agricoltura, dell’alimentazione e delle risorse ambientali.


Abbiamo bisogno di visioni del bene pubblico sufficientemente forti, belle, vere, piene di speranza e condivisione ma non tanto forti da divenire ideologie. Esiste una visione del bene comune che non divenga ideologia del bene comune?

Ci chiediamo se la diffusa (e abusata) nozione di «globale» non sia un esempio paradigmatico di una visione del bene pubblico che, nata con la fondazione delle Nazioni unite nell’immediato dopoguerra e, allora, piena di speranza e di condivisione, si sia trasformata nel tempo in un’ideologia o meglio nella giustificazione ideologica di molti aspetti del neocolonialismo.

L’associazione tra salute mentale e sviluppo resta un enunciato politically correct che non si traduce mai in un’associazione effettiva di interventi integrati di salute mentale, di riduzione della povertà e di intervento sulle disuguaglianze sociali

A ben guardare, vi è un’ampia letteratura che dimostra come gli approcci globali allo sviluppo delle politiche sanitarie abbiano sistematicamente fallito l’obiettivo di riuscire a rispondere ai bisogni delle comunità locali. Uno scritto di Thomas, per esempio, si riferisce specificamente alle politiche di salute mentale e pronuncia una sentenza severa e definitiva sul fallimento sistematico di ogni approccio globale nel campo delle politiche sanitarie. Molto probabilmente la realtà è più variegata di quanto ritenga Thomas e gli indubbi fallimenti degli approcci globali non devono tuttavia offuscare alcuni importanti risultati ottenuti. Ad esempio, non vi è dubbio che il discorso della global mental health abbia consentito alle questioni di salute mentale di uscire dalla nicchia delle malattie psichiatriche e integrarsi alle grandi questioni di salute globale e di sviluppo.

Così come non vi è dubbio che il discorso della global mental health abbia consentito alle questioni dei diritti violati delle persone con malattie e disabilità mentali di venire allo scoperto e diventare oggetto di discussione e indignazione pubblica. Non vi è dubbio, infine, che il discorso della global mental health abbia anche consentito l’introduzione di maggiore rigore scientifico sia nella discussione sulla prevalenza e diffusione delle malattie mentali sia sulle valutazioni di efficacia dei trattamenti.

La questione dei diritti è entrata nel grande dibattito globale giuridico e politico ma non è ancora parte integrante del discorso e delle pratiche della psichiatria

Tuttavia ognuno di questi aspetti positivi sconta altrettanti aspetti negativi: di fatto l’associazione tra salute mentale e sviluppo resta un enunciato politically correct che non si traduce mai in un’associazione effettiva di interventi integrati di salute mentale, di riduzione della povertà e di intervento sulle disuguaglianze sociali.

Se la questione dei diritti è potuta entrare nel grande dibattito globale giuridico e politico, tuttavia essa stenta a divenire parte integrante del discorso e delle pratiche della psichiatria che resta indifferente o ostile. La cultura dell’evidence based medicine ha, di certo, positivamente influito sulla cultura degli esperti di linee guida ma non ha modificato gli abiti prescrittivi correnti segnati o dall’ignoranza o dalla compiacenza alla pressione del mercato.

Infine, la maggiore facilità a valutare e produrre evidenze a proposito di trattamenti semplici ha contribuito a promuovere solamente trattamenti semplici (più agevolmente valutati con rigore) e ha progressivamente fatto rinunciare a trattamenti più complessi e soprattutto alla promozione di interventi che trasformano e innovano il sistema dei servizi. Simili limiti e analoghi fallimenti sono evidenti anche nel campo più generale della salute globale.

L’assemblea generale dell’Oms del 2013 ha approvato l’intelligente e innovativo Mental Health Action Plan 2013-2020, ma queste grandi direttive restano ferme al livello dei Ministeri e assai raramente arrivano a toccare i servizi

I limiti del discorso globale sono infatti palesi: un’epistemologia psichiatrica tanto universale quanto fragile nei suoi assunti, una pervasiva presenza degli interessi dell’industria farmaceutica, un’egemonia culturale delle organizzazioni e lobby professionali, un universalismo tecnico e culturale delle agenzie globali (inclusa l’Organizzazione mondiale della salute) che si limita a enunciazioni di principio o a indicazioni normative ma che stenta a confrontarsi con la realtà dei paesi reali e soprattutto delle comunità locali.

L’autorità morale e tecnica delle agenzie delle Nazioni unite ha un indubbio effetto benefico quando indica le grandi direzioni della sanità pubblica, ma ovviamente tali grandi direzioni, quando realmente applicate, possono assumere orientamenti molto differenti e spingere verso – o allontanarsi – da obiettivi realmente innovativi e capaci di rispondere ai bisogni delle comunità locali.

Ad esempio, anche se c’è da compiacersi per il fatto che l’assemblea generale dell’Oms del 2013 abbia approvato l’intelligente e innovativo Mental Health Action Plan 2013-2020, tuttavia queste grandi direttive si fermano al livello top (ossia i Ministeri della salute dei paesi) ma assai raramente discendono al livello down (ossia la realtà dei servizi sanitari).

