È ora di parlare della sostenibilità neurologica del lavoro cognitivo

Con il progetto Nube di parole stiamo lavorando alla scrittura collettiva del significato del termine ‘Sostenibilità’ per chi lavora nella cultura.

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Ricordo di aver letto un articolo, anni fa. Non so se su carta o in rete. Mi pare che fosse firmato da uno scrittore romano. A essere sinceri, essendo passato molto tempo, non ricordo più di che cosa parlasse. Però c’è un singolo frammento di quel pezzo, un rapido passaggio, che mi si è stampato in mente. Non sono neppure sicuro che l’autore fosse romano o trapiantato a Roma.

Facciamo finta che l’articolo sia stato scritto da un certo SC. SC racconta che all’incirca ogni sera, all’ora dell’aperitivo, gli capita d’incontrare qualche amico. Usciti dal lavoro, o comunque al termine della giornata, si ritrovano da qualche parte a Roma, in un bar, per sedersi a un tavolo e farsi insieme un bicchiere di spritz o una birra. Non sono sicuro che la ricostruzione sia esatta.

Comunque SC incontra un coetaneo o una coetanea di sua conoscenza, quindi un trenta-quarantenne. I due entrano in contatto, mentre il sole tramonta o col buio, si salutano con una stretta di mano, un abbraccio o un bacio sulla guancia. Magari si siedono su una sedia di metallo o un gradino. Bevono. Il ghiaccio si scioglie nel bicchiere dello spritz. Noccioline sul tavolo.

Inizia una conversazione. La conversazione, però, stenta, non parte. Arrotolano una sigaretta. Accendono la sigaretta. Spengono la sigaretta nel posacenere. Arriva un messaggio da un gruppo di lavoro su WhatsApp o una chiamata che li costringe ad allontanarsi. Tornati al tavolo, ritrovano la stanchezza che accomuna entrambi e impedisce al pensiero di circolare fluidamente.

Se non una stanchezza, un residuo di elettricità accumulata durante il giorno. È come un rifiuto che non si lascia smaltire e che diventa la causa di un disturbo. Tra una parola e l’altra si verifica un errore, una sovrascrittura, un’amnesia, un momento di défaillance, una difficoltà nella messa a fuoco. Nel frattempo arriva un venditore di rose.

Mi sembra di ricordare che SC da qualche parte tirava fuori l’aggettivo «fritto», non in relazione a un cibo, ma allo stato psicofisico delle due persone coinvolte nel dialogo. Un po’ come se fossero soggetti che scontano un passato di abusi con droghe da rave party. «Fritto», infatti, non suona un po’ come «bruciato»? Tra i due non c’è un dialogo che da A muove verso B per poi arrivare a C, ma un continuo tentativo, un prova e riprova, che tuttavia fallisce, perché si è troppo stanchi e appannati. I nervi sono ancora attraversati dal torrente di stimoli e informazioni assorbite durante il giorno dagli schermi. Negli occhi brulica ancora un po’ della luce del computer. Solo l’alcol, ora, può salvare l’interazione tra i due e ridare un po’ di brillantezza e libertà alla conversazione. Ma da dove arriva tutto questo affaticamento? La domanda è interessante, anzi centrale, perché credo riguardi un numero crescente di trentenni e quarantenni impiegati in alcune professioni ben determinate e caratterizzate da un elevatissimo tasso di precarietà.

SC è uno scrittore, anzi un writer che si adopera e autoimprende in più contesti e rapporti di lavoro. Quarant’anni fa avrebbe avuto una scrivania a Paese Sera e magari, dieci anni dopo, un buon contratto a King firmato dal padre di Fabrizio Corona. Oggi se la gioca giorno per giorno. Nella sua esistenza quotidiana frequenta, volentieri o suo malgrado, altri individui che orbitano in sfere professionali confinanti. È la sua vita, del resto, che spesso coincide con il suo lavoro e con il perimetro della sua bolla sociale, una sorta di camerata riecheggiante di voci e plasmata ogni giorno dalla tessitura di un algoritmo, tanto immerso e potente che sembra perfino influire sulle trasformazioni all’interno di una città o di un quartiere.

