Superare lo spaesamento, perché progettare è un diritto esistenziale

Ho fatto un sogno angosciante. Ero a Milano in una grande stazione, cercavo l’autobus da prendere per raggiungere una città nella Germania del Nord, ma non ricordavo il nome della destinazione finale. I minuti passavano, avevo sempre meno tempo prima di perdere la corriera. Allora consultavo il telefono, la cronologia, le pagine web, Google Maps, da qualche parte dovevo aver lasciato tracce della mia decisione di intraprendere quel viaggio, spulciavo le mail, ma non trovavo nulla.

Mi venivano in mente solo nomi di paesi della campagna inglese, un elenco di paesini inutili mentre cercavo di ricordare il nome di quella città tedesca. Correvo per la stazione chiedendo …sapete aiutarmi? Ma nessuno sapeva dirmi che autobus prendere. Il sogno finisce così. Spaesata e arresa in una stazione degli autobus, impossibile spostarsi, impossibile reperire le tracce di un intento, impossibile orientarlo.

Così mi sento, spaesata, un po’ persa, impegnata a cercare di raggiungere qualcosa di cui non ricordo più il nome. La mia geografia interna fluttua, si muove orizzontalmente in piccoli movimenti continui, come un’isola di plastica in una piscina. E così anche il tempo, un presente sfilacciato, lattiginoso, mobile. È uno spaesamento dato da eccesso di chiusura, da orizzonti troppo definiti e chiusi da decreti e circostanze.

Lo spaesamento è la condizione del profugo, del deportato, di chi si trova in una zona di conflitto, di chi subisce un trauma, un lutto, una perdita, la fine di qualcosa che è stato, anche di un’abitudine.

Lo spaesamento è la condizione del profugo, del deportato, di chi si trova in una zona di conflitto, di chi subisce un trauma, un lutto, una perdita, la fine di qualcosa che è stato, anche di un’abitudine. Lo spaesamento si sviluppa lungo un gradiente di intensità e per questo può durare un istante, un’ora, un giorno o per sempre quando qualcosa segna profondamente la nostra esistenza. È la modifica momentanea o permanente di una geografia interna, del consueto, della strada da e verso qualcosa che è stato casa.

Lo stato delle cose ha deformato lo spazio e il tempo con conseguenze osservabili attraverso uno spettro che va dal “è quasi come prima” a vite stravolte da perdite irreparabili di affetti, persone, lavoro, certezze (e tra queste la scuola).

Lo stato delle cose ha accentuato la geografia delle differenze, dei privilegi, delle linee di faglia, delle fratture sociali, generazionali, esistenziali. Ha portato alla luce anni di superficialità, scempio, cattiva gestione, il rimosso del primo mondo, la fragilità di molte mitologie contemporanee predatorie come il mito dell’immortalità, dell’assicurazione sulla vita (inclusi malattia e morte), del consumo e così via.

Anche se lo sapevamo che le cose non andavano bene, lo spaesamento verso ciò che era è forte. E lo stesso vale per ciò che sarà, a causa di quella nebbia che si frappone tra noi e l’orizzonte.

Anche se lo sapevamo che le cose non andavano bene, lo spaesamento verso ciò che era è forte.

Cosa posso fare in questa situazione? Poco e tantissimo. Osservare la fragilità, legittimando lo spaesamento, anche quando lo sediamo con l’ennesima serie TV, con maratone su Skype. Osservare quelle sfumature che lo accompagnano: la rabbia, la disperazione, la paura, l’angoscia, la felicità delle cose ritrovate, la solitudine, la mancanza, la speranza, la nostalgia, la fiducia, l’attesa immobile del futuro, l’attesa frenetica, l’eccesso di parole, il silenzio cupo, il corpo che ingrassa, il corpo senza desideri, il corpo che si ribella e corre e si muove. Il desiderio surgelato, il desiderio goduto. I progetti di vita stravolti e interrotti e quelli che hanno trovato il coraggio.

Osservare per ricollocare la condizione umana come fondamento di future progettualità e politiche. Per eradicare tutte quelle mitologie non profondamente ecologiche, foriere di false idee di benessere e convivenza. Partire dalla fragilità, dalla malattia, dalla morte, dalla vulnerabilità, dal bisogno di relazione e contatto, dalla creatività, dalla resistenza, dalla solitudine subita nelle vecchie e nuove istituzioni totali, per immaginare il futuro, per ricostruire la strada da e verso casa. La casa è la relazione con il corpo, con il lavoro, con la città, con gli amici, con la terra, con i figli, con i padri, con il tempo, con il sesso, con la salute fisica e mentale.

