Nessuno tocchi quei 600 euro: il mondo sommerso delle finte partite IVA

Dentro al quadro di un’Italia alle prese con una pandemia che sta debilitando il Paese sotto molteplici punti di vista, una categoria di lavoratori poco nota e tuttavia piuttosto diffusa si ritrova ad affrontare difficoltà vecchie e nuove. Mi riferisco all’esercito di architetti e avvocati, “assunti” a partita IVA come condizione di fatto, i quali oggi, oltre a rischiare il posto di lavoro a causa della forte crisi che senza dubbio investirà tutto l’Occidente e non solo, sono costretti a confrontarsi con il meccanismo classista e parassitario che caratterizza l’ambiente dell’architettura e dell’avvocatura in Italia.

Buona parte dei lavoratori di queste due categorie (e di altre che purtroppo conosco meno) è infatti implicata in rapporti di lavoro di fatto subordinati, senza che tuttavia siano formalizzati come tali. Tra le due scelte possibili ed entrambe legittime – ovvero il contratto di lavoro dipendente e la possibilità di avvalersi di collaborazioni occasionali (e come tali formalizzate e gestite) con liberi professionisti – si è fatta strada negli studi professionali questa terza soluzione, che garantisce l’effetto “a fisarmonica” dell’organico in cambio della precarizzazione dello staff, con l’avallo della legge1L’Art. 69, comma 1 del D. Lgs. n. 276 del 10 settembre 2003 recita: «(Altre prestazioni lavorative rese in regime di lavoro autonomo). – 1. Le prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto sono considerate, salvo che sia fornita prova contraria da parte del committente, rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, qualora ricorrano almeno due dei seguenti presupposti: a) che la collaborazione abbia una durata complessivamente superiore a otto mesi nell’arco dell’anno solare; b) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisca più dell’80 per cento dei corrispettivi complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare; c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente. 2. […] La presunzione di cui al comma 1 non opera altresì con riferimento alle prestazioni lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi professionali qualificati e detta specifici requisiti e condizioni. che esclude dalla presunzione di lavoro subordinato – senza ragioni spiegabili – gli iscritti agli albi professionali.

La flessibilità della dimensione degli studi, variabile in base al numero di incarichi in corso, diventa così il motore di una prassi che rende immune lo studio professionale dalle eventuali crisi in cui può incappare. Il fantomatico rischio d’impresa, a partire dalla crisi del 2008, risulta sostanzialmente accantonato in cambio della precarizzazione di quasi tutti i lavoratori nell’ambito dell’architettura e dell’avvocatura.

Il fantomatico rischio d’impresa, a partire dalla crisi del 2008, risulta sostanzialmente accantonato in cambio della precarizzazione

Tuttavia, da allora la situazione è piuttosto cambiata: i fatturati degli studi professionali sono liberamente consultabili, anche attraverso graduatorie annuali che mostrano cifre esorbitanti per alcuni di loro. La cosa sorprendente è che spesso sono proprio gli studi in cima alle graduatorie quelli più inclini allo sfruttamento dei collaboratori, sia per la folle quantità di ore di lavoro svolte, sia per la miseria economica che viene loro imposta.

Il risultato è una massa straordinariamente numerosa di architetti e avvocati2In Italia si contano 243mila avvocati iscritti alla Cassa Forense, di cui il 70% denuncia un reddito inferiore ai 10mila euro (dato Censis), e circa 155mila gli architetti iscritti agli albi professionali (di questi circa 90mila sono iscritti a Inarcassa con un reddito medio di 18.900€ annuo). privi di diritti, alle prese con la gestione fiscale del lavoro autonomo, intimati – verbalmente – ad essere presenti in studio negli orari di apertura dell’ufficio stesso (spesso i collaboratori stessi vengono dotati di chiavi per poter essere autonomi nell’apertura in giorni festivi o nella chiusura in orari notturni), privi di un contratto di collaborazione, di una lettera di incarico, di qualunque forma di accordo scritto, senza avere chiaro se le ferie si maturino e siano retribuite, se lo studio chiuda per il ponte del primo maggio o nelle settimane centrali di agosto, senza avere idea di cosa implicherebbe un infortunio, un periodo di malattia o addirittura una gravidanza.

