Come i social network stanno sancendo la fine della politica (e dei bar)

In un paesino di neanche duemila anime come quello in cui sono cresciuta la politica non si faceva nelle sedi di partito ma al bar ‘La Nave’, tra i tavoli della briscola e le pareti di perlinato. I tabelloni elettorali erano lì, lenzuola di carta che spiegavano il futuro arco parlamentare, con la sempre onnipresente colonnina locale dei partiti indipendentisti veneti e alto-atesini.

Più che i consigli comunali sono state le serate con Cedrata Tassoni (bevuta rigorosamente e scomodamente con la cannuccia) ad aver sedimentato la mia idea di discussione politica. Mio padre è stato sindaco fino ai miei otto anni; nei successivi diciotto che abbiamo trascorso insieme, è sempre stato la voce che faceva da controcanto alle discussioni sul paese, sulla regione, e poi più lontano, sul mondo.

La sua scomparsa nel 2008 ha coinciso con il mio uso massivo di Facebook, non più per scambiarmi fotografie con gli amici, ma anche per studiare, confrontarmi, leggere, discutere. Ogni tanto mi immagino come sarebbe stato il suo profilo, se saremmo stati amici, o se avrebbe intavolato sulle reciproche pagine le stesse discussioni infinite che abbiamo sempre avuto sulla politica, al bar come in auto, a cena come al pranzo di Natale.

Facebook nel 2009, ricordate? Immagine: Facebook

Quell’educazione sentimentale alla politica è tutta avvenuta secondo i dettami di quello che Lanier descrive – mutuando Luther King – come un lungo arco morale di progresso e di espansione dei diritti, ora interrotta dall’era della FREGATURA (in tutto il testo).

L’autore parte dall’assunto che la storia si debba dipanare come una linea di progresso: «Spero davvero che la nostra epoca venga un giorno ricordata come un intoppo momentaneo in quella che è una dolce ascesa verso un mondo più democratico», una visione che sicuramente rincuora ma che non trova fondamento nel libero arbitrio del genere umano, che ha spesso deciso di fare cose più irragionevoli di quelle accadute nel passato; basta pensare alla Restaurazione dopo l’età delle rivoluzioni per comprendere come esistano cicli lunghi dell’era della FREGATURA, che tornano e si alternano a momenti più illuminati di solidarietà e tutela dei diritti.

Lanier sostiene, nella ragione numero 9, che «i social stanno rendendo la politica impossibile». A supporto di questa giustificazione dell’abbandono dei social, l’autore porta il seguente argomento: “la democrazia sembra essersi indebolita, e, di conseguenza, Internet è diventato un posto brutto e ingannevole. Questa correlazione può essere ancora più forte nei paesi in via di sviluppo”.

Quanto c’entra Facebook con la crisi Rohingya? Un grafico dall’indagine del The Guardian.

Dal massacro in Rohingya alle primavere arabe, da #blacklivesmatters al #metoo, passando per le battaglie LGBTQ, l’autore riconosce come le piattaforme FREGATURA abbiano favorito un iniziale sviluppo di processi politici e di attivismo democratico dal basso, ma evidenzia come gli algoritmi di profilazione degli utenti abbiano clusterizzato i gruppi, favorendo nell’arena pubblica e politica il pensiero degli stronzi.

Una recente ricerca dell’università di Pisa che ha riprodotto le 5 variabili (apertura mentale, scrupolosità, estroversione, amabilità, nevroticità) alla base dei Big Five di analisi di Cambridge Analytica, racconta che le interazioni tra gruppi non seguono per forza dinamiche lineari. Sebbene ci sia un diffuso effetto specchio che porta a scegliere gruppi e utenti con profili psicologici affini, c’è anche una certa diversità di approcci: ad esempio gli equilibrati “tendono a seguire, condividere e citare prevalentemente i dispersivi”. Si sceglie di raccontarsi online non solo sulla base di ciò che si pensa, ma anche in una dimensione di narrazione prestazionale (sono pavido, sceglierò posizioni più coraggiose delle mie).

Sul piano politico, sicuramente questo ha l’effetto di polarizzare i discorsi, ma solo in caso di traiettorie identitarie e di condivisione di valori più fragili. In altre parole, la semplificazione paternalistica proposta da Lanier trova solo in parte una giustificazione nelle analisi e nei dati, perché gli assunti sono doppiamente errati: da una parte non è vero che queste battaglie politiche recenti e globali si sono completamente generate online.