Giornalisti della carta stampata e della rete, creativi a vario titolo, social media manager, content manager, insegnanti a contratto nella scuola, uffici stampa, autori per la tv o la radio, copywriter, grafici, ricercatori universitari, editor, web designer, illustratori, cacciatori di bandi europei per il finanziamento di progetti d’interesse socioculturale, videomaker, montatori, fotografi, galleristi indipendenti, curatori d’arte contemporanea, designer della comunicazione. Più in generale, lavoratori della conoscenza. Un lungo elenco di figure professionali che può generare in chi legge un conato d’insofferenza. Tutte queste figure, di solito concentrate in capoluoghi come Roma o Milano, faticano ad avere una vita stabile e soddisfacente da un punto di vista economico. Ma non è questo il punto. Questo è solo l’aspetto più noto e pubblicamente discusso della loro vicenda umana.

Precari cronici, partite IVA letteralmente ammazzate dalle tasse, spesso in affitto in case «di merda», in esubero rispetto alla domanda, sfruttati da altri sfruttati, sfruttatori di sé medesimi, sottopagati da aziendine indebitate, esposti a un monologo interiore che mostra la verità della loro condizione materiale, sminuiti nella sociologica dicitura «precario» che poco racconta e sa della loro storia personale; e infine, col passare del tempo, sempre più ammorbati dalla crescente consapevolezza di una grande incognita che pesa sul futuro, in quanto non hai maturato una pensione. (tutte questioni che non si possono più trattare senza involontariamente evocare un testo di cui si è molto parlato nell’ultimo anno, ovviamente il dibattutissimo Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura).

Alla questione della sostenibilità economica si aggiunge, col tempo, la questione di una sostenibilità di tipo «esistenziale», che riguarda, naturalmente, anche le relazioni affettive. Quando hai vent’anni o poco più di trenta, la complicata sostenibilità economica del tuo lavoro è almeno esistenzialmente tollerabile, se non altro perché il tuo stile di vita coincide con un immaginario felicemente bohemien, perché l’hangover è una forma di languore che si sposa con la domenica, perché ci sono la vitalità del corpo e l’eros che ti sorreggono, infine perché, magari, la voce del tuo daimon è ancora forte e chiara quando ti parla dentro il petto. Anche la questione della «sostenibilità esistenziale» nel precariato cognitivo, tuttavia, è materia nota, già descritta in saggi, romanzi e opere cinematografiche.

Con lo scorrere del tempo, che interessa tanto le trasformazioni del lavoro, lo sviluppo dei device e degli strumenti professionali, quanto i nostri corpi che cambiano e le generazioni che invecchiano, si pone però il tema di un terzo tipo di sostenibilità: quella neurologica. Eccoci al punto. Ed ecco forse la vera ragione di quel senso di spossatezza e sfocatura che impedisce a SC e al suo amico di avere una conversazione decente. È semplice, quasi matematico: la precarietà e l’autoimprenditorialità costringono a lavorare il più possibile, a imbarcare più lavori e progetti contemporaneamente, a sovraccaricare il corpo e la mente di obiettivi e scadenze, a impegnare il cervello nella soluzione di più compiti, a dotarsi di più strumenti, ad aggiornarsi infinitamente, a vivere insomma in uno stato di ansia e allerta dentro un mercato del lavoro culturale e cognitivo che somiglia a una morbida e paludosa arena darwiniana; ma intanto il corpo invecchia.

E in questo quadro, soprattutto, gioca un ruolo decisivo il modo con cui sono progettati i device dei quali ci serviamo per lo svolgimento del nostro mestiere. Smartphone e computer. Possiamo controllare la posta oltre cinquanta volte al giorno e fino a centocinquanta volte al giorno. Secondo l’antropologa digitale Gloria Mark, l’essere umano, maschio o femmina che sia, non è una creatura multitasking, non svolge due o più lavori in modo contemporaneo, ma può al massimo spostarsi da una mansione all’altra, switchare, fare avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. L’attesa di notifiche sul telefono genera un fenomeno chiamato «vibrazione fantasma». Sembra che il telefono abbia vibrato, ma non è vero. È il risultato del rafforzamento di alcuni circuiti neuronali causato dall’uso del telefono e di internet. Il nostro telefono si trova sempre nel raggio di trenta centimetri dal palmo della mano.

Lo sblocchiamo anche quando non ci sono messaggi da visualizzare, senza un motivo. Lo accendiamo al mattino poco dopo aver aperto gli occhi o nel cuore della notte se abbiamo il sonno leggero. E dopo aver osservato scorrere una timeline per qualche minuto, ci resta in corpo una sorta di eccitazione, difficile da disperdere. È come un pulviscolo di materia misteriosa che vaga con moto browniano sotto lo sterno. Frammentarietà e distrazione sono una condizione frequente della nostra coscienza, senza che questo nuovo presupposto abbia ispirato un diverso stile della coscienza e un modo bello e gratificante di vivere.

