Cosa ci insegna il fallimento del blog di Donald Trump

Se c’è una cosa che sicuramente Donald Trump non può sopportare è l’idea di essere considerato piccolo e irrilevante. Trascurabile. A quanto pare, sono stati proprio alcuni commenti di questo tenore, ricevuti da parte di amici e conoscenti, a far decidere all’ex presidente degli Stati Uniti di chiudere improvvisamente, il 2 giugno, il blog inaugurato appena un mese di prima.

“From the Desk of Donald J. Trump”, questo il nome del blog, doveva essere lo strumento che gli avrebbe consentito di aggirare l’epurazione subita da tutti i principali social (e che Facebook ha da poco reso permanente). Di più, doveva essere lo strumento che – come aveva annunciato il suo consigliere Jason Miller in un’intervista alla Fox – avrebbe “completamente ridefinito il campo di gioco” e fatto sì che tutti sarebbero rimasti in attesa di “scoprire le azioni del presidente Trump”.

Ci si attendeva un nuovo social network. Una nuova piattaforma per i trumpiani & dintorni di tutto il mondo. E invece è comparso un blog. Un semplice, antiquato blog deputato a ospitare gli sfoghi dell’ex presidente. Il risultato – tutto sommato non sorprendente – è stato un flop epico: secondo quanto riporta un’analisi del Washington Post, dalle 159mila interazioni (like sui post e ricondivisioni su Facebook e Twitter) del primo giorno di vita del blog si è passati alle 30mila interazioni del secondo e poi non si sono più superate le 15mila. Per avere una misura del crollo, quando gli è stato chiuso l’account Facebook questo generava milioni di commenti, condivisioni e altre interazioni ogni singolo giorno (e ancor meglio faceva quello Twitter). Nel complesso, il social engagement che circonda Trump è precipitato del 95% rispetto all’apice raggiunto a gennaio (nel pieno del caos post-elettorale) ed è al livello più basso dal 2016, prima ancora che diventasse presidente. 

Perché un flop del genere? Le ragioni sono tante e scavano nelle profondità dei meccanismi del panorama online contemporaneo. Ma partiamo dagli aspetti più semplici: prima di tutto, il blog di Trump non incentivava la partecipazione. Ai numerosi e spesso fluviali post scritti da (o per conto di) Trump era possibile reagire solo mettendo un cuoricino – azione priva di qualunque ulteriore conseguenza – o condividendo il post sui social. Niente costruzione di una comunità, niente commenti, niente forum, niente accese discussioni, niente algoritmi che individuano i contenuti più interessanti e li amplificano. Niente di niente. Un blog ancora più rudimentale di quelli che avreste potuto trovare, che ne so, su Splinder. 

Vi immaginate la noia di leggere gli sfoghi di Trump non più nell’ecosistema di Twitter (dove contava qualcosa come 88 milioni di follower), ma nel vuoto pneumatico di un blog isolato da tutto il resto? La noia, tra l’altro, non deve aver coinvolto soltanto i suoi supporter, ma Trump stesso: “Per pubblicare i messaggi sul suo blog”, scrive sempre il Washington Post, “Trump dettava le dichiarazioni agli aiutanti, che le trascrivevano e poi le stampavano su carta affinché potesse modificarle a penna. Gli aiutanti poi caricavano la dichiarazione sul sito e la promuovevano via mail”. Immaginate quanto possa divertirsi una persona irrequieta (per usare un eufemismo) come Trump a seguire una modalità del genere, dopo essersi abituato per oltre un decennio a scatenare un putiferio immediato ogni volta che – sull’impulso del momento – scriveva due stupidaggini a caso su Twitter per poi venire inondato di reazioni e sommerso da scariche di dopamina. 

È questo meccanismo peculiare dei social che gli ha permesso di mantenere una costanza estrema (56mila tweet e retweet dal 2009 a oggi, 13 al giorno, ogni giorno, per 12 anni) e di accumulare decine di milioni di follower. Era sufficiente che qualcosa gli passasse per la testa per estrarre lo smartphone di tasca, digitare qualche parola e scatenare il putiferio. Su un blog è tutto molto diverso.

In questo elemento, si ritrova un altro aspetto fondamentale che differenzia un blog da un social: su Twitter o Facebook a decretare il successo di un personaggio sono anche i suoi detrattori. Questi non solo contribuiscono ad amplificarne il messaggio, ma galvanizzano i suoi sostenitori. Un conto è ritrovarsi tra soli fan a darsi ragione, tutt’altro è invece far parte di un esercito social che lotta in prima linea per difendere il presidente dalle accuse, dagli insulti, dalle illazioni, dalle battute. È una logica da ultras, in cui a dare fascino alla tifoseria non è soltanto il sostegno alla propria squadra, ma anche se non soprattutto la rivalità con le altre. 

I social network sono progettati appositamente per valorizzare al massimo materiale incendiario di questo tipo, facendone schizzare alle stelle l’engagement e decretandone il successo (se vi capita di vedere su Facebook troppi post dell’integralista cattolico Simone Pillon, sappiate che la “colpa” è anche dei suoi detrattori che si ostinano a insultarlo sui social regalandogli la tanto agognata visibilità). 