Nel ricostruire questo paesaggio martoriato mi sembra di leggere due movimenti collettivi che vengono in mio soccorso. Li leggo nei post su Facebook, nelle conversazioni, nelle pratiche sociali e culturali, nelle testimonianze, nelle interviste, nelle ore di incontri su Zoom. In quella foto simbolo dei tempi che corrono: tanti rettangolini inscritti in un unico rettangolone: lo screenshot degli incontri online postato sui social.

Da un lato radicarsi. Rispondere alla fluttuazione gettando ancore di resistenza. Radicarsi nei territori, nei rapporti, nelle relazioni, nelle comunità, radicarsi attraverso la solidarietà. Radicarsi in un movimento che non è solo verticale, è profondità, rete, scambio di informazioni, studio. Chi può studia, riflette, si incontra, si interroga, si confronta, si consola, si scambia informazioni, si organizza dal basso, rivendica lo spazio pubblico, rivendica i diritti alla cura, all’istruzione, al verde. C’è chi lo fa in silenzio, in maniera intima e chi con ore e ore di dirette sui social. In ogni caso non è solo un ripensamento, è un approfondimento, talvolta una presa di coscienza.

Progettare è uno spazio di diritto esistenziale oltre che reale, uno stato da rivendicare e difendere, un orizzonte di senso, il contraltare di un ripiegamento su se stessi.

Appropriarsi e rivendicare appartenenza al proprio stare, andare in profondità, fare i conti (ancora) con questa precarietà angosciante, e farlo allargando la rete e le maglie di questa riflessione, trovando l’antitodo nello stare insieme.

Il secondo movimento è simmetrico ma verso l’alto. E credo che ci riguardi tutti, anche chi in questo momento è così spaesato da sentirsi spezzato, da non poter neanche pensare di guardare al futuro. È il movimento del progettare, del rimettere insieme i cocci o immaginare qualcosa di completamente diverso, è posare lo sguardo sulle macerie e pensare che qualcosa si potrà pur fare o forse si dovrà pur fare.

Non è semplice e non è dovuto. Perché abbiamo studiato e fatto sacrifici per lavori mal pagati che da questa situazione non sono solo stati interrotti ma dimenticati. Perché siamo i parenti degli anziani soli nelle case di riposo. Perché siamo gli adulti di riferimento dei ragazzi con la scuola chiusa. Perché siamo soli. Perchè siamo operatori sociali e culturali con teatri, musei, biblioteche, associazioni, spazi chiusi. Perché siamo chiusi in casa e non riusciamo più a pensare, a immaginare. Perché mancano prospettive a cui ancorare i progetti, passerà? Sì, ma quando. Torneremo? Sì, ma come.

Progettare è uno spazio di diritto esistenziale oltre che reale, uno stato da rivendicare e difendere, un orizzonte di senso, il contraltare di un ripiegamento su se stessi. Rischia in questo momento di essere un  privilegio. È un movimento che si può fare se non si è troppo ammaccati, se si hanno i soldi, se non paghi l’affitto. È guardare al futuro anteriore e non a caso non è solo il tempo della crisi, ma anche quello delle possibili speculazioni economiche e finanziarie, delle infiltrazioni della criminalità nell’economia.

Affinchè progettare non diventi ancor di più prerogativa di pochi possiamo fare due cose. Guardare a chi progetta, a chi si organizza, a chi riparte in maniera differente, anche grazie al proprio privilegio, come caso da discutere, come esempio, come elemento di dibattito e confronto, come fonte di possibili suggerimenti e consigli. Possiamo tentare una ramificazione speculare al movimento del radicarsi, uno sviluppo a rete, uno scambio di informazioni aperto e accessibile, un confronto costituente di futuro e di possibilità concrete. È in questo movimento che inquadro molte delle testimonianze che arrivano dal mondo culturale, le cosiddette buone pratiche, la solidarietà militante, il ripensarsi. E questo ci aiuta, ci tiene in relazione, ci rende parte, ci fa crescere. Ma non basta.

È necessario che la rete rimanga aperta, inclusiva, e in grado di affrontare il conflitto per allargare le possibilità di accesso e beneficio, per redistribuire potere e risorse. Perché pur organizzandosi dal basso in continuum di scambi, rimangono responsabilità politiche non colmabili dalla buona volontà dei cittadini, degli operatori.

È tempo che le politiche economiche, sociali e culturali rendano uno spazio di diritto quello della progettazione, riducendo il più possibile quell’angoscia che da anni rende difficile per buona parte della popolazione una giusta partecipazione alla costruzione di futuro individuale e collettivo.