Riaprire le scuole: siamo ancora in tempo

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Alessandro Fusacchia, Membro della Commissione VII, si occupa di scuola, università, ricerca, cultura e sport. Dal 2014 al 2016 capo di gabinetto del Miur.


Vi do una notizia: siamo ancora in tempo per riaprire le scuole a settembre.

Per chi non si occupa di scuola, per chi non deve occuparsi di riaprirle, può sembrare un’affermazione scontata. Da reagire così: siamo a fine giugno, ci mancherebbe che non fossimo ancora in tempo!

In realtà – parola di ex capo di gabinetto – è tutt’altro che scontato.

Ogni anno queste sono le settimane calde in cui, mentre studenti e docenti vanno mediamente in vacanza, la macchina ministeriale si mette in moto per far ripartire la scuola, gestendo procedure nazionali complesse che prevedono operazioni di mobilità e assunzioni a tempo indeterminato di decine e decine di migliaia di docenti, verifica delle cattedre che restano scoperte su cui reclutare altre decine e decine di migliaia di supplenti. Un esercizio infernale, dove si mischiano carte su scrivanie di uffici scolastici periferici e algoritmi nazionali elaborati nelle stanze di viale Trastevere.

In tempi normali, tutto questo genera ritardi, inefficienze, e la matematica certezza che la scuola non comincia di fatto per tutti gli studenti lo stesso giorno, e neppure la stessa settimana. Per tanti, neppure lo stesso mese, se per “cominciare” si intende con tutti i docenti al loro posto.

Figuratevi quest’anno, dopo mesi di chiusura forzata per il Covid-19.

Stanno tutti capendo che riaprire è molto più difficile che chiudere; che si può chiudere in un giorno, ma che servono settimane per riaprire. Alle procedure per mettere i docenti in cattedra quest’anno si aggiungono tutte le esigenze e preoccupazioni per i locali, le misure di sanificazione, le conseguenze del distanziamento obbligatorio. Si torna a scuola, ma seguendo regole che nessuno ha mai sperimentato prima e che richiedono di attrezzare diversamente gli spazi e di codificare i comportamenti che docenti, studenti e chiunque metterà piede dentro una scuola dovranno tenere.

Per non parlare del problema più grave di tutti: oltre alle assunzioni dei docenti e alla gestione degli spazi, c’è infatti da recuperare il debito formativo di milioni di studenti. Perché la didattica a distanza ha funzionato solo a macchia di leopardo, e anche dove ha funzionato discretamente non può certo sostituire la didattica in presenza; per non parlare proprio di tutti coloro che l’hanno fatta male o non l’hanno fatta proprio.

Nel frattempo, mentre ci rendevamo conto di tutto questo, è arrivata l’estate e abbiamo deciso di sprecarla. Rimandando tutta la scuola direttamente a settembre, rinunciando a usare questi tre mesi per sperimentare una scuola diversa, magari fuori dagli edifici scolastici, ma comunque in grado di innovare e inventare nuove forme di didattica in presenza.

Adesso fermi tutti. Tronco brutalmente la premessa.

Il riassunto di quello che ho scritto finora è semplicemente: considerate solo che partiamo da qui.

* * *

Da martedì pomeriggio si è incendiato il dibattito pubblico sulla riapertura, nel momento in cui hanno preso a circolare le bozze del “Piano Scuola 2020-2021” predisposto dal Ministero dall’Istruzione, nella versione inviata alle Regioni in vista dell’incontro inizialmente previsto per ieri e rimandato adesso a questo pomeriggio.

Cosa prevede questo Piano? Di puntare sull’autonomia scolastica. Tant’è che il documento spiega come alle scuole sia concessa la massima flessibilità per riaprire, rispettando le indicazioni sanitarie del Comitato Tecnico Scientifico (CTS) di Palazzo Chigi sul metro di distanza bocca a bocca e tenendo conto del contesto territoriale specifico.

Diciamolo senza ambiguità: questa impostazione è assolutamente corretta.