Tutto questo in cambio del pagamento di fatture mensili per l’ammontare di cifre che si aggirano tra i 500€ e i 2000€3I pochi dati statistici a disposizione fanno riferimento a un questionario diffuso nel 2014 dall’associazione culturale Gizmo, al quale hanno risposto circa 300 professionisti inquadrati come finte partite IVA. I risultati del questionario mostrano i seguenti dati: i professionisti a partita iva (128 dei partecipanti), di età media 31 anni, quasi tutti (86%) iscritti all’Ordine degli Architetti, dichiarano uno stipendio netto mensile di 952€ di media a fronte di un impiego full time. Circa la metà dei partecipanti al questionario afferma che a volte (48%) o spesso (23%) capita di lavorare il sabato e/o la domenica; il 10% sostiene di lavorare spesso o sempre anche di notte, il 64% a volte. In media il salario aumenta di 11€ al mese per anno di età. Il 59% non ha ferie retribuite.. Bisognerebbe poi fare due conti su queste cifre, perché pur nella migliore delle ipotesi in cui si riesca a fatturare 2000€ al mese (e questi casi sono davvero rari, per lo meno nell’ambito dell’architettura; si può dire che in media le fatture ammontino a 1000-1300€), si tratta di meno di 1500€ netti (nell’ipotesi di regime forfettario, altrimenti parliamo di circa 1200€, escluso il costo del commercialista), senza nulla più di quella cifra. Stiamo parlando di professionisti che guadagnano meno di impiegati non specializzati4A titolo esemplificativo, la retribuzione mensile di un operatore di vendita di II livello è di 1.100€ netti, lo stipendio medio di un impiegato amministrativo è di 1.350 € netti al mese (contratti CCNL). e non hanno alcuna tutela.

Come se tutto ciò non fosse sufficiente, dal momento in cui anche Inarcassa e Cassa Forense hanno scelto di concedere un bonus di 600€ ai loro iscritti con fatturato inferiore a 35-50.000 euro, diverse testimonianze dirette hanno raccontato che gli studi professionali per cui prestano collaborazione full time hanno chiesto loro di emettere la fattura di marzo decurtata di 600€, a parità di ore lavorate rispetto agli altri mesi dell’anno, “perché tanto ve li dà Inarcassa/Cassa Forense”: in fondo perché non approfittare di un risparmio così cospicuo? C’è addirittura chi, a fronte di un rifiuto, ha imposto una negoziazione affinché il collaboratore non fosse l’unico a “guadagnare” dall’attuale pandemia.

Un sussidio ai singoli diventa così, in questo paese in cui molti aspetti ancora sfuggono alla legislazione, un sussidio per aziende che fatturano anche diversi milioni di euro l’anno, con il silenzioso assenso dei suoi attori secondari (gli architetti e gli avvocati “dipendenti”) che per lo più non possono che accettare a testa bassa (“tanto alla fine il nostro compenso rimane lo stesso”) per paura di perdere il lavoro in primis, e perché ormai soggiogati da un sistema di sfruttamento che oscura ogni tipo di ambizione ai diritti di base del lavoratore.

Un sussidio ai singoli diventa un sussidio per aziende che fatturano anche diversi milioni di euro l’anno

Parliamo di un paese in cui le differenze di classe vengono, in questo tipo di rapporti di lavoro, sottolineate e rimarcate, in cui il “dipendente senza diritti” non può ricevere nemmeno 600€ in più una tantum perché il suo reddito è e deve rimanere quello deciso dal “datore di lavoro”, e non può certo sperare, desiderare, ambire, esigere di avere – per una volta – qualcosa di più di quel che già ha. Il suo reddito determina la sua condizione sociale. Il datore di lavoro ragiona come se il collaboratore a partita IVA lavorasse esclusivamente per lui (certo, verrebbe da chiedersi quando potrebbe trovare il tempo per lavorare per altri), nonostante l’assenza di vincoli contrattuali, e decide che questo poveraccio non possa accedere al bonus statale perché ciò che gli entra nelle tasche è roba sua.