Le migliori pratiche realizzate a livello locale sono destinate a restare “dal basso” e a non influire sui processi decisionali ai livelli più alti

Questo limite drammatico si ritrova non solo se analizziamo l’impatto reale dell’Oms nei paesi ma, più in generale, se analizziamo la frattura sistematica fra il discorso delle Nazioni unite e la realtà dei paesi a esse associati. Idee e direttive top-down sono destinate a restare top così come pratiche eccellenti realizzate localmente, ossia down, faticano a produrre impatto sui livelli decisionali più alti (come è il caso delle pratiche locali innovative che non riescono a diventare politiche nazionali).

Dunque, ahimè, anche pratiche down sono destinate a restare down e a non influire sui processi decisionali top. Non si tratta di pessimismo ma di una semplice constatazione da cui partire per riflettere su come rendere efficace e realmente interattiva la dinamica top-down e down-top. Infatti se esiste una retorica del globale esiste anche una retorica del locale.

Così come esistono i vati dell’una o dell’altra dimensione: forse i primi, globalisti, non estranei alla cultura deteriore del neoliberalismo e della globalizzazione selvaggia e i secondi, localisti, non estranei ai rischi del tribalismo comunitario che facilmente trasforma il bisogno di democrazia locale in regressione, chiusura alla modernità e xenofobia culturale. Dunque, non si tratta di sposare nessuno dei due poli ma piuttosto di assumere la complessità della questione proprio per evitare i rischi della sua polarizzazione.

Non si tratta di sposare nessuno dei due poli ma di assumere la complessità per evitare i rischi della sua polarizzazione

La questione potrebbe formularsi in maniera lapalissiana, ma ciò nondimeno utile: le virtù del discorso globale e quelle del discorso locale devono trovare un punto di incontro e sinergia a evitare che il relativismo culturale e le chiusure localiste si ritrovino in un’alleanza esplosiva con l’arroganza onnipotente e mercantile globalista: le conseguenze sarebbero, e sono, catastrofiche e peraltro anche frequentemente osservabili. Vi è un possibile bridging di locale e globale che faccia sì che «the global and the local can become reciprocal instruments in the deepening of democracy» (come scrive Appadurai) ?

Questo è il quesito centrale che dobbiamo porci se vogliamo comprendere perché ci sono stati tanti fallimenti dei programmi di salute globale che, a loro volta, erano stati concepiti per soccorrere le fallimentari politiche locali dei paesi a basso e medio reddito. Dunque, fallimenti locali e fallimenti globali.

Nel 2010, Stewart, Keusch e Kleinman osservano che l’oramai storico e proverbiale fallimento dei modelli di primary health care nei paesi poveri è imputabile: a) alla verticalità dei programmi che si concentrano su singole malattie; b) al modello biomedico tradizionale di controllo delle malattie che ignora il contesto culturale e i determinanti sociali; c) alle gravi disuguaglianze nell’accesso al sistema sanitario.

La distanza fra la comprensione del locale e la logica dei programmi globali è decisamente immensa e finché i soggetti locali saranno esclusi dalla concezione e diffusione dei programmi di intervento, questa lontananza sarà d’ostacolo ostacolo agli interventi

Troppo spesso almeno, uno di questi errori sistematici è presente nei programmi globali di salute mentale, e anche questo ne spiega i ripetuti fallimenti. La distanza fra la comprensione del locale e la logica dei programmi globali è decisamente immensa e fintantoché i soggetti locali saranno sistematicamente esclusi dalla concezione, produzione, assemblaggio e diffusione dei programmi di intervento, tale lontananza agirà come ostacolo all’accettazione e all’implementazione degli interventi.

Vi è, infatti, e troppo frequentemente, un’adozione puramente rituale della nozione di locale, una sorta di doveroso riconoscimento dell’esistenza dei soggetti locali che vengono sì riconosciuti ma come recipienti più che come protagonisti.

Ovviamente il linguaggio del politically correct non esplicita mai la condizione di passività e dipendenza del locale ma, invece, invia messaggi rassicuranti sul rispetto delle culture locali, delle lingue, delle specificità dei bisogni, ecc. Ma, fatti salvi questi rituali linguistici, resta la convinzione profonda dell’universalità del modello biomedico occidentale e dei trattamenti che si trasformano in merci da esportazione.

C’è da chiedersi se la deep democracy di Appadurai non sia indispensabile anche alla comprensione dei contesti in cui i programmi di salute dovrebbero essere sviluppati

Arjun Appadurai, a proposito del rapporto fra Stato nazionale e realtà locali, scrive che «la località per il moderno Stato nazionale è un sito dedicato alla nostalgia, a celebrazioni e commemorazioni funzionali al modello nazionale, oppure non è altro che una condizione necessaria per la produzione di cittadini nazionali».