Non solo perché condivisibile ma probabilmente perché l’unica fattibile. Non ci sono due scuole uguali in tutta Italia, difficilmente ci saranno due soluzioni uguali per riaprirle. Il Ministero dà quindi correttamente la possibilità di rimodulare i gruppi di studenti, di fare turni differenziati, di bilanciare didattica in presenza e a distanza, di ricorrere al sabato per fare scuola, e così via.

Però.

Però c’è un limite importante a questo Piano, che è poi ciò che ha suscitato tante reazioni negative – di genitori, presidi, docenti e studenti – che sono ad un passo dal trasformarsi in una saldatura capace di mandare in corto circuito ogni possibilità di riaprire ordinatamente (perché non ci sarà riapertura senza la collaborazione di tutti) e nel caos il Paese. Questo «però» è la mancanza (se preferiamo possiamo dire “insufficiente previsione”, o ancora più dolcemente “inadeguata comunicazione”) delle risorse che il Ministero e tutto il Governo mette a disposizione delle scuole per rendere attuabile questa riapertura. E senza le quali il messaggio che passa è quello dell’abbandono, di scuole autonome sulla carta e in pratica lasciate sole, alla deriva.
Come se il Piano fosse un buono scheletro offerto ad una comunità scolastica che da settimane è ormai sempre più affamata di carne.

Come si rimedia? Cosa serve fare adesso?

Condivido a seguire un ragionamento fatto di tre pezzi: il primo è legato a come riaprire le scuole, nell’accezione principalmente logistico-organizzativa; il secondo a come recuperare gli studenti, nell’accezione più strettamente formativa; il terzo a come ridare alla scuola centralità, e quindi a come ristabilire nella percezione pubblica che si tratta di una priorità per chi guida in questo momento il Paese.

Attenzione: tutti e tre questi pezzi sono necessari (e ben connessi), nessuno dei tre da solo è sufficiente. Serve quindi farli tutti e tre, insieme e velocemente.
Altrimenti meglio affidarsi alla buona sorte oppure – per chi crede – farsi un bel segno di croce.

RIAPRIRE LE SCUOLE

Sul fronte logistico-organizzativo – vale a dire sulla meccanica della riapertura – serve muoversi subito su 3 fronti.

Anzitutto, perché l’autonomia scolastica funzioni, oltre a dire cosa le scuole possono fare, il Ministero indichi subito quali sono gli strumenti (e quindi le risorse) a disposizione. Investire sull’autonomia vuol dire investire sulle persone: su presidi, insegnanti, personale ATA, e in generale su tutte quelle donne e uomini che dovranno farla funzionare. Serviranno più docenti: su quanti e quali potranno contare i presidi che dovranno decidere come scomporre e ricomporre le classi, magari in base agli spazi a disposizione? A monte di tutto, serve rafforzare i dirigenti scolastici perché guidino i piani di riapertura. Rafforzarli vuol dire non lasciarli soli, nel loro lavoro quotidiano. Serve quindi che i docenti che svolgono le funzioni di collaboratori dei presidi vengano esonerati dall’insegnamento e possano così occuparsi a tempo pieno della ripartenza. Per non parlare dei direttori dei servizi generali e amministrativi, su cui c’è un concorso nazionale che fatica ad arrivare a conclusione in tempo utile per settembre. O dei bidelli, visto che aumenteranno le esigenze di sanificazione e pulizia delle scuole. E poi c’è tutto quello che riguarda il potenziamento dei servizi di trasporto locale per alunni e studenti. Su cosa si potrà contare al momento di programmare la riapertura?

Il Ministero ha bisogno di raccogliere i fabbisogni dalle scuole (ma anche dei Comuni e dei Tavoli regionali e delle Conferenze dei servizi a cui è demandata la riapertura), ma va evitato il corto-circuito: non ti do i soldi se non so cosa ti serve, ma tu non mi dici cosa ti serve perché non hai idea del margine di flessibilità che ti verrà concesso e quindi delle risorse potenzialmente disponibili.