«Ci sarà una rivoluzione nel 2025 e ce ne sarà un’altra ancora più grande nel 2035 e poi nel 2045», ha detto lo storico Yuval Noah Harari in una conferenza dello scorso ottobre, organizzata a Londra dalla casa editrice Penguin, «e ciò significa che per continuare ad avere valore sul mercato del lavoro, siamo chiamati a reinventare noi stessi, non una volta, ma ripetutamente, ogni dieci anni, e il principale ostacolo a questo processo potrebbe essere di natura psicologica, più che economica e tecnologica. È molto, molto duro reinventare sé stessi, soprattutto dopo una certa età».

La stanchezza –il sociologo Byung-Chul Han parla di società della stanchezza- è ciò che accomuna una variegata classe di lavoratori, forse più dei gusti o dei consumi culturali. Prevalgono la fatica e lo stress. Lo sappiamo bene, perché ce lo dice l’esperienza diretta e lo conferma un’intera letteratura dell’iperconnessione. Tutto questo ha un costo per il cervello. All’epoca della rivoluzione industriale, la classe operaia, cioè gli uomini e le donne che dalle zone rurali si trasferirono nelle grandi città dove si concentravano le fabbriche, si confrontò con un boom delle patologie polmonari e muscoscheletriche. Oggi il tema, specie tra gli enta e gli anta, sembra essere un altro. È la questione, infatti, di ciò che vorrei chiamare «neurosostenibilità» del lavoro culturale e cognitivo. Dunque, che fare?

Intanto facciamo un salto indietro all’aperitivo di SC e del suo compare. Teatro dell’incontro è un bar di Roma. Entrambi per raggiungere quel tavolo, dove si sono seduti con una birra e uno spritz in mano, hanno attraversato un pezzo di città. Mezzi che non funzionano, ritardi, sporcizia, gabbiani svergognati, rivoli di orina sui marciapiedi, muri invasi da manifesti di organizzazioni di estrema destra. Le immagini ormai mitologiche di Roma in putrefazione si amalgamano, nello spirito del tempo presente, alle profezie sulla fine del lavoro, sull’accelerazione tecnologica e sull’avvento della Singolarità, sulla fine dell’Unione Europea e della democrazia, sull’aumento esponenziale dei flussi migratori e, soprattutto, su quella catastrofe climatica data per certa nel giro di un secolo. Roma in ginocchio diventa il simbolo dell’impotenza di tutti a cospetto degli spauracchi del futuro. Roma capitale dell’impotenza.

C’è un bellissimo documentario, dal titolo Piazza Vittorio, che il regista americano Abel Ferrara ha girato su uno dei tanti quartieri complicati di Roma: l’Esquilino. 67 anni, nato nel Bronx, Ferrara è un cineasta di lunghissimo corso. Debuttò con un porno nel 1977. Dopo essere sopravvissuto a dipendenze e abusi di droga lungo tutta una vita, è il candidato ideale per contemplare le rovine e la fine senza esserne travolto o spaventato. Da qualche anno vive proprio dalle parti di Piazza Vittorio, di cui si è evidentemente innamorato.

Il punto di vista di Ferrara, nonostante le difficoltà quotidiane del quartiere, non è angosciato. Il suo è uno sguardo ironico-buddista e generoso di pietas cristiana; invita a sorridere, anche quando la telecamera inciampa nei corpi di gente che dorme per strada in pieno pomeriggio, accasciata senza neppure una stuoia tra uno scooter e l’ombra di un platano. È questo sguardo impotente eppure sorridente, non angosciato e tantomeno incattivito, che dobbiamo assumere su di noi, di fronte allo spettacolo nero del futuro? Lo sguardo di Ferrara consola, incanta, ma serve qualcos’altro, io credo. In questo momento, non esiste in campo una risposta collettiva e strategica. Non c’è, non è a disposizione, non è ancora il suo tempo. Occorre quindi, almeno, trovare una postura, come individui, che non perda il sorriso e l’umorismo, amichevole ma sveglia, attiva, determinata. Sentirsi sconfitti o perduti, ci fotterebbe. Anche il cervello.


Immagine di copertina: ph. Dan Carlson da Unsplash