Di fronte a tutto questo, come può competere un noiosissimo blog in cui Donald Trump si lascia andare a post da diecimila battute pubblicati in un unico illeggibile blocco e si ostina a chiedere riconteggi elettorali o a denunciare gli inesistenti brogli? La noia, per lui e i suoi lettori, è dietro l’angolo e i numeri fallimentari lo dimostrano. E adesso? “Il blog era soltanto un modo temporaneo per diffondere al pubblico le mie idee e i miei pensieri senza che venissero trasformati in fake news, ma questo sito web non è una piattaforma”, ha detto Trump in un comunicato. “È semplicemente un modo per comunicare finché non ho deciso quale sarà il futuro in termini di scelta, o costruzione, della piattaforma giusta per me”.

Fino a oggi, Trump si è dimostrato poco interessato a unirsi a social network di estrema destra come Parler o Gab, sicuramente perché non li considera strumenti in grado di garantirgli la visibilità a cui è abituato. È per questo che si parla della possibilità che Trump costruisca una sua piattaforma social. Ma può davvero l’ex inquilino della Casa Bianca (che con 2,5 miliardi di patrimonio è un poveretto rispetto a Mark Zuckerberg e compagnia) pensare di creare un social network che faccia concorrenza a Facebook o Twitter? Ha davvero intenzione di dedicare risorse ed energie a un progetto che sicuramente richiederebbe anni e anni di lavoro incessante e di finanziamenti continui prima di prendere piede (o, più probabilmente, prima di fallire miseramente)?

Ed è qui che si arriva, finalmente, all’aspetto più importante di tutta questa vicenda, almeno dal punto di vista mediatico. Aspetto che su Wired è stato così riassunto dal docente di Public Policy Philip M. Napoli: “Come può qualcuno che, prima di essere messo al bando, regnava su oltre 80 milioni di follower su Twitter e che rimane una figura centrale nella politica repubblicana produrre un blog che si dimostra una tale non-entità nell’ambiente mediatico contemporaneo?”. La risposta a questa cruciale domanda racconta moltissimo di come la comunicazione online sia stato fagocitata dai social e dalle loro dinamiche, rendendo impossibile – e perfino noioso – trovare una strada alternativa anche per la persona che ha dominato l’agenda mediatica mondiale per quattro interi anni.

“Il fallimento del blog di Trump ci dice che anche gli estremisti pieni di passione politica che formano il nucleo dei supporter di Trump sono così infognati nel loro consumo mediatico passivo, e dipendenti dai social media, che un blog tradizionale, privo degli account social in grado di generare l’amplificazione algoritmica, non può conquistare nemmeno una frazione del coinvolgimento online che un singolo tweet è in grado di generare”, prosegue Napoli. “Nemmeno la più pubblica delle figure pubbliche può liberarsi dalla dipendenza dalle piattaforme che detta in gran parte la distribuzione dell’attenzione dell’audience online. Se il blog di Trump non riesce a conquistare nessuna trazione, perché privo di accesso diretto agli strumenti di aggregazione e amplificazione dell’audience dei social media, allora probabilmente nulla può farlo”.

Gioiamo tutti perché la missione di togliere a Donald Trump le piattaforme social (“deplatformare”) è riuscita con successo e ne abbiamo validissime ragioni. Allo stesso tempo, il fallimento del blog di Trump è un’ennesima conferma dell’enorme potere che i giganti delle piattaforme hanno nel decretare quale tipo di contenuti consumeremo. “È anche un promemoria”, prosegue Napoli, “della nostra responsabilità nell’aver volontariamente ceduto questo potere e nell’aver entusiasticamente abbracciato un modello push (passivo) del web al posto di quello pull (attivo). In definitiva, potremmo considerare il fallimento del blog di Trump come il chiodo finale e definitivo sulla bara del modello originale del web e della nozione di utente internet attivo”.

Ma questa inquietante conclusione non è in contraddizione con alcune delle più recenti tendenze a cui stiamo assistendo nel mondo online, e che sembrano invece dimostrare come un’alternativa di successo sia possibile? Il pensiero, inevitabilmente, va al boom delle newsletter, che in alcuni casi ricordano molto da vicino la struttura di un blog, semplicemente consegnato via mail. In un mondo dominato dai meccanismi frenetici, incendiari, tossici dei social, era quasi inevitabile che riscontrasse successo un formato che va in direzione completamente opposta: di natura intima, che richiede di prendersi del tempo, non compulsiva. Un’esperienza quasi meditativa rispetto allo scrolling e ai like.

Non avrebbe allora potuto Donald Trump prendere con convinzione questa strada alternativa, curare nel tempo il suo blog, coltivare una base tramite newsletter, scrivere contenuti che suscitano interesse? La risposta è: ovviamente, no. Ma non perché sia impossibile farlo, piuttosto perché è impossibile farlo per un personaggio come Donald Trump, che ha avuto un clamoroso successo sui social perché il personaggio è perfetto per i social, dove viene premiato ciò che è istantaneo, incendiario, che genera caos e conflitto. Le strade alternative online, per fortuna, esistono, ma oltre a produrre numeri comunque di scala diversa (Substack, la più nota piattaforma per newsletter, ha circa 250mila abbonati paganti) richiedono tempo e pazienza. Due parole che cozzano clamorosamente con un personaggio come Donald Trump.

Come ha sintetizzato Sarah Jones sul New York Magazine, il blog di Trump ha fallito (anche) perché “Trump si è annoiato e ha mollato”. La vita da blogger non è vita per Trump, che ha bisogno di gratificazioni istantanee, di dopamina, di polemiche, di conflitto, di eserciti nemici e di folle adoranti. Ha bisogno di un ecosistema estremo dove una personalità come la sua possa prosperare. Donald Trump ha bisogno dei social. Toglietegli Twitter e la sua voce si perde nel vuoto, relegandolo a quella irrilevanza che tanto lo terrorizza.