Il decreto Rilancio ha stanziato un miliardo per il prossimo anno scolastico: 400 milioni fino a dicembre e 600 milioni da gennaio alla prossima estate. È poco, probabilmente molto poco, ma intanto è qualcosa. Il Ministero continua a ripetere che “i soldi ci sono” per venire incontro alle esigenze delle scuole. In attesa che arrivino ulteriore risorse, serve fare subito il primo passo che accompagna l’adozione del Piano: la Ministra Lucia Azzolina dica come intende usare i soldi che già ha, quali paragrafi del Piano di riapertura intende “puntellare” con questi soldi, e come li ripartirà. Faccia subito il decreto di riparto di questo miliardo, o almeno di una parte non simbolica.

Secondo, autonomia scolastica vuol dire flessibilità – che a sua volta, in attesa di ricostruire la scuola su fondamenta nuove – vuol dire sostanzialmente deroghe. Il documento del Ministero dice che è possibile fare più di una cosa ma non è chiaro se tutto quello che adesso è consentito fare si possa farlo a norme invariate. Sospetto che in alcuni casi ci sia bisogno di cambiare delle leggi: quando parliamo di ordinamenti scolastici, dimensionamento e articolazione delle classi, responsabilità dei dirigenti scolastici, semplificazioni procedurali per interventi di edilizia scolastica, continuità sui posti del sostegno per rispondere al meglio ad alunni e studenti con disabilità, e tanto altro.

Se invece l’analisi fatta è che queste deroghe a leggi in vigore non serve, allora ho il dubbio che le flessibilità concesse non saranno sufficienti per accomodare tutte le diverse esigenze che stanno venendo fuori e ancora di più emergeranno.

Non è un caso se la cosa più simile a quello che stiamo vivendo, la riapertura delle scuole in Emilia Romagna dopo il terremoto del 2012, fu possibile solo grazie ad un pacchetto di deroghe alle norme dell’epoca. E deroghe alle norme ha chiesto a fine maggio la task force del Ministero, come lo stesso Patrizio Bianchi ci ha illustrato in audizione alla Camera.

Segnalo, tra l’altro, che più risorse e più deroghe ci aiuterebbero non solo a riaprire le scuole, ma anche a fare le prove generali di una scuola nuova. Pensiamo ad esempio a classi con meno studenti, più su misura. Ridare centralità alla scuola non sarebbe solo la precondizione per riaprire gli edifici, ma anche per aprire una stagione di ripensamento complessivo della scuola così com’era fino al giorno prima del lockdown.

Capacità, infine. Il terzo fronte su cui intervenire rapidamente è quello della capacità. Perché non tutti gli uffici ministeriali sul territorio sono ugualmente capaci, né lo sono tutti i dirigenti scolastici in giro per l’Italia (come non lo sono del resto tutti i sindaci e assessori). Cosa significa? Che non basta dire “siete autonomi”… e non basta neppure dire “siete autonomi, ecco le risorse che vi servono, organizzatevi!” perché tutto magicamente funzioni al meglio dappertutto. Non basta dire: facciamo dei Tavoli regionali e delle conferenze di servizio a livello locale, senza un meccanismo attento e tempestivo di monitoraggio di cosa succede in questi tavoli e in queste conferenze, per intercettare le figure deboli, e intervenire per assisterle, accompagnarle, renderle capaci.

Altrimenti è certo che la scuola riaprirà e funzionerà – molto più di quanto avveniva anche in tempi “normali” – in maniera molto diversa in base alle capacità di chi ne ha la responsabilità. E quale sarebbe la ricaduta immediata? Differenze molto forti ed evidenti in termini di offerta educativa e di servizi scolastici, e in definitiva la certezza che a subire tutto questo siano, ancora una volta, le studentesse e gli studenti più fragili.

Ricapitoliamo: risorse, vale a dire persone e strumenti; deroghe normative; accompagnamento ministeriale per aumentare le capacità effettive di chi deve tradurre in pratica il ventaglio di opzioni previste dal Piano di riapertura. Sono ciò che serve mettere in campo subito affinché l’autonomia scolastica venga vissuta come un’opportunità e non come una iattura, e perché si riesca a riportare fisicamente alunni e studenti in classe a inizio settembre.