Ma che ne sanno questi se i loro collaboratori hanno perso degli incarichi aggiuntivi (che avrebbero tutto il diritto di svolgere di notte, la domenica, in pausa pranzo) a causa della crisi economica che sta investendo il nostro paese? Ma che ne sanno della precarietà nella quale sono stati gettati oggi più di ieri, dato che se non hanno ancora perso il lavoro non è affatto detto che non lo perderanno il mese prossimo?

È sorprendente come certe situazioni possano continuare in questo modo, soprattutto per categorie professionali preparate, competenti, che hanno investito anni, energie e soldi per studiare; come mai non si riescono a unire le moltissime forze per almeno provare a uscire dal pantano in cui si sono ritrovati a furia di silenzi, accettazione e remissività?

Ma forse è proprio su questi silenzi e su questa omertà che è necessario fare luce, perché se è sempre immediato e più pungente orientare la critica nei confronti del “padrone” che sfrutta gli “schiavi”, meno semplice ma forse più efficace è fare luce sul sussistere di una effettiva corresponsabilità attribuibile proprio a quelle categorie di lavoratori che col tempo hanno scordato di avere dei diritti, hanno smesso di far valere le proprie posizioni, hanno cominciato ad accettare ogni tipo di condizione.

Finché ci sarà qualcuno – laureato, preparato, capace – che accetterà una posizione di lavoro sottopagata a condizioni di semischiavitù, permarranno anche queste condizioni. In un sistema capitalistico, e in assenza di vincoli legali, è il mercato che detta le regole: per quanto sia improbabile che gli architetti, gli avvocati e gli altri lavoratori inquadrabili come finte partite IVA smettano da un giorno all’altro di sottomettersi al volere del committente-datore di lavoro in cambio di un’entrata fissa, la realtà è che non vi sono molte alternative.

Non si può sperare che gli ordini professionali si comportino come un sindacato

Non si può sperare che gli ordini professionali si comportino come un sindacato, in primis perché non lo sono, ma soprattutto perché praticamente nessuna di queste situazioni è mai stata denunciata, mai un nome, mai delle “prove”, mai nulla se non la partecipazione anonima a questionari di settore in cui chi ha partecipato si è potuto sfogare in merito alle condizioni drammatiche nelle quali si è ritrovato a lavorare, o al massimo qualche lamentela più o meno accesa sui social.

Provammo – io e alcuni miei colleghi – a dare maggiore fondamento scientifico a queste questioni nel 2016, quando ci occupammo della curatela di un libro intitolato Backstage. L’architettura come lavoro concreto (Franco Angeli, 2016), ma già allora ci rendemmo conto che non era semplice ottenere informazioni chiare e dati statistici a supporto (in quel caso la ricerca era incentrata sugli studi di architettura, come è evidente dal titolo).

Oggi forse è più chiaro il punto: l’attenzione non va posta esclusivamente sugli architetti, e occorre conseguentemente abbandonare la speranza in una risposta risolutiva da parte degli ordini professionali; la vera unione di categoria, in questo caso, è data da coloro che si ritengono finte partite IVA. Ed è una condizione molto precisa: si tratta di chi la partita IVA nemmeno l’avrebbe aperta, se avesse potuto; chi ritiene fondamentale avere un’entrata fissa e, conseguentemente, accetterebbe un contratto a tempo indeterminato senza pensarci un momento.

Tutti gli altri, se volevano essere dei liberi professionisti, imparassero a concordare condizioni eque con i loro committenti e a non svalutare il valore del proprio lavoro: chi svaluta il proprio lavoro, contribuisce a svalutare il lavoro di tutti.

E che nessuno si azzardi a toccare quei miseri 600€.