Possiamo senza sforzo trovare analogie cogenti fra quello che Appadurai descrive come relazione fra Stato nazionale e realtà locale, quando analizziamo la relazione fra la psichiatria come discorso e modello universale che si globalizza nelle realtà locali attraverso efficienti agenti locali (gli psichiatri) che hanno scelto il discorso globale e non riconoscono più la domanda che il locale formula. C’è da chiedersi se la deep democracy di cui parla Appadurai non rappresenti una dimensione indispensabile anche alla comprensione dei contesti in cui i programmi di salute dovrebbero essere sviluppati:

La democrazia profonda è la democrazia più prossima, più a portata di mano, la democrazia del quartiere, della comunità, delle relazioni di sangue e dell’amicizia, che si esprime nelle pratiche quotidiane della condivisione delle informazioni, della costruzione delle abitazioni e dei servizi igienici, e del risparmio (visto come base su cui fondare una federazione all’interno di questo network globale) […]. La democrazia profonda è una democrazia pubblica in quanto interiorizzata nella linfa vitale delle comunità locali e divenuta parte, a livello locale, dell’habitus, nel senso reso celebre da Pierre Bourdieu.

Le grandi organizzazioni internazionali che appartengono al sistema delle Nazioni Unite, i grandi centri accademici di ricerca e insegnamento, le grandi organizzazioni non governative internazionali hanno certamente il compito di promuovere la riflessione sui grandi temi della salute e dello sviluppo, di mettere in rete e rendere disponibili conoscenze e buone pratiche, di promuovere ricerca e formazione, di stimolare la cooperazione tecnica e la solidarietà internazionale sui temi della salute, dei diritti e dello sviluppo.

uno sforzo grande di scambio, di conoscenza, di continuo aggiustamento critico del globale verso il locale e del locale verso il globale

Questo compito deve essere, tuttavia, svolto con la preoccupazione costante di mantenere attivo e critico il contributo degli attori locali, ossia le autorità sanitarie dei paesi, i gruppi professionali e le comunità dei cittadini attraverso le loro diverse espressioni e rappresentanze. Si tratta di uno sforzo grande di scambio, di conoscenza, di continuo aggiustamento critico del globale verso il locale e del locale verso il globale.

Ogni mitizzazione di un polo rispetto all’altro non può che essere foriera di disastri: un pensiero globale che si ritiene assolto dal confronto con la propria relatività è destinato a generare pensiero e pratiche coloniali; ma un pensiero locale che si ritiene legittimato esclusivamente dal proprio radicamento locale è destinato a generare pensiero e pratiche caratterizzate dalla paranoia culturale e sociale. È molto probabile che la dimensione personale della moralità (ossia dei singoli che operano con ruoli e funzioni diverse nei progetti di costruzione della salute collettiva) e la dimensione collettiva dei diritti (ossia l’insieme delle garanzie politiche, sociali e giuridiche che ogni comunità locale o nazionale esprime sia come conquista attuale sia come movimento emancipativo) costituiscano i vettori della costruzione di salute collettiva e dell’incontro fra strumenti globali e strumenti locali.

La ratio tecnologica della medicina non può costituire di per sé un vettore ma soltanto un complemento tecnico dei vettori principali: i diritti collettivi e la moralità individuale.

Il discorso della salute globale è sempre più influente e pervasivo anche se le sofferenze locali non sembrano beneficiare di questa espansione

Il paradigma del discorso globale nel campo della salute e la sua pericolosa commistione e complicità con gli interessi delle multinazionali della medicina è anche fortemente condizionato da una funzione che viene assegnata alla salute globale dalle grandi potenze, ossia uno strumento di soft power in contrapposizione all’hard power rappresentato dall’uso della forza militare.

Gli Stati Uniti, ma anche la Nato, fanno un uso crescente dell’intervento nell’area della salute allo scopo di facilitare i processi di pacificazione nelle aree di intervento militare, sviluppare reti di «intelligence», creare consenso nelle comunità locali. D’altra parte questa è stata spesso la logica dell’intervento internazionalista in salute di Urss e Cuba nei decenni passati.

Recentemente nel linguaggio della diplomazia è anche apparsa l’espressione smart power a proposito del discorso globale della salute come strumento per creare ponti e cooperazione fra il settore privato dei paesi ricchi, le organizzazioni non governative e i governi dei paesi poveri.

Il discorso della salute globale è sempre più influente e pervasivo anche se le sofferenze locali non sembrano beneficiare di questa espansione che sembra rispondere più alle esigenze dell’economia globalizzata che a quelle dei bisogni locali.

È molto probabile che tale fenomeno rappresenti un paradigma ben oltre il settore della salute e sia riscontrabile anche in altri settori come, ad esempio, quelli dell’agricoltura, dell’alimentazione e delle risorse ambientali.


Estratto dal volume di Benedetto Saraceno, Psicopolitica. Città, salute migrazioni (Derive Approdi)

Immagine di copertina: ph. Sara Bakhshi da Unsplash