Basta? Certo che non basta.
Ci sono infatti altre due questioni che attengono al significato più profondo di ciò che vuol dire “riaprire le scuole” e che rendono giustizia a tutto lo sforzo che è in corso e che sarà necessario fare nelle settimane a venire.

Due questioni per restituire le scuole alla loro missione, e per dare una risposta a quel deficit di attenzione nei confronti della scuola che sempre più cittadini attribuiscono al Governo.

RECUPERARE GLI STUDENTI

In queste ore, a forza di parlare di spazi, edilizia leggera, sanificazione delle aule e distanziamento di un metro bocca a bocca, ci pare quasi che la sfida epocale sia riaprire la scuola come se fosse un insieme di locali dove fare accoglienza di minori. Ma la scuola è il luogo dove le nuove generazioni si formano, imparano, scoprono, sbagliano, iniziano a misurarsi con gli altri e soprattutto con loro stesse.

Riaprire le scuole rischia facilmente in questa fase di trasformarsi in una complessissima questione logistica. Ed è vero che senza affrontare il nodo degli spazi, del personale, della “meccanica”, tutto il resto diventa teoria. Ma è altrettanto vero che la sfida qui non è riaprire gli edifici, ma riportare tutti a scuola.

Nei giorni scorsi con una ventina di altri deputati e deputate di maggioranza abbiamo depositato alla Camera una risoluzione per chiedere di riaprire le scuole dal primo settembre. Il Governo non ha ufficialmente ancora reagito, ma informalmente ci ha fatto sapere la sua contrarietà, e del resto in queste ore si discute di raggiungere un accordo con le Regioni “attorno” al 14 settembre. Il primo settembre sarebbe troppo presto per completare le procedure legate al reclutamento, anche se quest’anno ci sarà una nuova procedura informatizzata. Ma il punto che abbiamo voluto sollevare con la risoluzione – il nostro punto politico – non è una scuola che il primo settembre funziona come funzionava lo scorso gennaio. Quello che chiediamo è che dal primo settembre la scuola si faccia carico di tutti gli studenti e le studentesse, non solo di chi deve fare “recupero” o “consolidamento” sulla base di quanto verrà stabilito dai collegi docenti. Perché non c’è un solo studente che non sia rimasto indietro dopo mesi di lockdown!

Certo, sono tutti rimasti indietro in maniera diversa: c’è chi deve recuperare un debito formativo fatto di lezioni e contenuti, chi deve recuperare socialità, chi entrambi; c’è chi ha fatto discretamente didattica online durante la quarantena e chi non ne ha fatta proprio. Ma è innegabile che tutti abbiano bisogno di essere accompagnati nel percorso di ritorno alla “normalità”.

Questo è il nervo scoperto. Questo è ciò che più preoccupa noi che abbiamo sottoscritto la risoluzione. Per questo chiediamo che si trovi un modo di farsi carico dal primo settembre di tutti gli studenti, non solo di un gruppuscolo. Come? Anzitutto effettuando una ricognizione e un’analisi dettagliata di come è andata la didattica durante il lockdown. Il Ministero dia mandato all’Invalsi di studiare cosa è successo e di trarne ogni lezione utile per intervenire in maniera mirata e “su misura” a livello di singola scuola e di singola classe. Senza dati, senza questa fotografia, si può solo procedere a tentoni, e si sa come finisce in questi casi: prima o poi si va a sbattere.

Secondo, vengano messe risorse a disposizione dei patti territoriali che coinvolgono scuole, comuni e associazioni del terzo settore. Con alcuni colleghi, a partire da Paolo Lattanzio, pensiamo sia indispensabile che gli studenti vengano coinvolti appieno e messi a co-progettare questi patti prima di beneficiarne. Avrebbe, tra l’altro, un enorme valore educativo; ne uscirebbe un gigantesco “esercizio di maturità”.

Infine, è evidente che dopo questi mesi ci sarà una prevedibile esplosione del già florido mercato delle ripetizioni private. Un mercato laterale – diciamo così – che ovviamente discrimina alla fonte in base al censo, inasprendo ulteriormente le disuguaglianze sociali. Tutte le famiglie che potranno permetterselo faranno fare ripetizioni ai propri figli, supplendo alle carenze dello Stato, ed io credo che questo non sia tollerabile, che la scuola italiana non possa permettersi di ripartire su questa premessa.