Lanier sostiene, nella ragione numero 9, che «i social stanno rendendo la politica impossibile».

Se pensiamo alle primavere arabe, è un’analisi superficiale quella che legge quei processi e quelle trasformazioni solo legate alla diffusione di comunicazioni online. Le persone si vedevano fisicamente (dove possibile), e il processo è stato frutto di traiettorie online e offline. In contesti di privazione della libertà, l’incontro virtuale (se protetto) permette maggiore sicurezza rispetto allo spazio pubblico. Ancora: le battaglie del #metoo, che partono dalla carta e non da Twitter, si sono rafforzate nelle proteste e nelle denunce, non solamente nelle comunicazioni online. È come immaginare che nelle discussioni al bar ‘La Nave’, l’ubriaco che urlava più forte avrebbe trovato, alla fine della settimana, lo stesso consenso incontrato appena terminata la boutade.

Questo non toglie che in questo momento ci sia uno spostamento globale verso posizioni d’odio più forti, o forse semplicemente udibili rispetto ad una fase precedente, ma non credo che la responsabilità sia solo degli algoritmi, né che la soluzione sia cancellare gli account social, e non ascoltare l’odio che comunque permea lo spazio politico, non solo online. Credo che quei processi di trasformazione, bollati come falliti perché travolti dagli stronzi, siano processi che necessitano di tempi di sedimentazione più lunghi. Immaginare che le costruzioni democratiche di paesi con quasi cento anni di storia autoritaria possano essere cancellate da pochi mesi di mobilitazione online sarebbe miope oltre che illusorio. Ma quanto quei discorsi si sono poi spostati nei tribunali, nelle discussioni, nelle carceri in cui molti attivisti sono stati poi rinchiusi dopo l’arresto?

Va riconosciuto, tuttavia, che il medium ha cambiato non tanto i messaggi, ma gli spazi e gli immaginari. In questo momento, io leggo (soprattutto online) e mi informo quasi esclusivamente dalle pagine e dalle riviste di cui condivido visione, credibilità e fact-checking. Accedo al telegiornale on demand, sulle notizie che voglio approfondire. Guardo solo i film che scelgo sulle piattaforme. Il mio gusto, il mio sapere, il mio immaginario si permea e si rafforza nelle relazioni scelte, e così quello di molti altri. Non è sempre stato così, nemmeno per me. Quanti film ho visto a caso, solo perché trasmessi in tv, che mi hanno fatto cambiare idea? Quanti libri ho letto vedendo le coste a vista nella libreria o nella biblioteca? Da qualche anno, pur forzandomi a mantenere tra gli amici virtuali gran parte degli abitanti del mio paesino, che mi restituisce pluralismo e conflittualità, mi confronto con cerchie e bolle di persone abbastanza d’accordo. Anche questo favorisce la polarizzazione, che non è solo retorica ma diventa politica, identitaria, e molte volte scivola sulla dicotomia morale degli amici e dei nemici.

Gli eventi politici vengono preparati per l’online prima che per il parlamento.

A questo si aggiunge la rapidità di accesso agli eventi. Sappiamo le cose quasi in contemporanea, gli eventi politici vengono preparati per l’online prima che per il parlamento (si pensi solo alla vicenda Diciotti) e resistono finché permangono in un presente perenne, in cui le sfumature, l’attesa, l’astensione, l’atarassica distanza di valutazione spesso non hanno spazio, poiché non hanno tempo. Credo servano anticorpi educativi, e che si debba tentare di immaginare come costruire narrazioni politiche in grado di trovare spazio/tempo (di pensiero) ancora prima che spazio d’ascolto. Perciò, riformulerei l’assunto di Lanier: “I social stanno rendendo il tempo della politica impossibile”. Perché anche alla Nave, davanti alla Cedrata, ci si poteva alzare o smettere di giocare se non si era d’accordo, ma era solo dopo lunghe discussioni, nel corso della settimana, che l’altro polo dialettico poteva essere riconosciuto, come interlocutore e non come nemico.


Immagine di copertina: ph. Charles Etoroma da Unsplash