Anche qui, è forse ora di rimettere al centro la giustizia sociale e di innovare. Cosa fare? Si può pensare – come mi ha suggerito Christian Raimo – di “internalizzare” le ripetizioni, mettendo a disposizione delle scuole risorse per fare corsi di recupero aggiuntivi (e complementari) rispetto alle lezioni “normali”. Proprio a partire dal primo settembre. Corsi di recupero fatti nei locali scolastici da docenti iscritti nelle graduatorie e non assunti con contratti annuali, ad un costo orario che sia “calmierato” ma non del tutto disincentivante per i migliori. Va infatti evitato che l’incentivo economico non sia sufficiente da farli accettare o, peggio, che nonostante questa possibilità continuino a restare a casa a fare ripetizioni private.

Lo Stato si faccia carico di questa enorme preoccupazione di genitori e studenti, e sia questa l’occasione per riconsiderare complessivamente quello che accade ai margini della scuola.

SE LA SCUOLA È LA PRIORITÀ

Infine – ed è il terzo pezzo – per aiutare la riapertura e al tempo stesso accreditare credibilmente nel dibattito pubblico l’idea che la scuola è (finalmente!) diventata la priorità di Governo e Parlamento, servono alcune misure nette e non equivoche. Ne cito tre, ce ne sarebbero altre, ma diciamo che già queste basterebbero.

La prima: test sierologici gratuiti per tutti gli insegnanti e il personale della scuola. Come propone “La Scuola a Scuola”, tamponi rinofaringei periodici nelle aree a maggior rischio di contagio. C’è qualcosa di più importante che la sicurezza di alunni e studenti? Aiuterebbe anche a rassicurare i genitori e a far partire le scuole in un clima di maggiore serenità. Assieme a questo, si prevedano subito dei protocolli circoscritti per intervenire se e quando ci saranno in una scuola casi positivi al Covid-19. Gestiamo le emozioni, se non vogliamo soccombere sotto l’emotività.

La seconda: il Governo decida che il 20 settembre il voto per le elezioni amministrative e per il referendum non avrà luogo nelle scuole. Su questo stiamo insistendo molto con gli altri colleghi, a partire da Lia Quartapelle. Lo ha chiesto del resto anche Nicola Zingaretti e non ho dubbi che la ministra Luciana Lamorgese – che anni fa, da capo di gabinetto dell’Interno, quando io ero capo di gabinetto del Miur, mi aiutò brillantemente a gestire la logistica complessa di alcune prove e concorsi pubblici nazionali – sia in grado di farlo.
Lo si decida, e lo si faccia.

La terza, infine: Il Governo dichiari che il 20% di tutti i finanziamenti pubblici che arriveranno dall’Europa col Recovery Fund saranno destinati alla scuola e all’infanzia. Rendiamo credibile il lavoro in corso non per tornare alla scuola di prima, ma per traghettarci nella scuola del futuro.

* * *

Tutto questo va fatto.

Va fatto subito.

Prima che la frustrazione privata in tante case d’Italia e la rabbia pubblica in più di una piazza si trasformi in un’onda incontenibile che non riuscendo magari ad avere risposte immediate si accontenti a quel punto di un capro espiatorio.

Il Governo sia veloce, nelle misure da prendere e da comunicare.
Sono stato capo di gabinetto in quel Ministero, so bene quanto sia difficile, vedo e capisco il livello di complessità.
Ma il Governo mostri – e dimostri – di occuparsene. Di essere non solo “in charge”, ma anche “in control”.

Dieci anni fa mi ritrovai seduto – per un colloquio di lavoro a Bruxelles – di fronte ad un britannico in tuta mimetica. Era il capo dell’ufficio che gestiva tutte le missioni di peacekeeping dell’Unione europea.

Mi disse “noi non arriviamo mai in tempo”.

Si fermò per pochi lunghissimi secondi di silenzio.

“Noi arriviamo sempre appena in tempo”.